- di Giuseppe Savagnone
Esiste
ancora il diritto internazionale? L’interrogativo può risultare astrattamente
teorico, ed è invece attualissimo. Le tumultuose vicende che hanno scosso
l’ordine relativo del mondo occidentale, creato dopo la seconda guerra
mondiale, hanno spinto gli osservatori a polarizzare la loro attenzione sui
fatti e sulle loro implicazioni immediate.
In
particolare le due guerre divampate in Ucraina, dopo l’invasione russa del 24
febbraio 2022, e in Palestina, con la reazione israeliana all’attacco di
Hamas, il 7 ottobre 2023; poi l’insediamento alla presidenza degli Stati Uniti
di Donald Trump e la clamorosa svolta da lui impressa alla politica americana,
hanno offerto lo spunto a innumerevoli commenti, anche di segno opposto, che
hanno evidenziato la gravità di ciò che accadeva e sulle conseguenze che
ne derivavano.
Vorremmo
provare ad alzare lo sguardo su un orizzonte più ampio e a interrogarci sul
significato che questi avvenimenti hanno, per quanto riguarda il modo di
concepire le relazioni tra gli Stati e il ruolo del diritto internazionale.
Con
questa espressione si indica, solitamente, l’insieme delle regole,
giuridicamente vincolanti il comportamento dei soggetti operanti sulla
scena politica internazionale. Dove il punto essenziale è che gli esseri
umani non possono accontentarsi di ispirare le loro relazioni pubbliche al
principio della pura forza e accettano di sottomettere le loro scelte a precisi
limiti di ordine etico-giuridico. Uno Stato, perciò, deve saper distinguere tra
ciò che può fare e ciò che ha il diritto di fare.
Per
tradurre in realtà questa visione, sono stati istituiti, nel 1945 la Corte
Internazionale di Giustizia, che è un organo dell’ONU preposto a giudicare le
controversie tra gli Stati, e, nel 1998, la Corte penale Internazionale, che
invece è nata da un trattato tra un certo numero di paesi, e che ha il compito
di giudicare gli eventuali crimini di guerra dei governanti.
L’esistenza
stessa del diritto internazionale implica che la sfera delle azioni umane,
anche a livello pubblico, non è regolata dal gioco degli istinti, su cui si
reggono le relazioni tra gli animali non umani, ma dalla ragione, la sola in
grado di stabilire la differenza tra il vero e il falso, tra il bene e il male,
tra il giusto e l’ingiusto.
Non
per una masochistica mortificazione del libero gioco delle pulsioni vitali, ma
nel riconoscimento che queste pulsioni, lasciate a se stesse, portano l’essere
umano a tradire la sua identità e finiscono per trasformarsi, da espressione di
vita, in energie distruttive di morte. Per tutti, e dunque non solo
per chi ne è vittima, anche per chi si illude di affermarsi abbandonandosi
ad esse.
Più
alla radice, il diritto internazionale applica anche agli Stati l’idea che il
senso del limite è fondamentale per gli esseri umani. Che siano o no religiosi,
è fondamentale per loro essere consapevoli di non essere Dio, perché quello che
in Lui – per chi ne ammette l’esistenza – è espressione della sua
reale assolutezza, negli individui del specie homo sapiens sarebbe
una ridicola pretesa, in contrasto con la loro effettiva identità, sempre
relativa a miriadi di condizionamenti, e, se viene presa sul serio, si
trasforma in un tragico delirio di onnipotenza.
Princìpi
e realtà effettiva
Bisogna
riconoscere che questa autolimitazione non è mai stata accettata, di fatto, da
tutti. In alcuni casi neppure di diritto. È significativo che al trattato
istitutivo della Corte Penale Internazionale non abbiano aderito alcuni Stati,
tra cui Russia, Cina, Stati Uniti e Israele.
Ciò
malgrado, restavano dei punti di riferimento comuni, primo fra tutti quello
all’ONU (Organizzazione della Nazioni Unite), l’organismo fondato
nel 1945, a cui oggi aderiscono ben 193 Stati (compresi quelli che non
riconoscono la Corte Penale Internazionale), le cui finalità sono mantenere
la pace e
la sicurezza internazionale;
sviluppare relazioni amichevoli fra le nazioni, sulla base del rispetto
dell’eguaglianza dei diritti e dell’autodeterminazione
dei popoli; promuovere la cooperazione internazionale in materia economica,
sociale e culturale; il rispetto dei umani e
delle libertà fondamentali.
Purtroppo
l’ONU ha evidenziato sempre di più i suoi limiti, dovuti in gran pare al
regolamento del Consiglio di sicurezza (formato da cinque membri permanenti e
da altri dieci a rotazione), in cui si prevede che le risoluzioni possono
essere prese solo all’unanimità, per cui basta il veto di uno dei cinque Stati
permanenti per bloccarle.
Tuttavia,
dalla seconda metà del Novecento le violazioni dei diritti di Stati e di popoli
a livello internazionale sono sempre state denunciate e condannate come tali.
È il caso dell’aggressione della Russia all’Ucraina, e delle crudeltà
commesse dall’esercito russo, duramente condannate e sanzionate a livello
internazionale, in particolare da tutti i governi occidentali, ma anche da
molti altri. Una condanna formulata non solo in nome della politica, ma del
diritto, come dice il mandato d’arresto emesso dalla Corte Penale
Internazionale nei confronti del presidente russo Putin per «crimini contro
l’umanità».
Così
come in nome del diritto, oltre che della politica, è stato universalmente
condannato l’attacco del movimento islamico Hamas nei confronti di Israele, con
la terribile strage di civili che in esso è stata consumata.
Il
diritto calpestato
A
far vacillare questo primato di un criterio etico-giuridico sulle scelte degli
Stati sono stati gli sviluppi successivi al 7 ottobre.
In
nome del diritto dell’aggredito di difendersi dall’aggressore – effettivamente
sancito dal diritto internazionale -, lo Stato ebraico ha intrapreso una
campagna militare che ha avuto come obiettivo non soltanto i membri di
Hamas, responsabili dall’attacco, ma l’intera popolazione palestinese
residente a Gaza, uccidendo indiscriminatamente uomini, donne e bambini,
bombardando abitazioni civili, ospedali, moschee, uffici, strade, bloccando la
fornitura di viveri, di energia elettrica e di medicinali, sradicando da
un giorno all’altro la gente dai luoghi di residenza e di lavoro, per
indirizzarla verso “luoghi sicuri” che poi sono stati ugualmente bombardati.
I
video e le fotografie che è stato possibile avere dei luoghi del conflitto, con
l’inizio della recente tregua, mostrano, senza bisogno di commenti, gli
effetti devastanti di queste operazioni militari.
Il
premier israeliano Netanyahu – con l’appoggio dei rappresentanti delle comunità
ebraiche della diaspora, soprattutto italiane – ha sempre sostenuto
che esse si svolgevano nel pieno rispetto del diritto internazionale,
perché le vittime – 49.000 persone, di cui la maggior parte donne e
bambini – erano usate come scudi umani dai terroristi e costituivano dunque un
“danno collaterale” in una giusta guerra contro questi ultimi.
Solo
che lanciare in quindici mesi 85.000 tonnellate di bombe su un territorio
grande come metà di Madrid e popolato da più di due milioni di persone,
chiudere i valichi che consentono alla popolazione l’approvvigionamento dei
beni di prima necessità, fare saltare con l’esplosivo le case di civile
abitazione e le infrastrutture, non si può considerare un incidente
involontario, come è nel caso dei “danni collaterali”, ma un’azione deliberata
di distruzione volta a trasformare un territorio in un «inferno», come lo
ha definito il presidente Trump.
In
base a questo la Corte Penale Internazionale, dopo un’accurata indagine, ha
emesso un mandato di cattura che riguarda, sia i leader di Hamas, sia Netanyahu
e il suo ministro della guerra, ancora una volta per «crimini contro
l’umanità».
Ma,
di fronte a questa chiarissima violazione del diritto internazionale, la
maggior parte degli Stati occidentali, che avevano duramente condannato le
violenza della Russia nei confronti del popolo ucraino, ha reagito con timidi
(e inascoltati) inviti alla moderazione, come ha fatto il presidente Biden (che
intanto forniva ad Israele le bombe ad altro potenziale); con un silenzio
complice, come il governo italiano, che per due volte, a distanza di pochi
mesi, ha accolto in visita ufficiale il presidente di Israele, Herzog,
attestandogli l’amicizia incondizionata nei confronti del suo paese, senza mai
fare cenno al massacro di cui si stava rendendo responsabile; o addirittura,
come ha fatto il nuovo presidente USA, progettando una deportazione dei due
milioni di abitanti di Gaza e la creazione, sulle macerie di un resort di
lusso.
Perfino
la sentenza della Corte Penale internazionale è stata disconosciuta da Stati
come il Regno Unito, la Francia, la Germania e l’Italia, che pure hanno firmato
il trattato per cui si sottomettevano alla sua giurisdizione. E ora non dicono
nulla neppure davanti all’ultima mossa di Netanyahu, il quale, per costringere
Hamas a rilasciare gli ostaggi, lo ha esplicitamente ricattato, con uno stile
tipicamente terroristico, affamando la popolazione civile di Gaza fino al
cedimento dell’avversario.
Tutto
ciò, paradossalmente, mentre invece gli stessi Stati europei si appellano al
diritto per continuare a sostenere l’Ucraina contro Putin, che fin dall’inizio
lo aveva violato. Opponendosi a Trump che, a differenza del suo predecessore, è
arrivato a sostenere, contro ogni evidenza della ragione, che la responsabilità
della guerra è dell’Ucraina e che a scatenarla è stato il suo presidente
Zelensky.
Per
non parlare delle minacce di aggressione militare rivolte dallo stesso
Trump nei confronti della Danimarca, per strapparle la Groenlandia, e di
Panama, per togliere a questo Stato il canale. Il colonialismo e il
neocolonialismo non sono certo una novità. Lo è, però, la proclamazione
ufficiale di un progetto fondato esclusivamente sugli interessi del più forte,
in nome della propria superiorità militare ed economica. La forza
sostituisce la ragione e il diritto e non solo non fa nulla per nasconderlo, ma
lo assume come criterio.
Nella
stessa logica rientrano le guerre commerciali annunciate e in parte
effettivamente attuate dal presidente americano contro Stati da sempre amici
degli Stati Uniti, come il Canada o i paesi europei.
Senza
che vi sia qui una violazione del diritto internazionale, sono evidenti anche
in questo caso e implicazioni violente dello slogan «Make America Great»,
assurdamente condiviso da esponenti politici di governi che sono vittima di
questa logica perversa, come nel caso dell’Italia.
Esiste
ancora il diritto internazionale? Ma forse la domanda dev’essere più radicale:
esiste ancora il riferimento a quella razionalità che ha trasformato
l’originaria “legge della giungla”, dove il solo diritto è quello della forza,
in una comunità umana?
Qualche
settimana fa una deputata di FdI, in un dibattito televisivo, invece di parlare
per argomentare le sue ragioni, si è messa ad abbaiare e mugolare (per circa un
minuto). È un inquietante episodio che può assurgere a valore di simbolo della
svolta in corso. Vogliamo veramente che questo sia il nostro futuro?
Foto di Xabi Oregi da Pexels
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