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di Giuseppe Savagnone
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«Voglio
rivolgere un affettuoso saluto al Santo Padre che anche in un momento di prova
non ha fatto mancare la sua forza e la sua guida», ha detto al Senato,
suscitando una standing ovation che conferma come, almeno nel
nostro paese, la figura di questo pontefice sia per tutti, al di là delle
divisioni politiche, un punto di riferimento molto importante.
Alla
Camera, invece, ha parlato in termini decisamente positivi di
Donald Trump, elogiando la sua linea nelle trattative per risolvere la
guerra in Ucraina e definendo quanto fatto finora dal presidente americano «un
primo significativo passo che deve portare a una pace giusta e duratura».
Non
stupisce il richiamo alla «guida» del papa da parte di una persona, come la
Meloni, che ha sempre rivendicato la sua adesione al cristianesimo, e non
soltanto come scelta strettamente personale, ma come ispiratrice della sua
attività pubblica.
È
rimasto celebre il suo grido appassionato, durante il comizio tenuto in Spagna
per il partito «Vox»: «Yo soy Giorgia, soy una mujer, soy una madre, soy
cristiana».
E
più volte, anche dopo essere andata al governo, la premier ha sottolineato la
sua intenzione di tutelare e riaffermare i valori della tradizione
cristiana, contro un laicismo “di sinistra” che li snobba e, ancora di più,
contro una progressiva “sostituzione etnica” – che rischia di diventare
anche religiosa e culturale – determinata dall’ingresso di un numero sempre
maggiore di migranti provenienti dal mondo islamico.
Ma
anche il riferimento al presidente degli Stati Uniti non ha nulla di
sorprendente. Non sono un mistero la simpatia e la stima di Trump nei confronti
della nostra premier, che è stata l’unica leader europea ad essere invitata
alla cerimonia dell’insediamento del nuovo inquino della Casa Bianca e che già
prima era volata appositamente a trovarlo per chiedergli l’autorizzazione al
rilascio del tecnico iraniano accusato dalla CIA di terrorismo, nello scambio
con Cecilia Sala.
L’ambizione
frustrata di Meloni di fare da “ponte”
Anche
nei successivi sviluppi, che hanno visto il presidente americano assumere
posizioni in assoluto contrasto con il diritto internazionale e ispirate,
esplicitamente, al criterio della legge del più forte – come quelle nei
confronti della Danimarca e di Panama, minacciati addirittura di
un’aggressione militare in nome dell’interesse degli Stati Uniti a parti del
loro territorio – , Giorgia Meloni ha ostinatamente rifiutato di prendere una
posizione critica.
Resistendo
anche quando la minaccia, su un piano politico ed economico, si è
rivolta contro l’Europa, esclusa dalla trattativa sull’Ucraina e colpita
da dazi pesantissimi, che hanno coinvolto loro malgrado i governi europei in
una vera e propria guerra doganale.
L’argomento
portato dalla nostra premier per giustificare il suo silenzio tombale è
l’esigenza di mantenere la possibilità di un dialogo con gli Stati
Uniti. Un’esigenza, peraltro, condivisa da tutti gli altri governi
europei, senza che questo impedisca loro di esprimere verso la nuova linea
della politica americana una chiara posizione critica.
Al
fondo, in realtà, c’è, fin dall’inizio, l’ambizione della Meloni di fare da
“ponte” fra le due sponde dell’Atlantico – fuor di metafora, fra le posizioni
trumpiane e quelle delle democrazie europee – di cui però la forza dei fatti ha
finora dimostrato in modo evidente il carattere puramente velleitario.
Tanto
più che il presidente americano, al di là degli elogi, non sembra tenere in
grande considerazione la nostra premier e, per il suo dialogo con l’Europa, ha
preferito incontrare quello inglese Starmer e quello francese Macron.
Alla
Meloni non è rimasto che aggregarsi a malincuore alle riunioni indette dallo
stesso Macron, suo storico rivale. E, alla fine, invece di unire i
due campi contrapposti, ha finito per essere costretta a saltellare
continuamente dall’uno all’altro aderendo una volta alluno, un’altra a quello
opposto e rimanendo marginale in entrambi.
Da
un lato, è costretta, anche per motivi economici, a restare legata al carro
europeo, come dimostrano anche la recente adesione al programma di riarmo e la
partecipazione all’incontro di Londra dei paesi “volenterosi” intenzionati a
creare una forza d’interposizione tra Russia e Ucraina (sia pure ribadendo
l’intenzione dell’Italia di non inviare soldati italiani).
Ma
contemporaneamente si sono moltiplicati i segnali di adesione alla linea di
Trump. Clamorosa la scelta dell’Italia di non firmare la protesta che
tutti gli altri i governi occidentali hanno opposto alle sanzioni decise dal
presidente americano contro la Corte Penale Internazionale, rea di aver emesso
un mandato di cattura nei confronti del premier israeliano Netanyahu, amico del
presidente americano.
E,
più recentemente, quella di non formare il documento del parlamento dell’UE in
cui si criticava il modo in cui gli Stati Uniti stanno gestendo le trattative
di pace in Ucraina.
Così
come è stata molto significativa anche la decisione della Meloni di partecipare
al convegno degli ultraconservatori organizzato in America dai seguaci di
Trump, anche dopo che il suo ispiratore, Steve Bannon, aveva concluso il
proprio intervento facendo il saluto nazista.
Decisione
la cui gravità è evidenziata dal contemporaneo rifiuto opposto invece, dopo
quel gesto, dal leader dell’estrema destra francese, Bardella, indignato da
questo esplicito riferimento a un passato che dovremmo tutti ricordare con
orrore.
La
pace di Trump e quella di Papa Francesco
L’apprezzamento
senza riserve dell’operato del presidente americano nella questione
Ucraina, espresso ora alla Camera, conferma questa linea. Il problema che
si pone, a questo punto, è la compatibilità di queste prese di posizione
pro-Trump con il riconoscimento della «guida» di Papa Francesco.
Perché
è vero che il nuovo ospite della Casa Bianca ha ripreso con estrema
decisione un tema che il pontefice da almeno tre anni continua a mette in primo
piano nel suo magistero, quello della pace, ma proprio su questo punto sono
evidenti le abissali differenze che separano le due prospettive.
La
pace di Trump
La
pace di Trump è fondata sulla violenza nei confronti del più debole e ha
uno sfondo dichiaratamente utilitaristico per il “pacificatore”. La «pace
giusta» proposta dal presidente americano per l’Ucraina, con
l’incondizionata approvazione della Meloni, si basa sull’esplicito ricatto per
cui il popolo ucraino, dopo anni di sofferenze per difendere la propria
autonomia, può salvarsi all’invasione militare russa solo accettando la
colonizzazione – da parte dell’America – del proprio sistema minerario e delle
proprie principali fonti energetiche.
Accettando
per di più che il proprio presidente venga estromesso dal tavolo delle
trattative in cui è ricevuto con tutti gli onori il governo
aggressore, e pubblicamente umiliato a livello mondiale con un trattamento
che si riserverebbe neppure all’ultimo dei servi. Per non parlare del clamoroso
capovolgimento della verità storica, per cui l’iniziativa della guerra è stata
da Trump attribuita proprio all’Ucraina.
Così
la soluzione della guerra di Gaza sarebbe la deportazione in massa dei due
milioni di palestinesi risiedenti nella Striscia per creare là un resort di
lusso, cancellando con una conferenza stampa di 40 minuti tutte le regole del
diritto internazionale, che definiscono la “pulizia etnica” un crimine contro
l’umanità.
Senza
una parola di critica – né tanto meno uno stop – ai metodi dell’esercito
israeliano, che hanno meritato al premier dello Stato ebraico la condanna della
Corte Pena Internazionale per i crimini commessi contro i civili.
La
pace di Francesco
Non
è questa la pace che Papa Francesco ha sempre invocato. Essa non è basata
sull’arbitrio del più forte, ma sulla fraternità tra i popoli. E non è
funzionale agli interessi economici del neocapitalismo, ma alla crescita delle
persone. In ultima istanza, quella a cui il papa richiama si ispira a quel
vangelo che, ad ogni pagina, è in radicale contraddizione con la logica a cui
si ispirano le parole e i comportamenti di Trump.
Il
test delle politiche verso i migranti
Un
test particolarmente significativo di questa divergenza insanabile è
l’atteggiamento verso i migranti. Già in campagna elettorale Trump aveva
preannunciato «la più grande deportazione della storia», riguardante undici
milioni di persone.
Le
immagini agghiaccianti, diffuse con orgoglio dalla stessa Casa Bianca e che ora
stanno facendo il giro del mondo, raffiguranti colonne di poveracci
incatenati e umiliati, trascinati verso gli aerei che devono portarli
fuori del paese dove hanno cercato di ricostruire la loro vita, confermano
che parlava sul serio.
Non
si va lontano dal vero se si riconosce in questa politica quella che la
Meloni cerca di realizzare, sia pure ancora senza pieno successo, con il
progetto Albania e in genere con tutta la sua politica migratoria.
Ricevendo
sempre più consenso in un’Europa che ha smarrito le sue radici cristiane e non
riesce a trovarne neppure di umane. E che, nell’illusione di difendere la
propria identità, conferma, con questa paura dell’ “altro,” di non averne
nessuna. In questo – solo in questo – hanno ragione i politici e i giornali di
destra: l’Italia è un modello.
Papa
Francesco ha innumerevoli volte denunziato questa politica come radicalmente
anticristiana, arrivando a definirla «grave peccato». Né poteva fare
altrimenti, perché il vangelo fa dell’accoglienza dello straniero
bisognoso un criterio fondamentale per distinguere chi è con Cristo e chi non
lo è.
Il
Signore addirittura arriva a identificarsi col migrante. «Fui forestiero e
mi avete accolto» (Mt 25). Nell’ottica di un cristiano, quello che Trump e la
Meloni stanno facendo è perseguitare Gesù stesso.
Yo
soy
Ritornano
le appassionate parole della nostra premier: «Yo soy Giorgia, soy una mujer,
soy una madre, soy cristiana». Sulle due prime affermazioni nessun
dubbio. Ma la terza rischia di essere, alla luce di quanto detto,
solo uno slogan elettorale.
Come
un puro gioco retorico appare il riferimento a Francesco come «guida» a cui
l’Italia – almeno quella istituzionale – si ispira. La cruda verità è
che il nostro governo, e in particolare la sua premier, vanno nella
direzione opposta a quella che da sempre la Chiesa propone nel suo insegnamento
sociale e che Papa Francesco non si stanca di ribadire.
Il
tentavo di mascherare questo dato innegabile si può spiegare con
motivazioni di tipo elettoralistico, ma non giova alla serietà del discorso
pubblico. Meloni deve scegliere se stare con il vangelo e con Papa
Francesco, oppure con Trump.
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