di Luciano Manicardi
1 In quel tempo si
presentarono alcuni riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue
Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. 2Prendendo
la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di
tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? 3No, io vi dico,
ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. 4O
quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise,
credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5No,
io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». 6Diceva
anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua
vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. 7Allora disse
al vignaiolo: «Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest'albero,
ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?». 8Ma
quello gli rispose: «Padrone, lascialo ancora quest'anno, finché gli avrò
zappato attorno e avrò messo il concime. 9Vedremo se porterà
frutti per l'avvenire; se no, lo taglierai»».
La conversione è
il tema centrale della terza domenica di Quaresima. Evidente nel testo
evangelico (Lc 13,1-9: “Se non vi convertite, perirete”: Lc 13,3.5), l’invito
alla conversione è presente nel testo paolino (1Cor 10,1-6.10-12) sotto forma
di ammonizione a non cadere nell’idolatria e a lottare contro le tentazioni;
nella prima lettura (Es 3,1-8a.13-15) la conversione appare come svolta
decisiva nella vita di Mosè, per cui egli riceve dal Signore ciò che prima si
era affidato da sé, cioè il compito di liberare i figli d’Israele dall’Egitto.
I
tre testi trovano un filo rosso anche nella presentazione del rapporto
tra Parola di Dio ed eventi. Gli eventi della vita quotidiana, i
gesti ripetitivi del lavoro, diventano occasione di ascolto di una Parola di
Dio per Mosè (Es 3); gli eventi accaduti nel passato della storia di salvezza e
testimoniati nella Scrittura veicolano una Parola di Dio per i cristiani di
Corinto (1Cor 10); gli eventi della storia contemporanea, in particolare alcuni
fatti di cronaca, sono colti da Gesù come appello alla conversione (Lc 13).
Attraverso la quotidianità (I lettura), la storia (vangelo)
e la Scrittura (II lettura) Dio parla all’uomo. Ascolto (I
lettura), memoria (II lettura) e discernimento (vangelo)
sono atteggiamenti essenziali per cogliere la Parola di Dio negli eventi.
Mosè
nel deserto
La
prima lettura presenta Mosè nel quotidiano svolgimento del suo lavoro. Mosè
aveva allora 80 anni (Es 7,7), età che rappresenta la compiutezza del secondo
periodo della sua vita (suddivisa in tre periodi di 40 anni. “Mosè aveva
centoventi anni quando morì”: Dt 34,7). Mosè è al culmine della fase mediana
della sua vita e si ritrova ad essere un uomo sradicato dal suo popolo e
minacciato dal faraone. La sua vita è precaria, irrisolta pur essendo lui ormai
con famiglia e lavoro: è un ebreo lontano dal suo popolo, un egiziano fuggito
dall’Egitto, uno straniero presso Jetro. E Mosè arriva nel deserto e all’Oreb.
O forse la sua quotidianità finisce in un deserto, nell’horrorvacui,
nella solitudine orribile e disperante di cui è simbolo il deserto. Mosè si
trova davanti all’Oreb, che diventerà sì il monte di Dio, ma il termine Oreb
deriva da una radice che significa “rovina”, “devastazione”, “maceria”.
L’indesiderato, l’inatteso, l’impensato ci coglie di sorpresa, impreparati. E
per questo può dispiegare la sua forza trasformante su di noi: perché siamo
indifesi. E se può dare il colpo di grazia a una vita già precaria, può anche
divenire luogo di rinnovamento dell’esistenza. Il roveto che arde senza
consumarsi diviene spettacolo che non solo attrae gli occhi di Mosè ma evento
che lo guarda (“Il Signore apparve a Mosè in una fiamma di fuoco”: v. 2; “dal
roveto il Signore vide Mosè”: v. 4), che lo ri-guarda. La rinascita
inizia nel momento in cui accettiamo che la realtà ci tocchi, non sia qualcosa
da evitare con l’indifferenza e l’apatia. Di fronte al roveto Mosè si spoglia
dei sandali (v. 5), simbolo della dignità e dell’autonomia della persona
libera, come anche del suo potere di acquisto: togliersi i sandali è simbolo
(oltre che di rispetto per il suolo che si calpesta) di rinuncia al diritto di
possesso. E di fronte alla voce che gli parla dal roveto, si vela il volto,
segno del timore di fronte al divino, ma anche di volontà di sottrarsi
all’imprevisto che fa capolino nel quotidiano. Mosè ha paura (v. 6). E al Dio
che gli affida il compito di andare dal faraone per far uscire il popolo
dall’Egitto, Mosè oppone obiezioni. La prima, non compresa nel testo liturgico,
è: “Chi sono io per andare dal faraone?” (v. 11). Mosè si sente inadeguato,
privo di carisma, senza nulla nella sua persona e nella sua storia che
giustifichi questo compito.
Io
sarò con te
E
la risposta fa passare Mosè dal suo io spaventato alla promessa di prossimità
di Dio: “Io sarò con te” (v. 12). Ovvero: non dare troppo spazio a te, al tuo
“io” per questo compito che ti affido perché questa sarebbe la via più diretta
per il fallimento. Questa la prima condizione per assumere la guida del popolo:
non appoggiarsi sul proprio “io”, ma contare sul Signore. La seconda obiezione
verte sul nome di Dio. “Mi diranno, i figli d’Israele: qual è il nome del Dio
che ti manda?” (v. 13). Ovvero: che cosa ci assicura questo Dio? Che promessa
ha in serbo per noi affinché gli crediamo? Allora Dio rivela il suo nome: “Io
sarò colui che sarò” (v. 14). O anche: “Io sono colui che sarò” (dove Dio
si rivela come promessa) o ancora: “Io sarò sempre quello che sono”
(dove Dio si rivela come fedeltà). Mosè deve credere alla promessa
di Dio e alla fedeltà di Dio. Le obiezioni di Mosè sono fondate, queste come le
altre che si trovano nei capitoli successivi dell’Esodo. Ma la spiegazione del
nome divino data in Isaia 52,6 fornisce la risposta sufficiente. “Il mio popolo
conoscerà il mio nome, comprenderà in quel giorno che io dicevo: Eccomi”. Il
nome di Dio dice non il suo “essere”, astratto, ma il suo esserci, il suo
essere accanto, il suo essere lì con. E accogliere la rivelazione del nome
significa fare un atto di affidamento nel Signore. Perché il suo nome
significa: “Eccomi” (con te, accanto a te, per te). Su questo Mosè dovrà
spezzare le sue resistenze e le sue obiezioni.
Pilato
e i Galilei
Nel
vangelo, a Gesù viene riferito un fatto di cronaca violento e sacrilego: Pilato
ha fatto uccidere dei Galilei durante una cerimonia religiosa (Lc 13,1). Gesù e
i discepoli sono interpellati da quella notizia. La fede non può restare
estranea ai fatti di quel mondo che è il destinatario della sollecitudine di
Dio. E il giudizio che Gesù dà è libero, originale e coraggioso. Gesù spezza il
legame tra disgrazia e peccato, non ripete il ritornello teologico che pretende
di trovare un senso anche là dove non c’è. E con la domanda “Pensate forse
che…?” (Lc 13,2.4) polemizza con l’opinione diffusa che disgrazia e morte siano
causati da peccati commessi. Gesù non ripete luoghi comuni teologici e consegna
la sua interpretazione degli eventi: sono un invito a conversione. Non certo
che Dio mandi eventi calamitosi perché l’uomo si converta: sarebbe blasfemo.
Ma, per non abbandonare gli eventi a se stessi che resterebbero meri
accadimenti senza nesso e senza senso, occorre ascoltarli e osare parole su di
essi, occorre la fatica e il rischio dell’interpretazione. Gesù poi aggiunge di
suo il riferimento a un fatto di cronaca, anch’esso luttuoso: il crollo della
torre di Siloe che ha provocato la morte di diciotto persone (Lc 13,4). I due
fatti parlano di morti improvvise: sono eventi di cui non abbiamo
responsabilità, e tuttavia Gesù indica una via attraverso la quale essi possono
parlarci e divenire transitivi, così da non perdersi nel non-senso, ma divenire
capaci di ri-orientare la vita di altri. Rendendo quegli eventi un invito a
conversione, Gesù esorta a vivere con coscienza e consapevolezza l’oggi e il
vangelo. La morte dà forma alla vita: quando sopravviene, essa svela la nostra
vita dandole forma compiuta. Dovessimo morire domani ecco che la nostra vita è
tutto ciò che c’è stato prima. La non-consapevolezza, invece, è nemica della
responsabilità, che è anzitutto responsabilità della nostra vita. Con l’invito
a conversione che scaturisce dalla considerazione delle morti improvvise di
altri, Gesù intende dare un volto a chi è rimasto senza volto, perduto
nell’anonimato di macerie che l’hanno sepolto o di una violenza brutale che ne
ha troncato l’esistenza. Gesù chiede che il volto e il nome perduti delle
vittime trovino un riflesso nel volto e nel nome dei suoi discepoli. Gesù
chiede responsabilità. Di farsi rispondenti di ciò di cui non si ha
responsabilità diretta, ma che non ci può rimanere estraneo perché riguarda
quegli esseri umani che sono nostri fratelli. Così, mentre la violenza brutale
nega la fraternità spegnendo l’umanità di chi viene ucciso e di chi uccide, la
risposta di Gesù tende a ricostruire legami di fraternità. Gesù assume l’evento
che distrugge la fraternità umana per farne il luogo di ricostruzione di tale
rapporto.
Il
fico improduttivo
La
parabola del fico improduttivo (Lc 13,6-9) presenta una minaccia di “morte” per
l’albero che da troppo tempo non dà frutti. Ma, al padrone che gli comanda di
tagliare l’albero, il contadino dice di no. Oppone quel lascialo, (àfes, v.
8) che è il verbo usato per la remissione dei peccati e la liberazione dal
male. Il contadino obietta. Obbedendo, non entrerebbe in conflitto con il
padrone e avrebbe una pianta in meno da lavorare. Ma il contadino crede al
cambiamento possibile. Fa fiducia, crede che una novità possa intervenire e il
frutto spuntare. E impegna se stesso, promette il suo lavoro, chiede pazienza,
almeno, per un altro anno. Il contadino fa mostra della sua libertà dicendo di
no al padrone e addirittura, dopo avergli chiesto di lasciarglielo ancora un
anno per curarlo e lavorarlo, aggiunge: se non darà frutti, “tu lo
taglierai” (v. 9). Il contadino si rifiuta di tagliare l’albero: se proprio
vuoi, lo taglierai tu, non io. Il contadino oppone un altro no al padrone.
Egli
apre uno spazio di fiducia alla pianta, ne paga il prezzo e se ne assume il
rischio: nulla gli garantisce il buon esito della sua iniziativa. Del resto:
chi conosce i tempi in cui un uomo può dare frutti e convertirsi? Se perfino
questo contadino, che assomiglia così tanto a Gesù, non si erge a padrone dei
tempi dell’altro e non taglia l’albero infruttuoso, chi siamo noi per fare
diversamente?
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