venerdì 14 marzo 2025

UN AMICO A PASQUA


 Il caso Hackman Determinante creare comunione con gli altri

  

Riflessione sulla morte in solitudine del famoso attore.


Occorre allargare cuore e mente, capire che l’altro mi è

 indispensabile e realizzare comunità con chi è diverso da noi

 

- di MAURIZIO PATRICIELLO

 

Non voglio scrivere della bravura di Gene Hackman come attore né dei premi ricevuti. Chi ha avuto successo nel mondo del cinema, dello spettacolo, della musica suscita tanta ammirazione ma anche tanta invidia. In fondo ha ottenuto ciò che – forse, chissà - avremmo desiderato anche noi.

Voglio soffermarmi, invece, a pensare all’uomo vecchio e malato, che trova la morte nella sua stessa casa trasformata in una prigione. Solo, terribilmente solo. Come saranno state le sue ultime ore? Si sarà reso conto del dramma che stava per abbattersi su di lui? Avrà intuito che Betsy, la donna che amava e dalla quale veniva accudito, lo aveva lasciato per sempre? Avrà chiesto aiuto durante quella interminabile settimana?

È angoscioso pensare che un uomo, ricco, famoso, conosciuto in mezzo mondo, possa terminare la sua lunga vita come è accaduto a lui. Una morte tristissima, nella più gelida solitudine. Una riflessione, a riguardo, ce la possiamo permettere, anche perché gli attori, i cantanti, gli artisti, in un certo senso, almeno un poco ci appartengono. Una mia cara amica invalida mi chiese di celebrare una messa per Nadia Toffa e Fabrizio Frizzi. «Perché?» le chiesi. E lei: «Mi hanno tenuto tanta compagnia». Bellissimo.

Per questo motivo la morte di Hackman ci ha procurato non solo domande ma dolore. Com’è stato possibile? “Scelte di vita”, dirà qualcuno pronto a chiudere il discorso e voltare pagina. Quasi a dire: l’ha voluto lui, ognuno fa quello che meglio crede. E invece no, non possiamo lavarci le mani e tirare a campare. Perché il dramma della vecchiaia, della solitudine, della demenza senile, della malattia, prima o poi, ci riguarda tutti. Possiamo fare qualcosa per rendere meno pesanti gli ultimi anni di vita di tanta gente e, magari, nostri? Certamente, basta volerlo.

Innanzitutto, occorre incrementare la volontà di eliminare i ghetti.

Martedì mattina, sono stato a fare un incontro sulle mafie in un liceo di Aversa. Quasi mille giovani hanno ascoltato con attenzione, hanno fatto domande, espresso le loro perplessità, avanzato proposte. A

nche a loro, ancora una volta, ho consigliato vivamente di non ritrovarsi solo con gli amici della loro stessa età, ma di allargare le tende senza paura. Ciò di cui, necessariamente, ha bisogno il mondo è la comunione.

L’altro mi è indispensabile. Se riusciamo a creare comunione anche con chi, per età, idee, condizioni economiche, geografiche, sociali, è diverso da noi, avremo reso un ottimo servizio a noi stessi e all’umanità.

Come i vecchi non devono stare solo con i vecchi, allo stesso modo i giovani. 

La famiglia, ancora una volta, potrebbe essere la risposta a questa esigenza. In famiglia c’è spazio per tutti, nonni, genitori, bambini e cagnolino.

Dopo la famiglia, per noi cristiani, viene la comunità parrocchiale.

Iniziamo noi.

Domenica prossima, a Messa, con estrema gentilezza, andiamo a sederci accanto a uno sconosciuto. Sorridiamogli. Con garbo chiediamogli come si chiama. La prossima volta quello sconosciuto avrà un nome.

Un passo alla volta e, per Pasqua, saremo amici. Porteremo i suoi pesi e gli affideremo i nostri. E le giornate buie, come per incanto, si illumineranno. Il fardello che ci schiaccia diverrà più leggero. Ognuno diverrà custode del suo fratello.

Anche con il vicinato siamo chiamati a fare qualcosa del genere. Ci terremo d’occhio, prenderemo nota di chi vive solo, non per ficcare il naso nelle faccende altrui, ma per captare i primi segnali di un disagio, di un bisogno, di una richiesta di aiuto.

Non dobbiamo avere paura di osare. Tutto questo, ovviamente, non s’inventa dalla sera alla mattina. Si costruisce lentamente.

Anche le varie fasi della vita hanno bisogno di entrare in comunione tra loro. Un po’ come avviene per la pensione. Lavorando in gioventù costruiamo una cassa comune alla quale attingere da vecchi.

Provvedere. Prevedere. Prevenire. Soccorrere. Condividere. Amare.

Dobbiamo imparare a invecchiare, senza essere pedanti, senza pretendere di avere sempre ragione, senza la pretesa di dovere per forza insegnare. Senza rinchiuderci in quegli insopportabili lamenti che fanno scappare i ragazzi. Occorre allargare il cuore e la mente.

Chiudo gli occhi e sogno. Provo a pensare al caro Gene Hackman che spalanca le porte della sua bella casa a una, due, tre famiglie di poveri e le rende felici. Le grida dei bambini rallegrano le sue giornate. E, nel momento del pericolo, chiamano gli aiuti.

Il Vangelo ha sempre ragione. Gesù ci ha detto di amare tutti, sempre, in particolare i più fragili, i vecchi, gli ammalati, i bambini, i poveri, coloro che lentamente vanno perdendo le forze, la memoria, il senno. Hanno bisogno di noi.

 Abbiamo bisogno di loro. Custodiamoli. Custodiamoci.

Credo che le nostre comunità parrocchiali (e perché no, pure quelle scolastiche?), anche da questo punto di vista, sono chiamate a essere profetiche.

 www.avvenire.it

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