Siamo
abituati a pensare l’esistenza in termini di tempo ma è solo attraverso il
luogo che essa acquisisce consistenza e senso.
Privato
o condiviso, la casa o il “posto” di lavoro: ogni luogo non è mai neutro né un
fondale, ma il grande teatro della possibilità.
È nello spazio che ci mettiamo
in gioco, e nello spazio ci è dato di incontrare ciò che accomuna tutti:
l’universalmente umano.
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di SERGIO GIVONE
Il
tratto di tempo che a ciascuno di noi è dato di vivere nel panorama della
storia universale è uno spazio minimo, un quasi niente, un’inezia. Però è uno
spazio. Lo spazio in cui per l’appunto “ha luogo” la nostra vita. Abbiamo
bisogno di usare questa parola − spazio, invece di tempo − perché altrimenti la
nostra vita rischia di sfumare in una serie di istanti indifferenziati e di
perdere il suo significato unitario e il suo valore simbolico, mentre essa li
acquista non appena venga rapportata alle situazioni, alle circostanze, agli
ambienti. Il tempo, come già affermava Aristotele, è scandito da un’infinità di
momenti che si distinguono unicamente secondo il prima e il poi e che in fondo
sono tutti uguali. Invece lo spazio, sosteneva Platone, è bensì vuoto, ma
simile a una matrice fatta di cera e pronta ad accogliere tutte le forme
dell’essere.
Le
prospettive filosofiche che mettono al centro il tempo (più o meno tutte quelle
moderne) devono poi fare i conti con il problema del nulla e cioè col fatto che
la temporalità elevata a paradigma supremo ha come esito il nichilismo.
Carattere specifico del tempo è la dissoluzione di ogni cosa, la vanificazione
di tutto ciò che è. Tempus edax rerum significa che il tempo si divora la
realtà tutt’intera. Quando invece il primato va allo spazio, tutto cambia. È lo
spazio che ci mette in rapporto con l’eterno. O quanto meno con la speranza che
qualcosa di noi resti, per sempre. A questa speranza si riferisce la preghiera
per i morti che invoca l’eterno riposo per tutti coloro che non sono più. Che
cosa significa questo eterno riposo se non poter sostare eternamente nella
verità del proprio essere? Sostare: termine che ha una connotazione spaziale
prima che temporale. Infatti il punto essenziale è dove sostare. Sostare nella
verità, sostare in Dio.
Tra
coloro che hanno messo al centro del loro pensiero lo spazio (anziché il tempo)
ci sono i sufi, mistici islamici. I sufi fanno riferimento anzitutto allo
spazio vuoto. Cioè allo spazio che, proprio perché vuoto, si lascia riempire
dai gesti che danno senso all’esistenza di ogni uomo, dal più misero al più
elevato degli uomini: i gesti della libertà. Muoversi nello spazio vuoto, non
impediti da nulla, significa muoversi liberamente. Che è come dire: nel solo
modo veramente degno. Espressione artistica ma anche religiosa di questa
dignità è la danza. Non è necessario spingersi tanto lontano e sfidare le più
vertiginose altezze del pensiero per capire quanto
sia necessario fare i conti con lo spazio. Basta pensare all’importanza che
rivestono i luoghi da noi abitati. La nostra casa, ad esempio. Che è nostra non
solo e non tanto perché ce ne siamo appropriati, ma perché in essa ci
appropriamo di noi stessi. Nella nostra casa, più che altrove, noi siamo
veramente noi. Anzi, potremmo dire che lì noi ci riconosciamo per quelli che
veramente siamo. Lo stesso dovrebbe valere anche per il “posto” per
antonomasia, il posto di lavoro. Che è un buon posto di lavoro, se ci sentiamo
a nostro agio e come a casa. È un cattivo posto di lavoro, se ci fa sentire
estranei, assoggettati a dinamiche alienanti, e come strappati a noi stessi.
Perfino
le esperienze che ci portano lontano dai luoghi consueti − per turismo, per vacanza,
per necessità − possono essere positive o negative a seconda di come gli spazi
ci accolgono (o ci respingono). Ci sono luoghi con cui si entra immediatamente
in sintonia, in cui si sta bene senza sapere perché, e dove si vorrebbe
tornare. E luoghi che avvertiamo come ostili e inabitabili prima ancora di
averli effettivamente abitati. Che cosa significa tutto ciò? Significa tante
cose, naturalmente. Ma una in particolare. E cioè che lo spazio non è mai
neutro. E non è, non può essere, solo un fondale di palcoscenico. Al contrario,
è nello spazio che noi ci mettiamo in gioco. Nello spazio dell’abitare, nello
spazio condiviso in cui ci è dato di incontrare ciò che accomuna tutti.
L’universalmente umano.
E
allora come continuare a far finta di niente di fronte al più grave dei
problemi del nostro tempo? Come distogliere lo sguardo di fronte al fatto che
la terra, la nostra casa comune, sta diventando inabitabile? Lo sta diventando
non per un’arcana necessità, ma per colpa nostra, per la nostra irresponsabilità.
Dovevamo prenderci cura della terra come di un bene che ci è stato affidato.
Che cosa ne abbiamo fatto, invece?
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