Visualizzazione post con etichetta spazio. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta spazio. Mostra tutti i post

venerdì 3 maggio 2024

EDUCAZIONE: HIC ET NUNC

 

“Qui e ora, le coordinate da riscoprire nell’educare”


- di Vanna Iori



Spazio e tempo non sono dimensioni accessorie, ma essenziali costitutive dell’educazione, dal momento che ogni relazione si gioca in esse.

Oggi però sono cambiate le strutture di spazio e tempo.

Per questo in educazione è urgente porsi il tema della "soglia".

Le relazioni educative si giocano sempre nel tempo e nello spazio. Queste due dimensioni non sono accessorie, ma essenziali e propriamente costitutive dell’educazione.

Ogni evento educativamente significativo avviene in uno spazio-luogo che non è solo quello fisico-geometrico ma è un mondo in cui i colori, le forme, le dimensioni, le caratteristiche visive e tattili rivestono importanza, anche quando non siano frutto di intenzionalità pedagogica ma di occasionalità.

Per esempio, le zone morbide di un asilo nido sono realizzate intenzionalmente per creare angoli di intimità con sé stessi o di decantazione delle emozioni. Questo include necessariamente il tempo, poiché all’angolo morbido corrisponde un tempo della quiete, che scorre più lentamente.

La relazione educativa è per sua natura spazializzata non solo per il fatto di essere collocata o contenuta in uno spazio, ma anche perché è la qualità stessa della relazione a modificare i vissuti di questo spazio, rendendolo luminoso o buio, aperto o imprigionante, caldo di accoglienza o gelido di solitudine, minaccioso o armonioso.

Lo spazio educativo è quindi modificato dai vissuti che lo animano e lo trasformano.

Allo stesso modo l’educazione è sempre temporalità.

Ma il tempo dell’esperienza formativa non è rettilineo e uniforme, non è misurabile oggettivamente perché non scorre in modo omogeneo come le lancette dell’orologio: ha ritmi diversi a seconda dei diversi vissuti delle nostre situazioni esistenziali.

A maggior ragione sul piano educativo ogni relazione si situa sempre nel “qui e ora”, ma scorre incessantemente costruendo la formazione che è trans-formazione poiché avviene nel cambiamento che, dal passato, che non possiamo eliminare dalle nostre memorie, apre al futuro, al progetto, alla speranza o anche al timore del futuro.

Il tempo dell’educare comprende quindi una pluralità di tempi interiori che sempre meno, nel mondo attuale, coincidono con le cesure esterne che delimitano le diverse tappe socialmente stabilite dei percorsi formativi.

I cicli scolastici, l’inizio dell’attività lavorativa, il matrimonio, la scelta procreativa, il pensionamento sono tutti passaggi modificati oggi nella loro fisionomia estrinseca e sempre meno corrispondenti alla dimensione temporale vissuta.

La Neet generation, per esempio, i giovani che non studiano e non lavorano, sono descritti sul piano sociale come una vistosa interruzione di progettualità e perdita di futuro.

C’è dunque, a fronte dei coetanei delle generazioni precedenti, un cambiamento dei cicli prefigurati per i tempi dell’attività formativa e lavorativa, divenute entrambe sempre più precarizzate.

Ciò rendere evidente che i tempi “geometrici” del ciclo della vita normato dall’organizzazione sociale sono scanditi in cicli oggettivamente condivisi, ma i vissuti dei singoli giovani in attesa di lavoro (o che hanno rinunciato a cercarlo) ci dicono che, nella dimensione vissuta, i tempi personali assumono qualificazioni diverse in relazione alla risonanza emotiva dei diversi soggetti.

Sono cambiate le strutture di spazio e tempo.

Pensiamo alla famiglia che è il primo luogo dello spazio educativo.

Oggi è spesso luogo dei conflitti, persino delle violenze e degli abusi e caratterizzato da chiusura e autoreferenzialità.

Un isolamento abitativo a cui corrisponde un’insularità psicologica, affettiva, sociale e politica.

E questo pone il tema dell’esterno, della soglia.

Un tema di speciale rilevanza pedagogica è quindi individuabile nelle strategie d’integrazione, di socializzazione e di responsabilizzazione reciproca.

Il territorio non è soltanto un luogo geografico, fisico, ma è un luogo denso di vissuti, emotivamente significativi, determinati dalle relazioni.

Le occasioni d’incontro possono portare a «costruire» la comunità nell’apertura all’alterità, alla comunicazione, all’incontro, alla solidarietà sociale, dove l’educazione all’etica della responsabilità presieda alla costruzione delle reti comunitarie.

Per quanto riguarda poi la temporalità, il tempo «soggettivo» è divenuto sempre più segmentato in una molteplicità di esperienze, spesso imprevedibili, che richiedono una notevole capacità di rapido adeguamento alle trasformazioni in corso.

Le tre dimensioni prioritarie della temporalità sul piano educativo, tempo passato della memoria, dell’esperienza presente e dell’apertura al futuro, hanno cambiato il loro senso.

Lo scorrere della vita educativa si snoda quindi attraverso un passato sempre ripreso (nella storia personale e collettiva) ed un futuro in cui sempre si «progetta» in quanto continuo auto superamento nel divenire.

È il progetto educativo che dà senso all’azione presente.

Situata nella visione del futuro, l’educazione si apre ai versanti della possibilità, del poter-essere. L’orientamento verso il progetto dirige i passi dell’educazione che è sempre “movimento verso”, fondato su un telos, un fine, che riconosce nell’oltre l’orientamento del proprio procedere.

Le azioni educative sono sempre nel tempo futuro della progettualità, ma non possono mai prescindere dal tempo passato della memoria, dal condizionamento di “ciò che è stato”, da cui deriva ogni progetto di “ciò che sarà”.

Recuperare il futuro e il possibile nella pedagogia significa richiamare la dimensione operativo-trasformatrice dell’educazione, il poter-essere in modo diverso, potere guardarsi, nell’interazione delle relazioni educative, con sguardo rinnovato ogni giorno.

Abbiamo il compito, in questo mondo stravolto, di trovare nuove categorie per accompagnare i bambini e i giovani in questo percorso.

Vita


martedì 6 giugno 2023

VIVERE LO SPAZIO, ABITARE LA VITA

 Siamo abituati a pensare l’esistenza in termini di tempo ma è solo attraverso il luogo che essa acquisisce consistenza e senso.

Privato o condiviso, la casa o il “posto” di lavoro: ogni luogo non è mai neutro né un fondale, ma il grande teatro della possibilità.

 È nello spazio che ci mettiamo in gioco, e nello spazio ci è dato di incontrare ciò che accomuna tutti: l’universalmente umano.

 

- di SERGIO GIVONE

 

Il tratto di tempo che a ciascuno di noi è dato di vivere nel panorama della storia universale è uno spazio minimo, un quasi niente, un’inezia. Però è uno spazio. Lo spazio in cui per l’appunto “ha luogo” la nostra vita. Abbiamo bisogno di usare questa parola − spazio, invece di tempo − perché altrimenti la nostra vita rischia di sfumare in una serie di istanti indifferenziati e di perdere il suo significato unitario e il suo valore simbolico, mentre essa li acquista non appena venga rapportata alle situazioni, alle circostanze, agli ambienti. Il tempo, come già affermava Aristotele, è scandito da un’infinità di momenti che si distinguono unicamente secondo il prima e il poi e che in fondo sono tutti uguali. Invece lo spazio, sosteneva Platone, è bensì vuoto, ma simile a una matrice fatta di cera e pronta ad accogliere tutte le forme dell’essere.

 Le prospettive filosofiche che mettono al centro il tempo (più o meno tutte quelle moderne) devono poi fare i conti con il problema del nulla e cioè col fatto che la temporalità elevata a paradigma supremo ha come esito il nichilismo. Carattere specifico del tempo è la dissoluzione di ogni cosa, la vanificazione di tutto ciò che è. Tempus edax rerum significa che il tempo si divora la realtà tutt’intera. Quando invece il primato va allo spazio, tutto cambia. È lo spazio che ci mette in rapporto con l’eterno. O quanto meno con la speranza che qualcosa di noi resti, per sempre. A questa speranza si riferisce la preghiera per i morti che invoca l’eterno riposo per tutti coloro che non sono più. Che cosa significa questo eterno riposo se non poter sostare eternamente nella verità del proprio essere? Sostare: termine che ha una connotazione spaziale prima che temporale. Infatti il punto essenziale è dove sostare. Sostare nella verità, sostare in Dio.

 Tra coloro che hanno messo al centro del loro pensiero lo spazio (anziché il tempo) ci sono i sufi, mistici islamici. I sufi fanno riferimento anzitutto allo spazio vuoto. Cioè allo spazio che, proprio perché vuoto, si lascia riempire dai gesti che danno senso all’esistenza di ogni uomo, dal più misero al più elevato degli uomini: i gesti della libertà. Muoversi nello spazio vuoto, non impediti da nulla, significa muoversi liberamente. Che è come dire: nel solo modo veramente degno. Espressione artistica ma anche religiosa di questa dignità è la danza. Non è necessario spingersi tanto lontano e sfidare le più vertiginose altezze del pensiero per capire quanto sia necessario fare i conti con lo spazio. Basta pensare all’importanza che rivestono i luoghi da noi abitati. La nostra casa, ad esempio. Che è nostra non solo e non tanto perché ce ne siamo appropriati, ma perché in essa ci appropriamo di noi stessi. Nella nostra casa, più che altrove, noi siamo veramente noi. Anzi, potremmo dire che lì noi ci riconosciamo per quelli che veramente siamo. Lo stesso dovrebbe valere anche per il “posto” per antonomasia, il posto di lavoro. Che è un buon posto di lavoro, se ci sentiamo a nostro agio e come a casa. È un cattivo posto di lavoro, se ci fa sentire estranei, assoggettati a dinamiche alienanti, e come strappati a noi stessi.

 Perfino le esperienze che ci portano lontano dai luoghi consueti − per turismo, per vacanza, per necessità − possono essere positive o negative a seconda di come gli spazi ci accolgono (o ci respingono). Ci sono luoghi con cui si entra immediatamente in sintonia, in cui si sta bene senza sapere perché, e dove si vorrebbe tornare. E luoghi che avvertiamo come ostili e inabitabili prima ancora di averli effettivamente abitati. Che cosa significa tutto ciò? Significa tante cose, naturalmente. Ma una in particolare. E cioè che lo spazio non è mai neutro. E non è, non può essere, solo un fondale di palcoscenico. Al contrario, è nello spazio che noi ci mettiamo in gioco. Nello spazio dell’abitare, nello spazio condiviso in cui ci è dato di incontrare ciò che accomuna tutti. L’universalmente umano.

 E allora come continuare a far finta di niente di fronte al più grave dei problemi del nostro tempo? Come distogliere lo sguardo di fronte al fatto che la terra, la nostra casa comune, sta diventando inabitabile? Lo sta diventando non per un’arcana necessità, ma per colpa nostra, per la nostra irresponsabilità. Dovevamo prenderci cura della terra come di un bene che ci è stato affidato. Che cosa ne abbiamo fatto, invece?

 www.avvenire.it