che comanda
il mondo"
Non ha come meta solo la sconfitta dell’avversario e il proprio trionfo, ma il suo annientamento, la sua umiliazione, la negazione della sua stessa dignità.
Ed è destinato a non avere limiti.
La
sconcertante attualità geopolitica ha situato la passione dell’odio come
protagonista indiscussa della nostra vita collettiva. Si tratta di una passione
che una volta Lacan ha definito come una «carriera senza limiti». Non c’è
infatti limite all’umano nella sua versione di Polemos, di dio della guerra.
Per questa ragione Freud ricordava che la passione dell’odio viene sempre prima
di quella dell’amore.
Essa
vorrebbe distruggere tutto ciò che ostacola la volontà di affermazione
dell’Uno. Ma diversamente dall’aggressività, che è una risposta reattivamente
immediata alle frustrazioni imposte dalla presenza dell’Altro, la passione
dell’odio appare come una specie di passione a lungo respiro.
Non
si consuma in una reazione impulsiva, come accade invece nell’aggressività, ma
tende a persistere, a istituirsi come una passione “fedele” e “solida”. Il suo
obbiettivo non è tanto quello di rispondere violentemente a quella che viene
percepita come una frustrazione, ma quella di programmare, con lucidità che può
essere persino apatica, la propria affermazione incontrastata a scapito
dell’Altro.
Se
nel linguaggio comune si può dire che l’odio acceca, è bene sempre ricordare
che l’odio non è un semplice tumulto emotivo destinato a disinfiammarsi nel
tempo, ma una spinta pulsionale che mira a negare il diritto di esistenza a chi
costituisce il limite della nostra espansione individuale o collettiva.
Diversamente
dall’aggressività che può esplodere in circostanze imprevedibili per essere
riassorbita anche in breve tempo, l’odio è una passione lucida che si sedimenta
e si alimenta nel tempo.
Questo
perché attraverso l’odio è possibile perseguire un ideale di solidità
identitaria. L’odio per l’ebreo, l’omosessuale, l’infedele, il negro, la donna,
il palestinese, ecc., consente di guadagnare una propria consistenza, una
propria natura, un proprio essere.
L’odio
per l’impuro, infatti, è necessario a definire l’essere di chi si vuole
considerare puro. È per esempio di questa natura l’odio che anima la furia
morale degli ayatollah nei confronti delle donne iraniane. In questo caso non
si tratta affatto di una semplice reazione aggressiva, ma di una visione del
mondo che si manifesta proprio attraverso la passione dell’odio.
In
questo senso l’odio non è mai un’alternativa emotiva alla programmazione o alla
pianificazione dei suoi obiettivi. Tutto il contrario. La sua lucidità esige
proprio la programmazione e la pianificazione.
Si
pensi al caso estremo della “soluzione finale” perseguita dai nazisti nei
confronti degli ebrei. Se la reazione aggressiva si consuma in una esplosione
violenta, finanche nella perdita di controllo, nell’incandescenza di un
passaggio all’atto che può essere anche drammaticamente violento, la lucidità
feroce dell’odio che vuole imporre l’identità dell’Uno su quella dell’Altro
porta con sé una quota necessaria di impassibilità.
Per
questa ragione, diversamente dall’impulso aggressivo, la passione lucida
dell’odio dura nel tempo. E sempre per questa ragione esso non ha come meta
solo la sconfitta dell’avversario e il proprio trionfo, ma il suo
annientamento, la sua umiliazione, la negazione della sua stessa dignità.
La
carriera dell’odio è davvero, anche da questo punto di vista, destinata a non
avere limiti.
Non
è allora affatto un caso se la sua natura ideologicamente fondamentalista e
anti-laica sia ritornata a ispirare nel nostro tempo i rigurgiti drammatici di
forme diverse di totalitarismo e di tendenze radicalmente anti-democratiche. Se
l’esperienza della democrazia si struttura sull’irriducibilità del Due —
sull’impossibilità dell’esistenza di un solo popolo e di una sola lingua, come
ricorda la Torah a proposito dell’impresa delirante degli uomini della Torre di
Babele — quella dei totalitarismi e delle spinte populiste antidemocratiche
esige invece la soppressione del pluralismo del Due nel nome del fanatismo
dell’Uno.
Non
stupisce che negli attuali conflitti bellici che dominano la scena della nostra
vita collettiva e angosciano le nostre vite individuali troviamo tra i
protagonisti maggiori i fondamentalismi che invocano il nome di Dio per
suffragare il loro diritto a sterminare l’avversario. L’odio di Dio diventa un
alleato formidabile per rafforzare l’odio dell’uomo.
Non
a caso lo stesso tycoon Trump invoca la mano di Dio sulla sua testa come
ispiratrice della sua missione di restaurazione della gloria perduta degli
Stati Uniti d’America.
Nondimeno,
come insegna la psicoanalisi, il perseguimento dell’Uno senza considerare
l’insopprimibilità del Due non può che generare morte e distruzione. Il rifiuto
di riconoscere l’esistenza separata del pluralismo del Due, la volontà ferrea
di ricondurla al monolinguismo dell’Uno, struttura l’illusione di una comunità
che si costituirebbe sull’annullamento delirante delle differenze, come una
comunione che esclude ogni libertà. È il sogno che ha ispirato la terribile
stagione novecentesca dei totalitarismi ideologici.
Nondimeno,
oggi possiamo osservare una variazione cruciale su questo tema che proviene
proprio da Donald Trump. Lo aveva a suo modo anticipato Pasolini nel suo Salò:
l’espressione autoritaria-totalitaria del potere non è alternativa all’arbitrio
anarchico della volontà individualista ma può costituirne il suo massimo
compimento.
Nessun commento:
Posta un commento