Francesco
dedica la Lettera apostolica "Sublimitas et miseria hominis"
all’opera del filosofo e teologo francese, nel quarto centenario dalla nascita.
“Un compagno di strada - lo definisce - che accompagna la nostra ricerca della
vera felicità” e “il nostro riconoscimento umile e gioioso del Signore morto e
risorto”. Un pensatore geniale attento ai bisogni dei poveri
Fin da bambino
e per tutta la vita, ricorda Francesco, “ha cercato la verità” e con la ragione
“ne ha rintracciato i segni, specialmente nei campi della matematica, della
geometria, della fisica e della filosofia”. “Ha fatto precocemente scoperte
straordinarie” ma non si è accontentato, e in un secolo di grandi progressi scientifici,
“accompagnati da un crescente spirito di scetticismo filosofico e religioso”,
Blaise Pascal “si è mostrato un infaticabile ricercatore del vero”, sempre
“inquieto”, attratto “da nuovi e ulteriori orizzonti”. Per questo non poteva
mettere a tacere l’antica domanda nell’animo umano, riportata dal salmista:
“Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te
ne curi?”. “Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla” scrive
in una meditazione riportata nei suoi Pensieri, insieme di “frammenti
pubblicati postumi che sono le note o le bozze di un filosofo animato da un
progetto teologico”.
Non si chiude agli altri nemmeno nell'ultima malattia
Il suo
atteggiamento di fondo, secondo il Pontefice, è di “stupita adesione alla
realtà”, che lo porta ad aprirsi ad altre dimensioni del sapere ma anche alla
società. Pascal, ad esempio, nel 1661, ideò a Parigi, “la prima rete di
trasporti pubblici della storia, le ‘Carrozze a cinque sols’”. E nemmeno la sua
conversione a Cristo, né “il suo straordinario sforzo intellettuale di difesa
della fede cristiana – sottolinea Papa Francesco - hanno fatto di lui una
persona isolata dal suo tempo”. Così attento ai problemi sociali da “non
chiudersi agli altri nemmeno nell’ora dell’ultima malattia”. Un suo biografo
riporta queste sue parole, che, commenta il Papa, “esprimono il passo
conclusivo del suo cammino evangelico”: “Se i medici dicono il vero, e Dio
permette che mi rialzi da questa malattia, sono deciso a non avere alcun altro
impiego né altra occupazione per tutto il resto della mia vita che il servizio
ai poveri”. È commuovente, scrive Francesco, che un pensatore geniale come
Pascal, alla fine della vita, “non vedesse altra urgenza al di sopra di quella
di mettere le sue energie nelle opere di misericordia: ‘L’unico oggetto della
Scrittura è la carità’”.
Il Pontefice,
con la sua Lettera, intende “evidenziare ciò che, nel suo pensiero e nella sua
vita, mi sembra adatto a stimolare i cristiani del nostro tempo e tutti gli
uomini e le donne di buona volontà nella ricerca della vera felicità”, perché
Pascal, a quattro secoli di distanza, “rimane per noi il compagno di strada che
accompagna la nostra ricerca della vera felicità e, secondo il dono della fede,
il nostro riconoscimento umile e gioioso del Signore morto e risorto”. Questo
perché “ha parlato mirabilmente della condizione umana”, ma non solo da
specialista dei costumi umani, quanto da uomo che mette al centro dei suoi
Pensieri Gesù Cristo e la Sacra Scrittura. Era infatti arrivato alla certezza
che, sono parole del filosofo, “non solo non conosciamo Dio se non tramite Gesù
Cristo, ma non conosciamo noi stessi se non tramite Gesù Cristo”. È
un'affermazione “estrema”, ma non dottrinale, che Papa Francesco chiarisce nel
documento.
Pascal, “uomo
dall’intelligenza prodigiosa”, era preoccupato di far conoscere a tutti che
“Dio e il vero sono inseparabili”, ma anche che “al di fuori della prospettiva
dell’amore non c’è verità che valga”. “Ci si fa un idolo persino della verità
stessa – si legge nei Pensieri - perché la verità fuori della carità non è Dio,
ma è la sua immagine e un idolo che non bisogna amare, né adorare”. Il Papa è
convinto che “l’intelligenza e la fede viva di Pascal, che ha voluto mostrare
che la religione cristiana è ‘venerabile perché ha conosciuto bene l’uomo’, e
‘amabile perché promette il vero bene’, possono aiutarci ad avanzare attraverso
le oscurità e le disgrazie di questo mondo”.
Uno spirito scientifico eccezionale
Francesco ricorda
l’infanzia di Blaise, che perde la madre a soli 3 anni, con il padre, giurista
e matematico, che per curare da solo l’educazione dei tre figli (anche le
sorelle Jaqueline e Gilberte) trasferisce la famiglia a Parigi quando Blaise ha
9 anni. E già allora dimostrava da solo i teoremi geometrici, ancora prima di
leggerli sui libri. “Nel 1642, a diciannove anni - scrive il Pontefice -
inventa una macchina di aritmetica, antenata delle nostre calcolatrici”. Così
Pascal “ci richiama la grandezza della ragione umana, e ci invita a servircene
per decifrare il mondo che ci circonda”. Il suo “spirito di geometria”, un
esercizio fiducioso della ragione naturale, “lo rende solidale con tutti i
fratelli umani in cerca di verità” e “gli permetterà di riconoscere i limiti
dell’intelligenza stessa e, nel contempo, di aprirsi alle ragioni
soprannaturali della Rivelazione”. Nei suoi Pensieri riporta un paradosso:
“Alla Chiesa fu altrettanto difficile mostrare, contro chi lo negava, che Gesù
Cristo era uomo, quanto mostrare che era Dio. E le apparenze erano altrettanto
grandi”.
L’amore
appassionato per Cristo di Pascal “e il servizio ai poveri, non sono stati
tanto il segno di una frattura nello spirito di questo discepolo coraggioso -
prosegue Papa Francesco - quanto quello di un approfondimento verso la
radicalità evangelica, di un avanzare verso la vivente verità del Signore, con
l’aiuto della grazia”. Aveva la certezza soprannaturale della fede e “la vedeva
tanto conforme alla ragione” anche se la oltrepassava “infinitamente” e di
questo discuteva animatamente con quanti non la possedevano. A loro, scriveva,
“non possiamo darla se non mediante il ragionamento, in attesa che Dio la doni
loro mediante il sentimento del cuore”. Pascal ammirava la sapienza degli
antichi filosofi greci, ma sottolineava che la ragione non può, da sola,
“risolvere le questioni più alte e più urgenti”.
Il tema che più
interessava l’uomo ai suoi tempi e anche oggi è, ricorda il Papa, “quello del
senso integrale del nostro destino, della nostra vita, e della nostra speranza,
protesa a una felicità che non è proibito di concepire eterna, ma che Dio è
autorizzato a donare”. Nei Pensieri si ritrova il principio fondamentale che
“la realtà è superiore all’idea”, e dovremmo ricordarlo, scrive Francesco, oggi
che “le ideologie mortifere di cui continuiamo a soffrire in ambito economico,
sociale, antropologico e morale tengono quanti le seguono dentro bolle di credenza
dove l’idea si è sostituita alla realtà”.
Parlando,
sempre per paradossi, della condizione umana, Pascal ricorda, con realismo,
secondo il Pontefice, che esiste “una sproporzione insopportabile tra, da una
parte, la nostra volontà infinita di essere felici e di conoscere la verità e,
dall’altra, la nostra ragione limitata e la nostra debolezza fisica, che
conduce alla morte”. Che ci “minaccia ad ogni istante” ed è “la fine che
attende la vita più bella del mondo”. Per questo l’uomo non può “rimanere solo
in se stesso”, poiché “la sua miseria e l’incertezza del suo destino gli
risultano insopportabili”. Deve distrarsi, e da qui che deriva “che gli uomini
amano tanto il clamore e il movimento”. Lo fa con il lavoro, i piaceri e le
relazioni familiari e amicali, ma anche con i vizi. Così sperimenta la sua
dipendenza, il suo vuoto e anche la noia, la tristezza e la disperazione.
“Un abisso infinito”
definisce questa condizione umana il filosofo, che “non può essere colmato se
non da un oggetto infinito e immutabile, ossia da Dio stesso”. L’uomo è al
tempo stesso, per Pascal, “giudice di tutte le cose, debole verme della terra,
depositario del vero, cloaca di incertezza e di errore, gloria e rifiuto
dell’universo”. Opposti inconciliabili dalla ragione umana. “Le grandezze e le
miserie dell’uomo sono così palesi - si legge nei Pensieri - che
necessariamente occorre che la vera religione ci insegni che c’è nell’uomo
qualche grande principio di grandezza, e che c’è un grande principio di
miseria. Inoltre, occorre che essa ci spieghi questi stupefacenti contrasti”.
Così Pascal, che “ha scrutato con la singolare forza della sua intelligenza la
condizione umana, la Sacra Scrittura e la tradizione della Chiesa”, per Papa
Francesco si propone “quale umile testimone del Vangelo”. È il cristiano che
“vuole parlare di Gesù Cristo a quanti concludono un po’ in fretta che non ci
sono ragioni consistenti per credere alle verità del cristianesimo”, perché sa
“che ciò che si trova nella Rivelazione non solo non si oppone alle richieste
della ragione, ma apporta la risposta inaudita alla quale nessuna filosofia
avrebbe potuto giungere da se stessa”.
Nella lettera
apostolica il Papa analizza poi l’esperienza mistica della “Notte di fuoco” del
23 novembre 1654, così intensa e determinante che Pascal la fissa su un pezzo
di carta “il Memoriale”, tenuto poi infilato nella fodera del mantello, è che è
stato scoperto solo dopo la sua morte. Definisce il suo incontro in analogia
con quello vissuto da Mosè davanti al roveto ardente. “Sì, il nostro Dio è
gioia – commenta Francesco - e Blaise Pascal lo testimonia a tutta la Chiesa come
pure a tutti i cercatori di Dio”. Non è “il Dio astratto o il Dio cosmico”
scrive il filosofo e teologo francese, ma è “il Dio di una persona, di una
chiamata, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio che è certezza, che
è sentimento, che è gioia”. Quella notte Pascal vive “l’esperienza dell’amore
di quel Dio personale, Gesù Cristo”, che lo trascina “sulla via della
conversione profonda e quindi della ‘rinuncia totale e dolce’, perché vissuta
nella carità, all’ ‘uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni
ingannevoli’”. Prima di quella notte, Pascal non ha alcun dubbio sull’esistenza
di Dio, ciò che gli manca, scrive Gouhier, “e che attende, non è un sapere ma
un potere, non una verità ma una forza”. Che gli viene donata, chiarisce il Pontefice,
“per grazia”.
Papa Francesco
cita poi Benedetto XVI che ricordava come “la tradizione cattolica sin
dall’inizio ha rigettato il cosiddetto fideismo, che è la volontà di credere
contro la ragione”, e Pascal è profondamente attaccato alla “ragionevolezza
della fede in Dio”. Ma se la fede è ragionevole, è anche un dono di Dio, e non
potrebbe imporsi: “Non si dimostra che si deve essere amati esponendo con
ordine le cause dell’amore. Sarebbe ridicolo” osserva Pascal con la finezza del
suo umorismo. Come hanno ricordato i padri conciliari nella dichiarazione
Dignitatis humanae, Gesù ha reso testimonianza alla verità, ma “non volle
imporla con la forza a coloro che la respingevano”.
Se la fede è di
un ordine superiore alla ragione, chiarisce ancora il Papa, “ciò non significa
affatto che vi si opponga, ma che la supera infinitamente”. Leggere l’opera di
Pascal, quindi, “è mettersi alla scuola di un cristiano di razionalità
eccezionale, che ha saputo tanto meglio rendere conto di un ordine stabilito
dal dono di Dio al di sopra della ragione”. Il filosofo analizza anche l’
“intelligenza intuitiva”, che chiama il “cuore”: “Conosciamo la realtà - scrive
- non solo con la ragione, ma anche con il cuore”. Le verità divine, commenta
Francesco, “come il fatto che il Dio che ci ha fatti è amore, che è Padre,
Figlio e Spirito Santo” non sono “dimostrabili con la ragione, ma possono
essere conosciute con la certezza della fede, e passano poi dal cuore
spirituale alla mente razionale, che le riconosce come vere e può a sua volta
esporle”. Pascal, sottolinea ancora il Pontefice, “non si è mai rassegnato al
fatto che alcuni suoi fratelli in umanità non solo non conoscono Gesù Cristo,
ma disdegnano per pigrizia, o a causa delle loro passioni, di prendere sul
serio il Vangelo”, e pone, scrive “un’estrema differenza tra quanti si
impegnano con tutte le loro forze per istruirsi, e quanti vivono senza darsene
pena né pensiero”.
In conclusione,
Papa Francesco analizza i rapporti di Pascal con il Giansenismo. Ricorda che
Jaqueline, una delle sorelle, era entrata nella vita religiosa a Port Royal,
“in una congregazione la cui teologia era molto influenzata da Cornelius
Jansen”. E che Pascal era andato in ritiro nell’abbazia di Port Royal. Quando,
nei mesi seguenti, una controversia importante, che opponeva i Gesuiti ai
“Giansenisti”, si risvegliò alla Sorbona, sulla questione del rapporto tra la
grazia di Dio e la natura umana, e il libero arbitrio, il filosofo, che pure
non era un uomo di parte, fu incaricato dai Giansenisti di difenderli. Lo fece,
tra il 1656 e il 57, pubblicando diciotto lettere, dette Provinciali. Il Papa commenta
che alcune delle sue affermazioni, riguardanti ad esempio la predestinazione,
tratte dalla teologia dell’ultimo Sant’Agostino, “non suonano giuste”.
Ma aggiunge che
“come Sant’Agostino aveva voluto combattere nel V secolo i Pelagiani, i quali
sostenevano che l’uomo può con le proprie forze e senza la grazia di Dio fare
il bene ed essere salvato, Pascal ha creduto sinceramente di opporsi al
pelagianesimo o al semi-pelagianesimo che riteneva di identificare nelle dottrine
seguite dai Gesuiti molinisti” (dal nome del teologo Luis de Molina).
“Facciamogli credito sulla franchezza e la sincerità delle sue intenzioni” è
l’invito di Francesco. Che non vuole “riaprire la questione”, ma sottolinea
“che ciò che vi è di giusta messa in guardia nelle posizioni di Pascal vale
ancora per il nostro tempo: il ‘neo-pelagianesimo’, che vorrebbe far dipendere
tutto ‘dallo sforzo umano incanalato attraverso norme e strutture ecclesiali’”
ci intossica “con la presunzione di una salvezza guadagnata con le nostre
forze”. E che è “perfettamente cattolica” l’ultima posizione di Pascal, prima
della morte, riguardo alla grazia, “e in particolare al fatto che Dio ‘vuole
che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità’”.
Infine, quando
compone la sua magnifica Preghiera per domandare a Dio il buon uso delle
malattie, nel 1659, “Pascal è un uomo pacificato, che non si pone più nella
controversia, e neppure nell’apologetica”. Sul punto di morte, scrive un suo
biografo, “aveva un gran desiderio di morire in compagnia dei poveri”. Dopo
aver ricevuto i Sacramenti, le sue ultime parole furono: “Che Dio non mi
abbandoni mai”. L’augurio del Pontefice è che “la sua opera luminosa e gli
esempi della sua vita, così profondamente battezzata in Gesù Cristo”, possa
aiutarci “a percorrere sino alla fine il cammino della verità, della
conversione e della carità”
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