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Vangelo ✝ Gv 6,51-58 – Corpus Domini -Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 11 giugno 2023.
Questo
brano costituisce la parte conclusiva del cosiddetto Discorso sul pane della
vita, tenuto da Gesù nella sinagoga di Cafarnao, dopo la moltiplicazione dei
pani e dei pesci.
Il
prodigio ha suscitato grande meraviglia, sfociata in incontenibile entusiasmo e
in pericolosa esaltazione collettiva: la gente, visto il segno, decide di
catturarlo per farlo re (Gv 6,14-15).
Come
mai queste folle, stupite e ammirate, cercano Gesù? Verrebbe da rispondere:
perché hanno capito che in lui agisce il potere di Dio, dunque credono in lui.
In realtà sono vittime di un pericoloso equivoco, sono mosse da una fede
immatura: si interessano a Gesù solo perché lo ritengono capace di soddisfare,
mediante i miracoli, i loro bisogni materiali.
La
fede matura è tutt’altra cosa: è quella di chi capisce che Gesù non compie
prodigi per stupire, ma per introdurre in una realtà più profonda. Nella
guarigione del cieco nato, il vero credente intuisce che Gesù si presenta come
la luce del mondo; nell’acqua tramutata in vino scopre il dono dello Spirito,
fonte di gioia; nella rianimazione di Lazzaro comprende che Gesù è il Signore
della vita; nel pane distribuito alla gente affamata scorge Gesù, l’alimento
che sazia.
A
Cafarnao invece la folla non capisce, si ferma all’aspetto esteriore,
superficiale dell’avvenimento. Ha bisogno di essere aiutata a passare dalla
ricerca del “cibo che perisce” a quello che “dura per la vita eterna” (Gv
6,27). Un’impresa difficile, ma Gesù la tenta.
Comincia
presentandosi come il pane della vita disceso dal cielo (Gv 6,33-35). Dichiara
che chi ascolta lui, chi assimila il suo messaggio, il suo vangelo, si nutre
delle parole di vita. Chi invece si alimenta di altre parole – anche se
piacevoli e accattivanti – ingerisce veleni di morte.
La
sua affermazione è inaudita. Per i giudei il pane disceso dal cielo è la manna
(Sal 78,24) e il cibo che nutre è la parola di Dio (Is 55,1-3). Come può “il
figlio di Giuseppe” arrogarsi simili prerogative? – si chiedono indignati – Chi
pretende di essere? (Gv 6,42). Anche la samaritana aveva reagito in modo
simile: “Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe?” (Gv 4,12).
Invece
di mitigare la sua pretesa, Gesù fa una dichiarazione ancora più sorprendente.
Il pane da mangiare non è soltanto la sua dottrina, ma la sua stessa carne: “Il
pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”. Sono le parole con cui
inizia il brano di oggi (v. 51).
Per
non equivocarne il significato (per non essere indotti a immaginare un atto
cannibalesco), va precisato che, quando nella Bibbia si afferma che “l’uomo è
carne” (Gn 6,3), non ci si riferisce al fatto che è rivestito di muscoli, ma
che è debole, fragile, precario, soggetto alla morte. Per esempio, di fronte
alle miserie morali degli israeliti, Dio – dichiara il salmista con un audace
antropomorfismo – placa la sua ira e trattiene il suo furore perché “si ricorda
che essi sono carne, un soffio che scompare e più non ritorna” (Sal 78,39).
Quando, nel prologo del suo vangelo, Giovanni dice che “il verbo si è fatto
carne” (Gv 1,14) si riferisce all’abbassamento del Figlio di Dio, alla sua
discesa al livello infimo, sottolinea la sua accettazione degli aspetti più
caduchi della condizione umana.
Mangiare
questo Dio fatto carne significa riconoscere che la rivelazione di Dio giunge
nel mondo attraverso “il figlio del falegname” e accogliere questa sapienza
venuta dal cielo.
Anche
dopo questa precisazione, tuttavia, l’aspetto scandaloso della proposta di Gesù
rimane. Come si può “mangiare la sua persona”? La reazione scandalizzata degli
ascoltatori è comprensibile e giustificata: “Come può costui darci la sua carne
da mangiare?” (v. 52). Capiscono che egli non si riferisce solo
all’assimilazione spirituale della rivelazione di Dio, ma anche ad un “mangiare”
reale. Cosa intende dire?
Gesù
non si preoccupa del loro imbarazzo e riafferma quanto ha già detto,
aggiungendovi una richiesta ancora più provocatoria: è necessario bere anche il
suo sangue (vv. 52-56). Molti testi biblici proibiscono severamente la pratica
di bere sangue “perché la vita della carne è nel sangue” (Lv 17,10-11) e la
vita non appartiene all’uomo, ma a Dio. Si tratta dunque di assimilare la sua
vita.
È
a questo punto che si inserisce il discorso sull’Eucaristia.
Prima
di spiegare il significato che, nel suo discorso, Gesù attribuisce a questo
sacramento “fonte e apice di tutta la vita cristiana”, vorrei mettere in
guardia da alcune interpretazioni riduttive e anche fuorvianti, derivate da una
certa catechesi devozionale e intimistica, non supportata da fondamenti
biblici. Mi riferisco a quella spiritualità eucaristica che parlava del “divin
prigioniero”, che esortava ad andare in chiesa a “fare compagnia, a consolare
Gesù”. L’Eucaristia non ha lo scopo di catturare Gesù per tenerlo più vicino,
per avere un’opportunità maggiore di convincerlo a concedere grazie,
approfittando del fatto che “è venuto a visitarci”, che “è venuto nel nostro
cuore”. È stata istituita come alimento da mangiare e anche quando viene
esposta all’adorazione (meglio nella pisside in cui è stata consacrata che
nell’ostensorio) è per essere consumata come cibo. Solo così mantiene il suo
autentico significato.
Se
partiamo dalla constatazione che, per raggiungere l’unione di vita con Cristo,
basta la fede nella sua parola, giustamente ci chiediamo: perché è necessario
accostarsi a ricevere anche il sacramento? Perché Gesù ha aggiunto una
richiesta tanto difficile da comprendere: mangiare la sua carne e bere il suo
sangue nei segni del pane e del vino?
Sappiamo
che, per mancanza di presbiteri, la domenica la maggioranza delle comunità
cristiane non si raduna attorno alla mensa del pane eucaristico, ma attorno
alla parola di Dio e siamo certi che, da quest’unico cibo per loro disponibile,
esse ricevono abbondanza di vita.
È
significativo che, al v. 54, Gesù dica che chi mangia la sua carne e beve il
suo sangue ha la vita eterna, esattamente come al v. 47 afferma che lo stesso
risultato è conseguito da coloro che credono nella sua parola. Perché allora
l’eucaristia?
Anzitutto
bisogna sottolineare che questo sacramento – che rende realmente presente il
Risorto – non sostituisce la fede nella parola di Cristo. Accostarsi a ricevere
la comunione non equivale a compiere un rito magico e l’ostia non è una specie
di pillola che agisce automaticamente e guarisce il malato, anche se dorme o ha
perso conoscenza.
Non
basta fare molte comunioni per ricevere la grazia del Signore. Gesù non ha
detto di fare molte comunioni, ma di “mangiare la sua carne e bere il suo
sangue”.
Ecco
la ragione per cui, prima di ricevere il pane eucaristico, è necessario
ascoltare e meditare un brano evangelico. La lettura della parola di Dio è la
premessa imprescindibile.
Quando
si firma un contratto, quando si stipula un’alleanza, si devono prima conoscere
e valutare attentamente tutte le clausole. Chi accetta di divenire una sola
persona con Cristo nel sacramento, deve essere cosciente della proposta che gli
viene fatta e prendere la ferma decisione di accoglierla. È il senso
dell’accorata raccomandazione di Paolo: “Ciascuno esamini se stesso e poi mangi
di questo pane e beva di questo calice”, per non mangiare e bere la propria
condanna (1 Cor 11,28-29).
Il
gesto di stendere la mano per ricevere il pane consacrato è il segno della
disposizione interiore ad accogliere Cristo e a far sì che i suoi pensieri
divengano i nostri pensieri, le sue parole le nostre parole, le sue scelte le
nostre scelte. Nel segno dell’eucaristia, la sua persona viene assimilata, come
accade con il pane.
Il
cambiamento, la metamorfosi avverranno molto lentamente, il processo sarà
segnato da successi e fallimenti, ma l’umile ascolto della Parola e la
comunione con il corpo di Cristo compiranno il miracolo. Un giorno, il
discepolo gioirà della trasformazione attuata in lui dallo Spirito che opera
nel sacramento e giungerà ad esclamare, come Paolo: Ora “non sono più io che
vivo, ma è Cristo che vive in me” (Gal 2,20) .
Cercoiltuovolto
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