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sabato 26 luglio 2025

GIUSTIZIA RIFORMATA

 


La riforma 

della Giustizia 

tra testo e contesto


-di Giuseppe Savagnone 

 Uno scontro violento in Senato

Può sorprendere la violenza dello scontro che il 22 luglio scorso ha fatto seguito all’approvazione, in Senato, della riforma costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati.

A prima vista, infatti, la nuova normativa, prevedendo due diversi concorsi, senza più possibilità di passare da una funzione all’altra, viene solo a consacrare una situazione di fatto già esistente.

I numeri dei passaggi dalla funzione inquirente a quella giudicante e viceversa erano già esigui in passato (un campione: tra il 2011 e il 2016 il fenomeno ha riguardato rispettivamente lo 0,21% degli inquirenti e lo 0,83 dei giudicanti), e, con la riforma Cartabbia, si sono ulteriormente ridotti, scendendo, nel 2023, a soli 34 su un organico di quasi 10.000 magistrati.

Né sembra creare problemi lo sdoppiamento del Consiglio superiore della magistratura, visto che entrambi gli organismi manterranno le stesse funzioni di quello attuale e saranno composti anch’essi da due terzi di membri “togati”, scelti cioè, dai giudici, e un terzo di membri “laici”, scelti dal Parlamento, e sempre comunque sotto la presidenza del presidente della Repubblica.

Due assolute novità per la verità ci sono. Una è il sistema di designazione dei membri, che attualmente si basa sull’elezione, mentre nella riforma costituzionale si prevede che avvenga per sorteggio, per i “togati” tra tutti i magistrati, per i “laici” da un elenco di giuristi compilato dal Parlamento. L’altra è la nascita di un’Alta Corte, che sarà investita della funzione disciplinare, finora svolta dal Csm.

In ogni caso, però, è chiaro che il disegno di legge, preso in sé, non giustifica l’importanza estrema che alla sua approvazione attribuiscono la maggioranza e il governo, al punto da considerarlo un passo decisivo nel dare all’Italia, come ha detto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, «un sistema giudiziario sempre più efficiente, equo e trasparente» e una svolta decisiva per gli stessi magistrati, «restituendo dignità a un’intera categoria», secondo le parole del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro.

Così come non si capisce, a prima vista, la durezza estrema del dissenso delle opposizioni, espressa in modo esemplare dal giudizio dell’ex magistrato e senatore 5stelle Roberto Scarpinato: «La separazione delle carriere è un regolamento di conti della casta dei potenti contro la magistratura, uno stravolgimento dell’ordinamento giudiziario previsto dalla Costituzione, un’impostura politica diretta a spacciare come interesse generale del paese, gli interessi di questa maggioranza».

Una riforma dedicata a Berlusconi

Il punto è che, come ormai ci ha insegnato l’ermeneutica, un testo va letto nel suo contesto e solo in esso rivela il suo vero significato. Così è della riforma in questione, che si colloca all’interno di una storia iniziata con la crisi della Prima Repubblica – per quella “Tangentopoli” in cui sembrò, a un certo momento, che i giudici, a colpi di avvisi di garanzia, fossero diventati gli arbitri della politica italiana – e con l’avvento della Seconda, ovviamente segnata dalla reazione a questa esperienza .

Non è un caso che l’approvazione del disegno di legge da parte del Senato sia stata dedicata dal governo, in particolare da Forza Italia, all’uomo-simbolo della nuova stagione inauguratasi con le elezioni del 1994, Silvio Berlusconi, «che», come ha detto commosso il vicepremier Antonio Tajani (a lungo suo stretto collaboratore) «ha dedicato una parte importante della sua attività politica alla riforma della Giustizia. 

Oggi ci è riuscito, e ci guarda da lassù».

Non c’è dubbio che con la Giustizia Berlusconi abbia avuto molto a che fare. Dalla seconda metà degli anni 1980, quando era ancora solo un imprenditore rampante, fino al 2023, anno della sua morte, il “cavaliere” è stato imputato in ben 36 processi, anche se – per assoluzioni o per prescrizioni, e con l’aiuto di leggi “ad personam” da lui stesso fatte varare come presidente del Consiglio uno solo di essi ha portato a una sentenza definitiva passata in giudicato, nel 2013, con la condanna a quattro anni di reclusione per «frode fiscale, falso in bilancio e appropriazione indebita».

Berlusconi e i suoi sostenitori hanno sempre attribuito questa singolare esposizione giudiziaria a una persecuzione da parte di magistrati «comunisti». In alternativa a questa accusa c’era quella di disturbi mentali, estesa a tutta la categoria: «Questi giudici», affermava nel 2003, mentre era presidente del Consiglio, «sono doppiamente matti. Per prima cosa, perché lo sono politicamente, e secondo sono matti comunque. Per fare quel lavoro devi essere mentalmente disturbato, devi avere delle turbe psichiche. Se fanno quel lavoro è perché sono antropologicamente diversi dal resto della razza umana».

Da qui anche il tentativo di neutralizzarli con un controllo politico. è significativo che, fin dalla formazione del suo primo governo, Berlusconi abbia proposto alla carica di ministro della Giustizia Cesare Previti, avvocato della Fininvest, impresa di sua proprietà. Fu il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro a bloccare questa nomina, vistosamente dettata da interessi personali, cosicché Previti fu dirottato sul meno sensibile ministero della Difesa.

Qualche anno dopo Previti –  coimputato con Berlusconi, che, pur definito dai giudici «il privato corruttore» e «il mandante», si salverà però per una precedente sentenza che gli aveva riconosciuto le attenuanti generiche e per intervenuta prescrizione – sarà condannato con sentenza definitiva a sei anni di reclusione nel processo Imi-Sir per una vicenda di corruzione di magistrati (Cassazione, 4 maggio 2006).  

L’attuale governo e il suo scontro aperto con la magistratura

Sulla stessa linea di aperta conflittualità si è mosso l’attuale governo, che di  Berlusconi ha fatto fin dall’inizio il suo punto di riferimento morale e politico, indicendo una settimana di lutto nazionale per la sua morte.

A costituire un nuovo motivo di attrito è stata la politica nei confronti dei migranti, che la premier e Salvini hanno fin dall’inizio considerata un punto di primaria importanza, tanto da farlo diventare, anche a livello internazionale, un modello per tutta l’Europa.

Il problema però sono state le leggi che, secondo i magistrati, tutelavano i diritti degli interessati. Il caso più clamoroso, in questo scontro tra la magistratura e la politica, è stato quello del Centro creato dal governo, con una spesa ingentissima, in Albania, e che finora non è stato mai utilizzato a causa delle ripetute sentenze giudiziarie che non hanno convalidato i decreti del governo.

Ma una grande risonanza ha avuto pure il processo al vicepremier Salvini che, in quanto ministro degli Interni nel primo governo Conte, aveva bloccato lo sbarco di 135 migranti dalla Open Arms.

La Procura di Palermo aveva chiesto una condanna di sei anni, ma poi il Tribunale aveva assolto l’imputato «perché il fatto non sussiste». Una sentenza contro cui in questi giorni la stessa Procura ha fatto appello alla Corte di Cassazione, suscitando l’indignazione della destra e della stessa Meloni.

In tutte queste vicende l’elemento costante sono state le accuse del governo alla magistratura di non limitarsi ad applicare le leggi, ma di darne una interpretazione politica. Un’accusa che, in realtà, ha il limite di non tener contro della natura stessa del lavoro del magistrato che, per applicare norme generali a un caso concreto, deve necessariamente darne una interpretazione.

Che poi questa sia quella corretta, secondo la nostra Costituzione non tocca alla politica stabilirlo, ma ad altri giudici, in un grado successivo di giudizio. È la logica della divisione dei poteri.

In base a essa non è corretto che un organo costituzionale ne attacchi un altro, a parole – come avviene continuamente da parte di rappresentanti del governo – o con comportamenti concreti, come quando alcuni ministri hanno partecipato, a Palermo, in occasione del processo Salvini, a una manifestazione di protesta conto i giudici.

Questo non significa affatto che la magistratura non abbia al suo interno seri problemi, come ha dimostrato la scandalosa vicenda del giudice Palamara, che certo non è bastata a risolverli.

Il gioco delle correnti, la lottizzazione delle nomine dei vertici degli uffici giudiziari, non sono certo ombre da poco per un organo a cui dalla Costituzione sono affidati poteri che nessun altro ha, come quello di decidere della libertà dei cittadini.

Ben vengano, dunque, i tentativi di trovare rimedi a questa situazione. È stato il clima che si è creato a rendere quello che doveva essere un dialogo costruttivo uno scontro frontale fra due poteri di pari dignità costituzionale. L’Associazione Nazionale Magistrati, che più volte in questi ultimi anni è dovuta intervenire per difendere da accuse ed insulti i suoi membri, è stata fin dall’inizio contrarissima alla riforma in corso.

La risposta del governo e della sua maggioranza è sintetizzata nel post di Fratelli d’Italia dopo l’approvazione del Senato: «Nel solco della sua peggiore tradizione, certa magistratura continua a usare il proprio potere per tentare di influenzare l’azione di un Governo democraticamente eletto: si diano pace, abbiamo promesso agli italiani di riformare la giustizia e andremo fino in fondo».

Sospetti generati da un clima

E sulla riforma, ora, pesano sospetti che il testo, in sé, non autorizza, ma che il contesto suggerisce a chi vede nel fronte delle forze che la promuovono non un interlocutore critico, ma un acerrimo nemico.

Primo fra tutti il sospetto che lo scopo del governo sia – nella logica della futura riforma del premierato a cui Meloni aspira – rafforzare sempre di più l’esecutivo, sganciandolo dal controllo dei magistrati, come ha già fatto in Ungheria Orbán e sta facendo negli Stati Uniti Trump, entrambi ammirati modelli della nostra premier. 

E che, staccando il ramo inquirente da quello giudicante, lo si voglia progressivamente trasformare in una specie di super-polizia, controllata dal governo.

Né giova a dissipare questo dubbio la difesa fatta mesi fa dal ministro della Giustizia dell’introduzione di test attitudinali per i nuovi assunti nella magistratura: «L’esame psico-attitudinale» – ha ricordato Nordio – «è previsto per tutte le funzioni più importanti del Paese, ma soprattutto è previsto per le forze dell’ordine.

Il pubblico ministero è il capo della polizia giudiziaria che è sottoposta al test. Se sottoponiamo ai test chi obbedisce al comandante, è possibile non sottoporre a test chi ha la direzione della polizia giudiziaria?».

Dichiarazione sorprendente, da parte di un ex magistrato, ma anche semplicemente da parte di un cittadino, perché misconosce la differenza radicale tra un poliziotto, che è un impiegato della pubblica amministrazione, e un magistrato, che, fa parte di un potere costituzionale e non ha superiori a cui rispondere se non la legge (art. 101 della Costituzione).

E se poi si dicesse che i test attitudinali sono opportuni per chi svolge incarichi particolarmente delicati, i primi ad esservi sottoposti dovrebbero essere, insieme ai giudici, i membri del governo e i parlamentari. E forse, alla luce di quanto sta accadendo, non sarebbe male.

www.tuttavia.eu

 

lunedì 15 luglio 2024

MALPENSA BERLUSCONI


DITTATURA DELLA MAGGIORANZA ?




-di  Giuseppe Savagnone* 


L’intitolazione e le polemiche

L’aeroporto di Milano Malpensa – il secondo aeroporto italiano per traffico passeggeri dopo quello di Roma Fiumicino –  , dall’11 luglio 2024 è ufficialmente intitolato a Silvio Berlusconi.

 Lo ha stabilito l’ordinanza dell’ENAC – l’Ente nazionale incaricato della regolamentazione tecnica, certificazione e vigilanza nel settore dell’aviazione civile – , che ha effetto immediato. È quanto si legge in una nota ufficiale del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

 Le polemiche non sono mancate ed erano già nate all’annunzio, dato da Salvini, della decisione imminente. «Non ci fermeremo di fronte a insulti, attacchi e offese», aveva detto.

 Ora che la decisione è ufficiale, un gruppo di deputati del PD chiede, in una interrogazione al ministro, di «chiarire quale procedura sia stata seguita per l’intitolazione dell’aeroporto di Malpensa a Silvio Berlusconi e quali siano le motivazioni per cui non sia stata rispettata la procedura prevista dalla legge 1188/1927, che richiede un periodo di 10 anni dalla morte della persona prima di intitolare un luogo pubblico».

 Gli interroganti, ricordando che la SEA, la società che gestisce gli aeroporti milanesi, non ha ricevuto alcun avviso relativo alla procedura di intitolazione, chiedono inoltre «se sia stato acquisito il parere dei Comuni di Milano, Ferno, Lonate Pozzolo e Somma Lombardo, territori su cui insiste l’Aeroporto di Malpensa, in relazione all’intitolazione».

 In effetti almeno uno di questi comuni, quello di Milano, senza paragoni il più grande, sembra non sia stato consultato, a giudicare dalle parole con cui già nei giorni scorsi il sindaco Sala aveva reagito alla notizia dell’imminente intitolazione del principale scalo aereo della sua città: «Non sono irritato, non è un problema di emotività, ma di razionalità: quello che discuto è perché non ci sia più rispetto delle forme, della correttezza dei rapporti. L’intitolazione dei un aeroporto non è una cosa che avviene così: chi la decide? Un presidente di ENAC senza nemmeno consultare la società? Il presidente di ENAC va e viene, è pro tempore come tutti noi.

C’è una società che investe da anni, si dedica, rischia i suoi fondi e non è stata nemmeno consultata: se questi sono i tempi barbari che stiamo vivendo ce ne facciamo una ragione ma non posso essere di certo felice. Questo a prescindere dall’idea e dal nome: è pazzesco che in Italia una decisione del genere venga presa da un presidente di ENAC».

Giuseppe Bonomi, che era presidente di SEA e Alitalia all’epoca della nascita dell’aeroporto di Malpensa, è altrettanto critico, ma da un altro punto di vista «Gli intestino il Colosseo, ma non l’aeroporto», dice.

Egli sottolinea, infatti, di non avere «nulla in contrario al fatto che vengano intitolate a Berlusconi vie, piazze, ma (…) sono nettamente contrario alla scelta di Malpensa. Sono stato colui che ha visto nascere questo aeroporto. L’ho fatto nascere, lo considero come un altro figlio, l’ho difeso ed è stata una parte importante della mia vita. Io e pochi altri abbiamo condotto importanti battaglie per difenderla. Tra questi pochi nomi non c’era quello di Berlusconi».

 Secondo Bonomi «da parte del governo Berlusconi non ci fu mai un atto in difesa di quella che era ed è una infrastruttura strategica del Paese. Ci fu una sottovalutazione. Ecco perché pensare di intitolare l’aeroporto a Berlusconi è un’assurdità».

 Da Leonardo da Vinci a Berlusconi

C’è poi il problema della rilevanza del personaggio. Roma Fiumicino è intitolato a Leonardo da Vinci, quello di Pisa a Galileo Galilei, quello di Genova a Cristoforo Colombo, quello di Venezia a Marco Polo, quello di Bologna a Guglielmo Marconi, quello di Firenze ad Amerigo Vespucci, quello di Catania a Vincenzo Bellini, quello di Palermo a Falcone e Borsellino. Possiamo onestamente dire che si tratti di figure da porre sullo stesso piano?

 Comunque si tratta di figure sottratte a dibattiti polemici di carattere politico. L’unico dei grandi scali aerei italiani intitolato a un uomo di partito è quello di Torino, che porta il nome di Sandro Pertini, aspramente attaccato da alcuni, ma che comunque ha goduto di un consenso tanto ampio da portarlo ad essere eletto al Quirinale dal Parlamento riunito, l’8 luglio 1978, con 832 voti su 995, corrispondenti all’82,3%, la più larga maggioranza nella storia della Repubblica Italiana.

 Ci sono, è vero, altri aeroporti, nel mondo, che portano il nome di personaggi della politica: lo scalo di Parigi è intitolato a Charles De Gaulle e quello di New York a John Fitzgerald Kennedy. Ma non sembrano paragonabili a Berlusconi. Il primo perché è stato la guida della Francia libera nella lotta contro il nazismo e il “padre” della rinata Repubblica francese, il secondo perché ha costituito l’emblema del dinamismo di una democrazia capace di proporsi una “Nuova frontiera” ed è caduto in circostanze drammatiche che hanno commosso tutta l’America.

 Questo ci porta, inevitabilmente, alla valutazione del personaggio Berlusconi. Forse l’unico aeroporto di una grande città italiana intitolato a protagonisti di un recente passato è quello di Palermo, che è intitolato a Falcone e Borsellino, due magistrati caduti nello lotta dello Stato contro la mafia.

 Ma proprio il confronto con questo esempio isolato evidenzia le radicali differenze rispetto al caso di Berlusconi. Basti pensare all’inscindibile legame di quest’ultimo con il palermitano Macello Dell’Utri, secondo l’opinione comune vero protagonista della nascita di “Forza Italia» e artefice della sua struttura, “proconsole” del Cavaliere in Sicilia.

 Un compito svolto con grande abilità e successo, ma anche con elevati costi sul piano della moralità e della legalità. Sta di fatto che nel 2014 Dell’Utri è stato condannato a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Un prezzo bene ricompensato, visto che nel suo testamento Berlusconi ha voluto testimoniare il suo legame e la sua riconoscenza nei confronti dell’amico  e collaboratore di una vita con una “donazione” di ben 30 milioni di euro.

 Un (cattivo) maestro

In realtà, per dare un giudizio storico su Berlusconi bisogna soprattutto tenere conto che egli non è stato solo un manager di eccezionali capacità imprenditoriali, non è stato solo, per buona parte del corso della Seconda Repubblica, il capo indiscusso della destra, governando più a lungo di qualunque altro premier: con le sue televisioni, con la sua immagine – dove vita privata e vita pubblica si sono fuse inscindibilmente –  con il suo stile politico , è stato un maestro. 

 Si deve in buona parte a lui, al modello da lui rappresentato, ai suoi comportamenti, ai messaggi da lui lanciati, la liquidazione del “senso del pudore” (in senso non solo fisico) che in Italia non era mai stato intaccato, durante la Prima Repubblica, dal conflitto tra comunisti e democristiani.

 Dobbiamo a lui se gli italiani oggi si sono in gran parte liberati di una serie di limiti etici – i cosiddetti “valori” – che un tempo erano condivisi, al di là delle contrapposizioni ideologiche e partitiche.

 Resterà nella storia della nostra Repubblica la vicenda che ha visto il Cavaliere sostenere di aver fatto rilasciare (abusivamente) una sua escort marocchina perché convinto che fosse la nipote del presidente egiziano Mubarak. Tesi ripresa e accolta in una mozione dei partiti a lui legati in Parlamento! Per non parlare della sequela di processi che ha caratterizzato la sua storia e la condanna giudiziaria che lo definito ufficialmente un disonesto.

 Tutto ciò non ha impedito nelle ultime elezioni a una maggioranza di elettori di sostenere partiti che si ispirano alla sua eredità morale e politica. Perciò è  stato logico che la sua morte sia stata celebrata dall’attuale governo, erede della sua linea, con il lutto nazionale, come quella dei presidenti della Repubblica.

 Il più divisivo personaggio della storia repubblicana

È vero anche, però, che – proprio per tutto questo – nessun personaggio della politica italiana dopo la guerra ha determinato una così netta spaccatura nel paese e nell’opinione pubblica.

 A una fanatica esaltazione da parte dei suoi sostenitori, al grido di «Silvio c’è!» – ha corrisposto una feroce ed altrettanto estrema avversione da parte di una sfera importante dell’opinione pubblica, che ha visto in lui l’emblema della corruzione e del malaffare.

 Da questo punto di vista l’intitolazione di un aeroporto importante come Malpensa a Berlusconi non può che esasperare la divisone del nostro paese. Certo, la decisione, è stata presa da un ministro e vicepremier che gode della maggioranza parlamentare. Ma il presidente Mattarella, nel suo discorso alla Settimana sociale dei cattolici, a Trieste, metteva in luce il pericolo di una democrazia che, con la forza dei soli numeri, si trasforma nella «dittatura della maggioranza», invitando a trovare nel confronto con l’opposizione la base per una partecipazione di tutti alla ricerca del bene comune

 Salvini aveva ironizzato sul pericolo di una dittatura della maggioranza. In realtà, già lo stile con cui il governo sta gestendo il varo delle due grandi riforme dell’autonomia differenziata e del premierato spiega le preoccupazioni del presidente della Repubblica.

 Ma proprio la decisione del nostro vicepremier di intitolare un aeroporto che è di tutti a un uomo detestato da quasi la metà degli italiani e contro la loro espressa volontà, conferma che l’espropriazione dello Stato da parte di chi in Parlamento ha la maggioranza (in realtà, in rapporto all’effettivo numero dei votanti, solo del  24,7% dopo le politiche, sceso al 22,7% dopo le europee), non è solo un pericolo. Ma questa non è la democrazia.

www.tuttavia.eu

 *Scrittore ed Editorialista. Pastorale della Cultura della Diocesi di Palermo

giovedì 15 giugno 2023

BERLUSCONI, LUCI ED OMBRE


 * Il cattivo maestro

 che ha “liberato” gli italiani

 dal pudore*


- di Giuseppe Savagnone

  

La vera impresa di Berlusconi

Quando muore un uomo, il solo commento rispettoso sarebbe il silenzio. Se però quest’uomo è anche un personaggio pubblico, come nel caso di Silvio Berlusconi, ci si trova di fronte a un diluvio di parole che esigono, in qualche modo, una risposta.

Lasciando intatto il mistero del singolo, su cui il Vangelo ci invita a non pronunziare giudizi inevitabilmente superficiali e ingiusti, è del personaggio che siamo in qualche modo costretti a parlare. Tanto più che, così come nel corso della sua vita, anche nella sua morte esso, con la proclamazione della giornata di lutto nazionale e le bandiere a mezz’asta in tutto il paese, trasborda dai limiti del suo ruolo di leader di un partito e si impone all’immaginario collettivo come icona dell’Italia intera.

È quello che ha notato, acutamente, sul «Corriere della Sera», Aldo Cazzullo in un commento intitolato «Sedusse un paese»: «La vera impresa di Berlusconi non fu fondare le TV private o un partito che in tre mesi divenne il primo d’Italia. Quella fu se mai la conseguenza. La vera impresa di Berlusconi fu far sì che la maggioranza degli italiani si identificasse in lui».

 Questa è stata un’operazione che va molto al di là degli aspetti strettamente imprenditoriali e politici dell’attività e dei successi del “cavaliere”. Un’operazione propriamente culturale e, in un certo senso, “educativa”.

 Berlusconi non è stato solo un manager di eccezionali capacità imprenditoriali, non è stato solo per buona parte del corso della Seconda Repubblica, il capo indiscusso della destra, governando più a lungo di qualunque altro premier: è stato un maestro. Buono o cattivo, questo è da vedere, ma sicuramente efficacissimo. E oggi il clima che si respira nel nostro paese è in buona parte il risultato della sua pedagogia. Sulle cui modalità e sui cui contenuti vale dunque la pena di fermarsi a riflettere.

 L’avvento della televisione commerciale

La prima cosa che colpisce è il carattere non convenzionale dei canali attraverso cui l’influenza culturale del “cavaliere” è stata trasmessa. Non sono state le agenzie educative tradizionali – la famiglia, la scuola, la Chiesa – a operare in questo senso, ma una perfetta combinazione fra la nuova formula della Tv commerciale, introdotta da Berlusconi per la prima volta in Italia, e una disinvolta gestione della sua immagine pubblica.

 Fino all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso la televisione era gestita dallo Stato e, pur sottoposta a qualche inopportuna censura, svolgeva una funzione davvero “pedagogica”, nel senso migliore del termine. È stato grazie ad essa che il grande pubblico ha potuto conoscere splendide opere teatrali, come i drammi di Pirandello e di Cechov, o riduzioni della grande letteratura mondiale, come «Il mulino del Po», di Bacchelli e «L’idiota» di Dostoevskij, trasmessi in prima serata.

 Ed è stato grazie ad essa che la conoscenza media della lingua italiana si è diffusa anche a larghe frange di popolazione prima legata quasi esclusivamente al proprio dialetto. Era una TV che sapeva anche divertire – famosi alcuni spettacoli di varietà come «Domenica è sempre domenica» o «Un due tre» – ma senza mai scadere nella volgarità.

 La TV introdotta da Berlusconi era invece privata e mirava esplicitamente a conquistare, per mantenersi e garantire dei profitti, fette sempre maggiori di pubblicità. Doveva perciò intercettare non le esigenze più profonde del pubblico, ma i suoi gusti immediati, le sue pulsioni.

 Con la TV commerciale è stato assunto come motto quello in cui Karl Popper, nel suo libro «Cattiva maestra televisione», individua il gravissimo pericolo di questo mezzo di comunicazione: «Dare al pubblico quello che il pubblico desidera». Dove per “desiderio” non si intendono certo le più nobili aspirazioni all’elevazione dello spirito, ma le pulsioni superficiali e impellenti che covano dentro ciascuno e che lo schermo televisivo, con la sua efficacia rappresentativa, si prestava benissimo a soddisfare.

 È stato così che si è innescato un circuito perverso tra il progressivo scadimento dei programmi – che ha portato alla esclusione dalla prima serata di tutto ciò che fosse in qualche modo impegnativo, a favore di spettacoli come «Il Grande Fratello» o le trasmissioni di Maria De Filippi – e un progressivo imbarbarimento dei gusti degli spettatori.

 A essere vittima di questo graduale deterioramento è stato innanzi tutto il senso del pudore. Non solo e non tanto di quello che vela i corpi, ma di quello che dovrebbe custodire gelosamente le anime delle persone.

 Tutto – sentimenti, vicende intime, perfino idee (le poche che rimanevano) – è diventato spettacolo per la curiosità vorace dei telespettatori, oggetto da esibire per conquistare qualche punto in più di gradimento, da far valere nelle contrattazioni con le agenzie della pubblicità.

 E anche la televisione pubblica ha finito per doversi uniformare a questo stile, perseguito in Italia con una coerenza che la TV commerciale in altri paesi, dove pure era presente da prima che da noi, non ha mai avuto.

 La cancellazione del confine tra privato e pubblico

La distruzione del pudore ha caratterizzato anche lo stile personale di Berlusconi. A livello privato come a quello pubblico. In realtà, nella sua storia il confine tra queste due sfere è stato cancellato.

 Ciò che avrebbe dovuto costituire la sua storia personale, da difendere accuratamente di fronte allo sguardo indiscreto dei cronisti e delle telecamere, è stato usato disinvoltamente come immagine sbandierata per abbagliare il grande pubblico e per attirare consensi elettorali.

 È stato così che il successo di una ascesa imprenditoriale tutt’altro che lineare – stando alla condanna definitiva del “cavaliere” per truffa – è stato sfoggiato come garanzia di una pretesa capacità di governo della cosa pubblica; che la ricchezza e il lusso di un tenore di vita sconosciuto alla stragrande maggioranza sono stati ostentati per suscitare l’ammirata invidia di chi poteva solo sognarseli; che un comportamento sessuale sfrenatamente vorace è diventato il marchio di identificazione del personaggio Berlusconi.

 Dove, per quanto riguarda quest’ultimo punto, va precisato che non si è trattato, come ormai in tanti paesi europei, del trionfo del libero amore. Il “cavaliere” le donne le seduceva o le comprava – con i suoi regali e a volte direttamente con i suoi soldi – , in un rapporto che non aveva nulla della reciprocità necessaria a garantire la dignità di entrambi i partner.

 Sta di fatto che tutto questo, come scrive Cazzullo, ha spinto gli italiani a identificarsi con questa figura, in cui vedevano proiettati i loro sogni segreti, finalmente sdoganati dalle vecchie remore della morale tradizionale e in cui potevano riconoscersi senza alcun pudore. Al di là dell’uomo in carne ed ossa, il personaggio Berlusconi è diventato in qualche modo una specie di “ologramma” rappresentativo di tutto questo.

 Certo, c’è da chiedersi quale autenticità avesse l’adesione della gente alle regole di una morale cattolica ormai spesso ridotta a una forma vuota. Come dice l’etimo del verbo “educare” (dal latino e-ducere, trarre fuori), Berlusconi non ha dovuto inventare il vuoto e il fango che sono venuti alla superficie: li ha solo sollecitati ed evocati. Il resto l’abbiamo fatto noi.

 Il tramonto del bene comune e della verità

In questa spudoratezza sono apparsi irrilevanti anche i grandi temi della politica, come quello del bene comune, ormai polverizzato nel gioco degli interessi privati. In questa logica si capisce anche l’incessante polemica contro le tasse – identificate come un «mettere le mani nelle tasche degli italiani» –, omettendo di ricordare che nessuno “si fa da sé” e che chi è più ricco lo è anche grazie all’insieme di servizi e di opportunità che la società gli offre. E che ridurre le imposte a chi sovrabbonda del superfluo – come Berlusconi ha fatto da governante – riduce le risorse da destinare per aiutare chi non ha il necessario.

 Ma ad essere travolto, in questa grande opera educativa, è stato anche il pudore che dovrebbe trattenere dal falsificare troppo apertamente la realtà più evidente.

 È accaduto così che gli italiani – compresa una parte consistente del parlamento – hanno potuto avallare la tesi che il “cavaliere” aveva davvero fatto rilasciare (abusivamente) una sua escort marocchina perché la credeva la figlia del presidente egiziano Mubarak; che la dimostrata connivenza con la mafia del suo braccio destro Dell’Utri – condannato in via definitiva – non lo riguardasse minimamente; e che la tempesta di procedimenti giudiziari a suo carico – molti dei quali elusi solo grazie alla prescrizione – derivasse solo dall’accanimento di magistrati “comunisti”.

 L’Italia della Seconda Repubblica ora è finalmente “libera” dal pudore. Non solo grazie a Berlusconi, certo, ma in buona parte grazie a lui, che ne è stato la figura più rappresentativa e in qualche modo il simbolo. Perciò in fondo è giusto che l’attuale governo, frutto di questa storia, lo onori con una giornata di lutto nazionale.

 Anche se noi abbiamo ancora il diritto di sperare che, dalle macerie di un’etica sia privata che pubblica evaporata in questi trent’anni, sia di nuovo possibile partire per ricostruire una convivenza civile degna di questo nome.

 *Responsabile del sito della Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo, Scrittore ed Editorialista.

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Foto: Fanpage