Il caso Hackman Determinante creare comunione con gli altri
Riflessione sulla morte in solitudine del famoso attore.
Occorre allargare cuore e mente, capire che l’altro mi è
indispensabile e realizzare comunità con chi è diverso da noi
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di MAURIZIO PATRICIELLO
Non
voglio scrivere della bravura di Gene Hackman come attore né dei premi
ricevuti. Chi ha avuto successo nel mondo del cinema, dello spettacolo, della
musica suscita tanta ammirazione ma anche tanta invidia. In fondo ha ottenuto
ciò che – forse, chissà - avremmo desiderato anche noi.
Voglio
soffermarmi, invece, a pensare all’uomo vecchio e malato, che trova la morte
nella sua stessa casa trasformata in una prigione. Solo, terribilmente solo.
Come saranno state le sue ultime ore? Si sarà reso conto del dramma che stava
per abbattersi su di lui? Avrà intuito che Betsy, la donna che amava e dalla
quale veniva accudito, lo aveva lasciato per sempre? Avrà chiesto aiuto durante
quella interminabile settimana?
È
angoscioso pensare che un uomo, ricco, famoso, conosciuto in mezzo mondo, possa
terminare la sua lunga vita come è accaduto a lui. Una morte tristissima, nella
più gelida solitudine. Una riflessione, a riguardo, ce la possiamo permettere,
anche perché gli attori, i cantanti, gli artisti, in un certo senso, almeno un
poco ci appartengono. Una mia cara amica invalida mi chiese di celebrare una
messa per Nadia Toffa e Fabrizio Frizzi. «Perché?» le chiesi. E lei: «Mi hanno
tenuto tanta compagnia». Bellissimo.
Per
questo motivo la morte di Hackman ci ha procurato non solo domande ma dolore.
Com’è stato possibile? “Scelte di vita”, dirà qualcuno pronto a chiudere il
discorso e voltare pagina. Quasi a dire: l’ha voluto lui, ognuno fa quello che
meglio crede. E invece no, non possiamo lavarci le mani e tirare a campare.
Perché il dramma della vecchiaia, della solitudine, della demenza senile,
della malattia, prima o poi, ci riguarda tutti. Possiamo fare qualcosa per
rendere meno pesanti gli ultimi anni di vita di tanta gente e, magari, nostri?
Certamente, basta volerlo.
Innanzitutto,
occorre incrementare la volontà di eliminare i ghetti.
Martedì
mattina, sono stato a fare un incontro sulle mafie in un
liceo di Aversa. Quasi mille giovani hanno ascoltato con
attenzione, hanno fatto domande, espresso le loro perplessità,
avanzato proposte. A
nche
a loro, ancora una volta, ho consigliato vivamente di non
ritrovarsi solo con gli amici della loro stessa età, ma di
allargare le tende senza paura. Ciò di cui, necessariamente, ha
bisogno il mondo è la comunione.
L’altro mi
è indispensabile. Se riusciamo a creare comunione anche con
chi, per età, idee, condizioni economiche, geografiche, sociali,
è diverso da noi, avremo reso un ottimo servizio a noi stessi e
all’umanità.
Come
i vecchi non devono stare solo con i vecchi, allo stesso modo i
giovani.
La
famiglia, ancora una volta, potrebbe essere la risposta a questa
esigenza. In famiglia c’è spazio per tutti, nonni,
genitori, bambini e cagnolino.
Dopo la
famiglia, per noi cristiani, viene la comunità parrocchiale.
Iniziamo
noi.
Domenica
prossima, a Messa, con estrema gentilezza, andiamo a sederci accanto a uno
sconosciuto. Sorridiamogli. Con garbo chiediamogli come si chiama. La prossima
volta quello sconosciuto avrà un nome.
Un
passo alla volta e, per Pasqua, saremo amici. Porteremo i suoi pesi e gli
affideremo i nostri. E le giornate buie, come per incanto, si illumineranno. Il
fardello che ci schiaccia diverrà più leggero. Ognuno diverrà custode del
suo fratello.
Anche
con il vicinato siamo chiamati a fare qualcosa del genere. Ci terremo d’occhio,
prenderemo nota di chi vive solo, non per ficcare il naso nelle faccende
altrui, ma per captare i primi segnali di un disagio, di un bisogno, di una
richiesta di aiuto.
Non
dobbiamo avere paura di osare. Tutto questo, ovviamente, non s’inventa dalla
sera alla mattina. Si costruisce lentamente.
Anche
le varie fasi della vita hanno bisogno di entrare in comunione tra loro. Un po’
come avviene per la pensione. Lavorando in gioventù costruiamo una cassa comune
alla quale attingere da vecchi.
Provvedere.
Prevedere. Prevenire. Soccorrere. Condividere. Amare.
Dobbiamo
imparare a invecchiare, senza essere pedanti, senza pretendere di avere sempre
ragione, senza la pretesa di dovere per forza insegnare. Senza rinchiuderci in
quegli insopportabili lamenti che fanno scappare i ragazzi. Occorre allargare
il cuore e la mente.
Chiudo
gli occhi e sogno. Provo a pensare al caro Gene Hackman che spalanca le porte
della sua bella casa a una, due, tre famiglie di poveri e le rende felici. Le
grida dei bambini rallegrano le sue giornate. E, nel momento del pericolo,
chiamano gli aiuti.
Il
Vangelo ha sempre ragione. Gesù ci ha detto di amare tutti, sempre, in
particolare i più fragili, i vecchi, gli ammalati, i bambini, i poveri, coloro
che lentamente vanno perdendo le forze, la memoria, il senno. Hanno bisogno di
noi.
Abbiamo bisogno di loro. Custodiamoli.
Custodiamoci.
Credo
che le nostre comunità parrocchiali (e perché no, pure quelle scolastiche?),
anche da questo punto di vista, sono chiamate a essere profetiche.
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