“L’alfabetizzazione delle emozioni non può che partire dalla piena riacquisizione di tutti i nostri sensi. La famiglia e la scuola devono aiutare il bambino a prendere possesso di questa sua.”
“L’alfabetizzazione delle emozioni non può che partire dalla piena riacquisizione di tutti i nostri sensi. La famiglia e la scuola devono aiutare il bambino a prendere possesso di questa sua.”
L’amore vero
salva dagli abusi
- di Emanuela
Vinai
«E
questo mi induce a interrogarmi sulle emanazioni del corpo rappresentate dalla
figura, dall’andatura, dalla voce, dal sorriso, dalla calligrafia, dalla
gestualità, dalla mimica, uniche tracce lasciate nella nostra memoria da coloro
che abbiamo davvero guardato». Quanta verità in questo passaggio di «Storia di
un corpo» di Daniel Pennac. L’amore si riconosce da quel che si nota, e resta
impresso, dell’essere amato, nella sua totalità: nel suo muoversi nel mondo,
nei suoi atteggiamenti, nella luce dello sguardo, in quei piccoli difetti che
diventano le perfette imperfezioni, in quella indivisibile unità tra il corpo
nella sua fisicità e chi quel corpo lo fa vivere. Se è così, quanto può essere
riduttivo, limitante, ristretto, un (ab)uso del corpo, considerato come
disgiunto dalla persona?
cosa si muove dopo il caso “garanti” e Valditara
Il
caso dei garanti non è stato facile da gestire in Viale Trastevere. Ora le
associazioni chiedono più potere e l'autonomia di Valditara si restringe
-
di Max Ferrario
Il
caso Cecchettin non è stato facile da gestire in Viale Trastevere. La vicenda
dei garanti prima nominati e poi ritirati ha avuto infatti ripercussioni che
non si sono del tutto assorbite. Conviene riepilogare brevemente la vicenda.
La Nota non ha avuto alcun riscontro polemico poiché dava indicazioni secondo una modalità consolidata per iniziative di questo tipo: coinvolgimento attivo degli studenti, indicazione di un docente referente, costituzione di focus group che avessero come riferimento la classe, acquisizione del consenso dei genitori degli studenti coinvolti, individuazione per ogni gruppo classe del docente che potesse fungere da animatore, formazione di ciascun docente “animatore”, attribuzione al Fonags del compito di raccordare le modalità di attuazione dei percorsi, collaborazione dell’Indire per organizzare i percorsi di formazione dei docenti e collaborazione “dell’Ordine degli psicologi e di altri organismi scientifici e professionali qualificati”.
tre obiettivi da respingere al mittente
- - di Domenico Fabio Tallarico
L’art.
30 della “Costituzione più bella del mondo” recita così: “È dovere e diritto
dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal
matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano
assolti i loro compiti”. La tesi per l’introduzione di una nuova educazione
sessuale a scuola si fonderebbe non sul fatto che la famiglia non educa più i
figli (vero problema dopo la distruzione del ruolo della famiglia nella nostra
società), ma sul presupposto che li educherebbe troppo e male, con
un’educazione di tipo “patriarcale”, che sarebbe causa di violenza sulle donne.
Per questa ragione i giovani andrebbero ri-educati dallo Stato.
Ma se anche l’educazione sessuale e affettiva (che coinvolge gli aspetti religiosi, filosofici e ideali più intimi della persona) viene tolta alla famiglia, che diritto e dovere di educare le rimane nei confronti dei figli?
Le
donne sono trattate in modo diverso dagli uomini, sono discriminate nel lavoro,
prendono uno stipendio più basso degli uomini e vengono spesso licenziate se
rimangono incinte, per questo serve un’educazione sessuale affettiva nelle
scuole. Questo abbiamo sentito in questi giorni.
La
scuola negli ultimi anni sta investendo molte risorse su alcune tematiche
considerate prioritarie, in particolare le materie STEM Science (scienza),
Technology (tecnologia), Engineering (ingegneria) e Mathematics (matematica),
l’informatica (attraverso l’acquisto di attrezzature e la formazione di
docenti), principalmente quindi materie orientate all’ambito scientifico.
di narcisismo
da non tollerare un rifiuto
-Intervista a Massimo Recalcati a cura di Maria Novella De Luca
«Il
mito del nostro tempo è quello del successo individuale. Si tratta di un nuovo
imperativo che rende impossibile l’esperienza del fallimento. Chi corre piano o
chi cade è tagliato fuori. Si tratta di un vero e proprio culto della
prestazione e del perfettismo. Subire il rifiuto di una ragazza significa
riconoscere i propri limiti, che non si può essere tutto né avere tutto.
Significa accettare una sconfitta delle proprie aspirazioni. Per questo a volte
il ricorso alla violenza sostituisce la dolorosa constatazione della propria
insufficienza. È una tendenza del nostro tempo: rifiutare l’ostacolo, la
perdita, il fallimento, il dolore».
«Il
narcisismo dei figli è sempre un prodotto di quello dei genitori. Oggi una
delle angosce più diffuse tra i genitori è quella di tutelare i loro figli
proprio dal rischio del fallimento e della caduta. Questo non aiuta i figli ad
assumere la responsabilità delle loro parole e delle loro azioni. E,
soprattutto, a comprendere che è proprio attraverso la caduta e il fallimento
che la vita dei nostri figli acquista una forma effettiva. Sono gli adulti
responsabili di non trasmettere ai figli il senso della legge, ovvero che non
si può essere tutto, avere tutto, sapere tutto, fare tutto…».
«Il
mondo social nei suoi aspetti più patologici esalta il perfettismo e il
principio di prestazione. Non c’è in quel luogo alcuna confidenza con
l’esperienza della caduta e della solitudine. Tutto deve apparire perfetto.
Anche l’eventuale caduta diviene in certi casi un modo per raccogliere like… È
una virtualità narcisistica dove tutto deve apparire ideale».
«Non
solo dei maschi di oggi. Da sempre gli uomini che odiano le donne sono uomini
che non sopportano la loro libertà. L’ideologia del patriarcato si è retta su
questo principio repressivo di fondo: negare sistematicamente la libertà delle
donne. Non a caso Adorno e Horkheimer assimilavano la libertà delle donne alla
libertà dell’ebreo. C’è qualcosa di insopportabile, di intollerabile nell’una e
nell’altra. Sono il rimosso dell’Occidente. Per questa generazione specifica di
maschi il problema si è complicato, almeno per un verso, perché riconoscere di
non essere tutto per l’altro è una ferita narcisistica insopportabile. Ma non
dobbiamo dimenticare che al fondo di ogni narcisista c’è il buio della
depressione. Non è tanto l’invidia ad avere spinto Filippo ad uccidere, ma la
frattura di un legame che per lui costituiva la sola salvezza possibile dal
buio della depressione. Una rottura che avviene in due tempi: il primo è quello
nel quale Giulia dichiara la fine del suo amore; il secondo quando si approssima
a discutere la sua tesi di laurea. Sono due fratture irreversibili inflitte
all’ideale della coppia simbiotica».
«Non
servirà certo introdurre nelle scuole un’ora di educazione affettiva, sessuale
o sentimentale … Il rispetto per l’altro e, in particolare, per le donne non è
una materia specialistica come lo sono la chimica o la letteratura. Sarebbe
come pensare che per costruire buoni cittadini sia sufficiente un’ora di
educazione civica alla settimana. La cultura del rispetto della differenza
avviene innanzitutto nelle famiglie e nella Scuola. Sono la famiglia e la
Scuola i due principali educatori con il compito di alimentare nei nostri figli
la cultura del rispetto della differenza: la testimonianza dal lato della
famiglia che possano esistere relazioni ispirate dalla cura e dalla accoglienza
e la cultura dal lato della Scuola come antidoto nei confronti della violenza».
"Noi genitori
responsabili".
I nostri figli cresciuti senza conoscere il rifiuto"
«Pretendiamo di proteggerli da tutto, non permettiamo che si creino gli anticorpi per affrontare sfide e delusioni. Da quando sono piccoli. Cascare dal cavallino a dondolo e farsi un po' di male fa parte della vita. Noi, da idioti, che facciamo? Mettiamo la gomma piuma attorno al cavallino».
«Le madri hanno insegnato alle figlie a sopportare. Ma perché? Ci sono donne che hanno sopportato l'insopportabile: mariti violenti o alcolizzati. Ma perché hanno trasmesso questo concetto alle figlie come fosse un valore da tramandare di generazione in generazione? È ovvio che l'amore debba essere il contrario della galera. È ovvio che solo una mente illiberale possa partorire l'idea di geolocalizzarmi»
Vanno avanti per sei ore, e alla fine
nessun compito somiglia a un altro. La piattezza dei quesiti ministeriali viene
spazzata via dalla familiarità con i testi letterari e con il libro
dell’esperienza. Non sciorinano discorsi precotti sul verismo, ma scoprono
differenze fra gli occhi “neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino” eppure
“offuscati dall’ombrosa timidezza della miseria” di Nedda e quelli “ridenti e
fuggitivi” di Silvia; non essendo ostriche abbarbicate allo scoglio del
manuale, si salvano dalla fiumana delle frasi fatte sulla società siciliana
dell’Ottocento e, quando la protagonista piange dando “alla luce una bambina
rachitica e stenta”, intercettano, al bordo dell’amarezza per la sua sorte
d’infelicità, il segno di un immenso amore; si chiedono anche se a qualcuno
importi di quelle remote lacrime e delle loro più fresche, perché il dolore ti
stravolge i lineamenti ma “in fondo è bello avere un cuore”. Su questi fogli
non duellano un paragrafo e uno studente, ossia due avatar, ma si incontrano
due soggetti reali: questo testo e questo ragazzo.
La sera fra la prima e la seconda prova
il concerto a Bari di Vasco Rossi mi mette in testa, oltre all’adrenalina
di Siamo solo noi, un altro refrain: “Voglio trovare un
senso a questo esame / anche se questo esame un senso non ce l’ha”.
Mi sfugge, per esempio, quale sia il senso del colloquio orale: interrogare ancora?
Sei insegnanti interni non dovrebbero aver già verificato e straverificato per
un anno o due o tre o perfino cinque? Fino all’ultima ora dell’ultimo giorno
dell’ultimo anno si sbaverà dietro un’ultima domandina, tre minuti a testa?!? O
il senso sarà forse dimostrare chissà a chi quanto uno studente sa?
A sentir balbettare di fascisti alleati con i nazisti e di atomiche su
Hiroshima, l’impressione è che l’asticella si assesti a poco più che a
un’infarinatura da camionista, che stride con il pallore di un mese lontano dal
mare; quanto al latino, diplomarsi allo Scientifico equivale a uscire da
Scienze applicate.
Da qualche tempo l’orale verte sui “nodi concettuali”: il rapporto
uomo-natura, la crisi del soggetto, il progresso eccetera. Qual è la prassi? In
italiano di progresso parla Verga, in inglese ne parla Dickens, in storia la
rivoluzione industriale. A mancare è la semplice domanda: tu, a proposito del
progresso, cosa dici? Perché “progresso” è l’argomento, ma la tua tesi quale
sarebbe? I monologhi oscillano fra la ripetizione dei paragrafetti e qualche
sventolata di opinionismo da bar, entrambi nemici della conoscenza affettiva, ossia di un giudizio personale non
dopo ma dentro quello che si studia. Forse nessuno, a questi ragazzi, ha
insegnato ad argomentare. C’era sempre da interrogare sul paragrafetto. Bastava
poi che si aggiungesse un qualsiasi slogan posticcio del tipo “bisognerebbe
rispettare l’ambiente” oppure “al giorno d’oggi i giovani vivono attaccati al
cellulare mentre i veri valori sono altri” perché se ne elogiasse lo spirito
critico.
Eppure l’ordinanza ministeriale parlava
chiaro: “argomentare in maniera critica e personale”, “interdisciplinare”,
“evitando una rigida distinzione” tra materie. Ci vorrebbe un discorso
compatto, che attraverso passaggi logici documentati sviluppi una tesi. Ma dopo
anni di steccati invalicabili fra le discipline, ci si illude di una miracolosa
improvvisazione in extremis?
Qualche esempio di interdisciplinarità:
l’ipersfera del Paradiso dantesco nella lettura del fisico Patapievici;
Heisenberg e il Titanic come punti di collisione del positivismo comtiano; il
rapporto fra verità e bellezza nello Zibaldone come
sintesi fra la geometrizzazione illuminista e la sensibilità poetica:
differenze rispetto a Keats.
In assenza di tale habitus, non resterà
che delirare tra collegamenti strampalati, che sono la tomba di ogni serio
percorso disciplinare e interdisciplinare. A molti ragazzi hanno già messo nero
su bianco, in largo anticipo, non solo quali saranno i nodi, ma anche quali
argomenti per ogni materia e in quale ordine dovrà esporli: ritagliarsi un
angolino per sé è un’eventualità non contemplata.
Almeno oggi, invece, le domande
andrebbero ribaltate: più che “lo sai questo?”, “cosa pensi?”; più che “cosa
farai dopo?”, “chi sei tu, adesso?”. Nessun ragazzo intelligente risponderebbe
alle seconde prescindendo dalle prime. Eppure, dopo una vita dietro i banchi di
scuola, non li riteniamo capaci di orizzonti così ampi. Infatti i corridoi si
annuvolano di diciannovenni alti un metro e novanta che il minuto prima
dell’orale ripetono nervosamente qualche paragrafetto dal quadernetto. Forse
non hanno trovato scritto su nessun libro che la cultura è ciò che rimane
quando hai dimenticato tutto quello che hai imparato, e che perciò l’obiettivo
del sapere è vedere e, più che memorizzare, capire.
Abbiamo avuto tredici anni per dirglielo
ma non c’è stato tempo. Adesso rimaniamo fedeli alla linea, investigando
un’ennesima volta sulle informazioni che ha ingurgitato ed espelle. Impensabile
che la palla della conoscenza venga arroventata da un pensiero fondato e
originale. Sottovoce mormoro un’altra canzone, di Niccolò Fabi: “non vorrei che
tu dicessi quello che so, ma quello che non so dire”. Perché nella didattica
l’alternativa rimane radicale, tra informazioni e conoscenza: ammaestriamo a
sapere, come doppioni di internet, oppure insegniamo a vedere, come nessun
altro?