DALL'HOMO ERECTUS ALL'HOMO CURVATUS
Alessandro D’Avenia
Salgo
sulla metropolitana e mi impongo un esercizio di stupore, li faccio quando mi
sento triste. Infilo il cellulare nella tasca interna del
cappotto perché non sia raggiungibile dalla mano che, per una briciola di
dopamina, lo cercherà senza il mio consenso. Mi impongo di fissare ogni cosa.
Così torno alla mia altezza, perché i nostri occhi, a differenza di quelli dei
quadrupedi indirizzati al suolo o poco più su, consentono di arrivare al cielo.
Dopo millenni di evoluzione però il nostro sguardo è tornato giù, al telefono,
tanto che da anni esiste una nuova patologia: la cervicale da smartphone.
Dall'homo
erectus (in piedi) a quello curvatus. Ne scorgo tanti esemplari
in metropolitana. Un ragazzino di 12-13 anni seduto ride mandando messaggi con
le mani appoggiate su una nota edizione di spartiti per pianoforte. Intravedo
la prima lettera del compositore: C... Chopin? Scorgo la seconda: z... Chi
sarà? Entrano due ragazze che saranno poco più grandi di lui. Parlano e ridono
guardando il cellulare di una delle due, l'altra tira fuori una spazzola per
lisciarsi i capelli, e poi la passa all'amica che fa altrettanto. Accanto a me
una ragazza legge un testo sullo schermo, niente la distrae, chissà che cosa
dicono quelle righe. In ognuno è in corso un desiderio, una ricerca di
bellezza... Continuo il mio esercizio che sta già facendo effetto. Quale?
Mi
soffermo su chi non ha il cellulare in mano. Una coppia di anziani: parlano tra
loro e quando tacciono, tacciono e basta, senza schermi. Un'altra signora ha la
mano impegnata ad accarezzare la testa del suo bambino che, accoccolato sul
petto, ha gli occhi spalancati su di lei. Poi c'è un uomo che guarda in basso,
con i vestiti impolverati da un cantiere. Piegato dalla fatica del giorno di
lavoro ogni tanto dice una parola ad alta voce: a chi? Una ragazza proprio di
fronte a lui non ha invece smesso di scorrere immagini sullo schermo. Dei
turisti ridono tra loro, liberi dalle incombenze del quotidiano hanno tempo
solo per le cose belle di questa città. Una donna, l'unica in tutto il vagone,
legge un libro.
Quando
riemergo sulla strada una luce nuova brilla su alberi che scopro essere di
ciliegio giapponese grazie alle prime fioriture: allora è vero, è primavera! La
stagione, da cui cominciava l'anno dei Romani e di molte culture mediterranee,
non s'arrende neanche in questa città, dove il tempo della natura, quello
ciclico, è marginale, con la conseguenza che ci sentiamo solo lineari, fatti
per la morte e non per la (ri-)nascita. Ma il tempo ciclico è solo nascosto
dalle tonnellate di cemento e asfalto che coprono una terra sui cui maturerebbe
ancora il grano. Anche qui le persone che camminano guardano quasi tutte uno
schermo, i loro occhi ignorano la stagione così “già vista” che non stupisce
più. Per stupirci abbiamo bisogno di stupefacenti: effetti speciali o
dipendenze. Eppure, gli alberi, rinsecchiti sino a poco fa, ce lo ricordano che
la bellezza è frutto di un lungo lavoro silenzioso di spoliazione, ma noi
vogliamo tutto e subito: abbiamo fretta e la natura è lenta.
Non
è vero che non ci sono più le mezze stagioni, siamo noi a non esserci più,
perché le sfumature e le gradazioni sono solo per chi guarda bene. Infatti “a
ben vedere” su questa strada tutto è pieno di cose che, come i ciliegi, ci
ricordano di tornare in vita: due ragazzi che bevono una birra sui primi
tavolini all'aperto, la custodia di uno strumento sulle spalle di una ragazza,
il mendicante seduto per terra con una scatola di tonno in attesa di uno
sguardo e una moneta, un bambino che con il suo monopattino avanza nel qui e
ora senza difese. Aveva ragione mia nipote quando alla proposta di vedere il
cugino in videochiamata si ribellava: “Ma io lo voglio vivo!”.
Il
neuroscienziato Stefano Mancuso mi ha spiegato che si può misurare lo stress di
una persona dalla resistenza della pelle: più è rigida più si è in stato di
allerta. Infatti, a chi entra in un bosco la pelle si ammorbidisce solo dopo
cinque secondi. Io mi devo far bastare qualche albero incastrato in
un'aiuola... Tornato a casa cerco: “Cz compositore”. Carl Czerny è un musicista
viennese del primo '800 noto per la sua memoria prodigiosa che gli consentiva
di eseguire tutte le sonate di Beethoven, di cui fu allievo. La sua vocazione
alla didattica lo portò a comporre centinaia di esercizi tutt'ora
indispensabili per educare le dita di generazioni di pianisti, come quelle del
ragazzino della metropolitana.
Mentre
scrivo ascolto un suo Notturno: un tipo di composizione che dimostra che basta
una notte ben guardata per fare un capolavoro. Perché noi che puntiamo su Marte
abbiamo perso così tanta Terra? Aspettiamo i like più delle magnolie in fiore,
suoniamo i clacson più del piano, tocchiamo lo schermo più di un volto,
distinguiamo le emoticon ma non un platano da una betulla. Se l'homo
curvatus ha meno occhi non è colpa di un telefono, ma di un cuore che quel
telefono ha trovato vuoto. Ma la vita non demorde e ci chiama dal e al suo
quotidiano miracolo: uno spartito, un bambino, una spazzola, un libro, un
silenzio, una risata, una città, una fioritura, un monopattino, un tavolino...
e chissà quanti altri stupori per rimetterci “in piedi” quando siamo prostrati,
perché solo chi è toccato dalla vita poi la ama e la cura. Infatti, Leopardi
diciottenne, negli stessi anni in cui Czerny componeva per il piano, scriveva a
Pietro Giordani di voler fare il poeta perché aveva “visto” una primavera:
“Quando io vedo la natura in questi luoghi che veramente sono ameni (unica cosa
buona che abbia la mia patria) e in questi tempi specialmente, mi sento così
trasportare fuor di me stesso, che mi parrebbe di far peccato mortale a non
curarmene, lasciar passare questo ardore di gioventù e aspettare per darmi alla
poesia” (30 aprile 1817).
Solo
la vita fa tornare in vita, e lui lo cantò così: “Primavera dintorno/ brilla
nell’aria, e per li campi esulta, / Sì ch’a mirarla intenerisce il core”.
Senza “mirare” perdiamo la tenerezza (di pelle e di cuore): niente più ci
tocca, ci fa abbassare le difese e sentire amati, ma per un cuore e una pelle
induriti vivere diventa solo una “dura” lotta. La morte è forse la fine della
vita, ma di sicuro il suo fine è la gioia. Per questo un giorno ci alzammo in
piedi. Per questo ogni giorno ci alziamo in piedi: per essere all'altezza (se
all'altezza non rinunciamo per un telefono) della gioia che ci (a)spetta.
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