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venerdì 18 luglio 2025

LAUDATO SI' SIGNORE MIO

 


Da 800 anni il Cantico

 delle creature

ci insegna a vivere

 “senza misure”

 Nell’anno in cui si ricorda l’ottavo centenario della composizione, una riflessione sul testo di san Francesco e sulla sua capacità di rispondere all’odierna idolatria consumistica. «È un invito a riscoprire che tutto è dono»


-di GIUSEPPE CAFFULLI*

 Quest’anno, all’interno del percorso dedicato ai Centenari francescani che preparano all’ottavo centenario della morte del santo di Assisi (nel 2023 sono stati ricordati la Regola bollata e il presepe di Greccio, nel 2024 le stigmate) celebriamo la composizione del Cantico delle creature (o di Frate Sole). Il Cantico è considerato il primo testo poetico in volgare italiano, ma il suo valore trascende la letteratura per toccare corde più profonde. È una preghiera, un inno alla vita, alla fraternità cosmica, un atto di lode a Dio attraverso l’intero Creato, vissuto non come oggetto da usare ma come dono da accogliere. Proprio per questa sua struttura relazionale, il Cantico – a ben guardare – si offre oggi come un manifesto contro l’idolatria contemporanea, che si esprime nella logica del possesso, del denaro, del consumo e del dominio.

Abitare il mondo non possederlo

Francesco d’Assisi si chiamava in realtà Giovanni di Pietro di Bernardone. Il nome « Francesco» gli fu dato dal padre, ricco mercante di stoffe, forse per via dei suoi rapporti commerciali con la Francia. Francesco nasce e cresce in un ambiente di mercanti e commercianti, tra botteghe, tessuti e bilance. Impara fin da piccolo il valore delle cose, il linguaggio dello scambio, la logica del guadagno. Sa misurare, valutare, contrattare. La sua formazione è legata al mondo degli affari e alla mentalità borghese che, nel XIII secolo, si afferma con forza nelle città.

Non si può non tenere conto di questo aspetto per capire fino in fondo la radicalità della scelta di Francesco. Quando sceglie la povertà, non compie solo un gesto spirituale, ma un atto di rottura con la cultura mercantile del misurare, del valutare, del contrattare, del guadagnare... Si spoglia nudo davanti al vescovo e alla città, restituisce tutto al padre, rinuncia a ogni proprietà: un gesto simbolico che segna il rifiuto della «logica economica» nella vita che sta intraprendendo. La sua fede è imitazione concreta di Cristo povero, non solo nella parola, ma nella forma di vita. Proprio perché conosce bene la misura delle cose Francesco sceglie di vivere senza misura, nel dono totale, sottraendosi a ogni calcolo e alla logica dello scambio, del potere e del denaro.

Se rileggiamo in questa luce il Cantico delle Creature appare chiara la distinzione, implicita ma radicale, tra l’abitare e il possedere. San Francesco non celebra la natura come qualcosa da sfruttare, da soggiogare, da ridurre a oggetto, bensì come realtà vivente con cui intrattenere relazioni di fraternità. Il Sole, la Luna, il Fuoco, l’Acqua, la Terra – tutte le creature sono chiamate fratello o sorella. Il linguaggio del Cantico non è metaforico, ma teologico: ogni creatura partecipa della stessa origine, è segno della presenza del Creatore e ha una sua dignità intrinseca.

In questa visione, abitare il mondo significa riconoscere la propria collocazione all’interno di una rete di relazioni. Significa vivere di ciò che il Creato offre con gratitudine, sfuggendo all’ansia dell’accumulo. L’abitare è legato al rispetto, all’ospitalità e alla cura; il possedere, invece, genera distacco, alienazione, competizione.

Il linguaggio di Francesco è pervaso da un senso di meraviglia. Ogni creatura è lodata per ciò che è, non per l’uso che se ne può fare. Il Sole, la Luna, l’Acqua, la Terra non sono elementi da sfruttare ma realtà che esistono in sé, con la loro bellezza e la loro voce. Questo stupore è il contrario dell’atteggiamento consumistico, che riduce tutto a risorsa da consumare, esaurire o merce da scambiare.

Nel Cantico, l’economia del dono sostituisce quella dell’appropriazione. Se tutto è dono, nulla è veramente posseduto. L’uomo non è il vertice della creazione ma il fratello del Sole e della Luna, perché ad esse accomunato dall’unico Padre Creatore cui solo «se konfane le laude et onne benedictione». Insomma, il Cantico propone un’etica dell’interdipendenza e della fraternità cosmica.

Ora, potrebbe sembrare un azzardo, come accennavo all’inizio, ma credo che il Cantico si offra come un sorprendente manifesto contro l’idolatria contemporanea. Dove l’economia del desiderio, con i suoi idoli, ha sostituito il senso del limite e il marketing ha colonizzato con i suoi «fantasmi » l’immaginario (fantasmi che spingono a desiderare oltre il desiderabile), il Cantico appare come una contro-narrazione potente: non siamo padroni del mondo, ma ospiti.

Una critica all’idolatria del nostro tempo

L’idolatria contemporanea non è fatta di vitelli d’oro o divinità pagane, ma di beni di consumo, ideologia del successo e della produttività. È un’idolatria sottile, pervasiva e perversa, che trasforma i mezzi in fini e confonde l’essere con il possesso. In questa prospettiva, la casa non è più luogo delle relazioni affettive ma status symbol; il lavoro non è più servizio ma strumento di affermazione; la natura non è più madre ma risorsa da spremere. Il Cantico delle creature smaschera queste idolatrie proponendo una logica opposta: l’essere invece dell’avere, la relazione invece del dominio, la nostra finitezza come benedizione. Il mondo non è un supermarket a nostra disposizione, ma un mistero da abitare. L’uso strumentale della Creazione è una forma di idolatria perché mette l’uomo al centro, come misura di tutte le cose, cancellando ogni riferimento al Creatore e alla gratuità del dono. San Francesco, invece, restituisce la centralità a Dio, lodandolo per tutte le creature, non al posto loro. È il rifiuto umile di un antropocentrismo arrogante, che invita a riconosce il valore della realtà che ci circonda oltre la sua utilità.

Nell’era del riscaldamento globale, della crisi ecologica che segna una frattura tra uomo e natura, il Cantico delle creature è più attuale che mai. Non è solo un testo spirituale, ma un manifesto etico e culturale che propone un altro modo di «abitare» il mondo. Rileggere oggi il Cantico – a scuola, nelle università, nei gruppi, nelle parrocchie ma anche in famiglia – significa riscoprire la bellezza del piccolo, la forza della semplicità. Significa imparare a ringraziare invece di pretendere, a contemplare invece di possedere. San Francesco, uomo del Medioevo ma profeta del futuro, ci invita in sostanza con il Cantico a un cambiamento radicale di sguardo. Non è un testo per devoti baciapile, ma una bussola esistenziale capace orientarci nelle secche dell’idolatria consumistica.

In un mondo che ci divora e si divora, il Cantico è un invito a lodare, ad abitare, a custodire. A riscoprire che tutto è dono. E ciò che è dono non si possiede, ma si accoglie.

 *Coordinatore della Commissione per i Centenari francescani in Lombardia

 www.avvenire.it

 Immagine: Giotto, San Francesco predica agli uccelli


 

mercoledì 15 gennaio 2025

ARRIVA LA GENERAZIONE BETA


 Immersa nell'AI, 

avrà sete di spirito

Secondo il Pew Research Center le coorti generazionali «possono fornire un modo per capire come le diverse esperienze formative (come gli eventi mondiali e i cambiamenti tecnologici, economici e sociali) interagiscono con il ciclo di vita per plasmare la visione del mondo delle persone».

Dal dopoguerra a oggi diverse generazioni si sono succedute: dai boomers (1946-1964) alla generazione X (1965-1979); dai Millennials (1980-1994), i primi “nativi digitali” alla generazione Z (1995-2009) segnata dall’esperienza del Covid-19 e dalla pervasività del digitale fino alla generazione Alfa (2010-2024 detta anche iPad generation o generazione degli screenagers. E con il nuovo anno si affaccia la generazione Beta (2025-2039). Benché non ci siano ancora, ovviamente, comportamenti osservabili, si può già dire che la gen B vivrà in un'epoca in cui l'IA (intelligenza artificiale) e l'automazione saranno pienamente integrate nella vita di tutti i giorni, dall'istruzione ai luoghi di lavoro, dalla sanità all'intrattenimento. Con mutazioni antropologiche che a stento riusciamo a immaginare. 

È vero che il focus sulle generazioni aiuta a comprendere meglio i cambiamenti d’epoca; è altrettanto vero che, in sintonia con l’accelerazione costante del cambiamento, il numero di anni che definisce una coorte generazionale si è notevolmente ridotto (dai 18 anni dei boomers ai 14 della gen Alfa), ma soprattutto gli elementi che caratterizzano l’esperienza comune delle ultime generazioni sono sempre più quasi esclusivamente tecnologici. A parte il Covid, che ha messo il mondo in pausa per oltre un anno, contano sempre meno i grandi avvenimenti che inaugurano fasi storiche nuove (la gen Z ha poca o nessuna memoria di quell’11 settembre che ha aperto l’era dello “scontro di civiltà”, per esempio) e sempre più le tappe dello sviluppo tecnologico. 

Il filosofo Bernard Stiegler scriveva che non è la dimensione cronologica che fa le generazioni, ma la trasmissione dei saperi: un saper fare, un saper vivere, un saper pensare. Oggi forse dovrebbe rivedere questa sua interpretazione, dal momento che la trasmissione di saperi non avviene più da una generazione all’altra, ma attraverso quelle estensioni di noi stessi, come chiamava McLuhan, che sono le tecnologie. Questi organi estroflessi che ci consentono di trattenere la memoria e di anticipare il futuro diventano pervasivamente sempre più presenti nella nostra quotidianità. 

Tornano alla memoria la distinzione in ere che McLuhan aveva proposto negli anni ’60 – l’era orale della parola parlata, l’era scritta della stampa, l’era elettrica della televisione – alle quali oggi aggiungiamo l’era digitale e social delle gen Z e Alfa e l’era dell’intelligenza artificiale della gen B. Un’intelligenza artificiale sempre meno strumentale, sempre più capace di assomigliare all’umano, superandolo in molte delle sue capacità e prestazioni. Nell’era dell’intelligenza artificiale generativa tocca all’umano dimostrare che esiste una differenza tra il generare attraverso il rapporto con l’alterità e il generare grazie ad algoritmi. La gen B rischia di essere la prima per la quale la distinzione tra umano e non umano, intelligenza umana e intelligenza artificiale, organismo e tecnologia non merita nemmeno di essere sollevata. 

Posto che i media non sono strumenti, bensì parte costitutiva dell’ambiente in cui noi viviamo e della nostra quotidianità, e posto che l’essere umano non può non adattarsi all’ambiente in cui vive, va ricordata una specificità dell’umano che è quella di adattarsi modificando, imprimendo una direzione, secondo l’accezione più autentica del termine “abitare” (che in molte lingue è sinonimo di “esistere”). 

G. H. Wells, visionario scrittore britannico (e autore, tra l’altro, di quella “Guerra dei mondi” che ispirò la celebre trasmissione radiofonica di Orson Welles) sosteneva che «Il futuro è una gara, una gara tra l'istruzione e la catastrofe». 

Per abitare questo ambiente in cui l’intelligenza artificiale generativa accompagna, permea e orienta la quasi totalità dei processi individuali e collettivi a livello planetario diventa ancora più fondamentale una educazione che non si limiti a potenziare le capacità di adattamento al nuovo ambiente e le competenze necessarie, ma che preservi il nucleo fecondo di specificità che caratterizza l’umano. Dove il pensiero non si riduce a calcolo, ma (secondo l’accezione originaria) comporta una dimensione spirituale. E lo spirito non è una dimensione a sé, incorporea e aleatoria, ma il soffio che permea la vita e la rende viva, che rende il pensiero libero e le relazioni capaci di sottrarsi alla logica dell’utile e del dominio. 

È significativo che Paul Valery, parlando della crisi dello spirito nell’Europa del dopoguerra, utilizzasse la parola esprit sia nel senso di spirito che nel senso di intelligenza. Quell’intelligenza capace di cogliere anche l’invisibile, quell’esprit de finesse di cui ha scritto Pascal, senza coltivare il quale la gen B sarà anche la prima che rischia di essere totalmente eterodiretta da quella mirabile opera dell’uomo che, senza essere considerata come tale, diventerà onnicomprensiva e totalizzante.

 Alzogliocchiversoilicelo

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martedì 6 giugno 2023

VIVERE LO SPAZIO, ABITARE LA VITA

 Siamo abituati a pensare l’esistenza in termini di tempo ma è solo attraverso il luogo che essa acquisisce consistenza e senso.

Privato o condiviso, la casa o il “posto” di lavoro: ogni luogo non è mai neutro né un fondale, ma il grande teatro della possibilità.

 È nello spazio che ci mettiamo in gioco, e nello spazio ci è dato di incontrare ciò che accomuna tutti: l’universalmente umano.

 

- di SERGIO GIVONE

 

Il tratto di tempo che a ciascuno di noi è dato di vivere nel panorama della storia universale è uno spazio minimo, un quasi niente, un’inezia. Però è uno spazio. Lo spazio in cui per l’appunto “ha luogo” la nostra vita. Abbiamo bisogno di usare questa parola − spazio, invece di tempo − perché altrimenti la nostra vita rischia di sfumare in una serie di istanti indifferenziati e di perdere il suo significato unitario e il suo valore simbolico, mentre essa li acquista non appena venga rapportata alle situazioni, alle circostanze, agli ambienti. Il tempo, come già affermava Aristotele, è scandito da un’infinità di momenti che si distinguono unicamente secondo il prima e il poi e che in fondo sono tutti uguali. Invece lo spazio, sosteneva Platone, è bensì vuoto, ma simile a una matrice fatta di cera e pronta ad accogliere tutte le forme dell’essere.

 Le prospettive filosofiche che mettono al centro il tempo (più o meno tutte quelle moderne) devono poi fare i conti con il problema del nulla e cioè col fatto che la temporalità elevata a paradigma supremo ha come esito il nichilismo. Carattere specifico del tempo è la dissoluzione di ogni cosa, la vanificazione di tutto ciò che è. Tempus edax rerum significa che il tempo si divora la realtà tutt’intera. Quando invece il primato va allo spazio, tutto cambia. È lo spazio che ci mette in rapporto con l’eterno. O quanto meno con la speranza che qualcosa di noi resti, per sempre. A questa speranza si riferisce la preghiera per i morti che invoca l’eterno riposo per tutti coloro che non sono più. Che cosa significa questo eterno riposo se non poter sostare eternamente nella verità del proprio essere? Sostare: termine che ha una connotazione spaziale prima che temporale. Infatti il punto essenziale è dove sostare. Sostare nella verità, sostare in Dio.

 Tra coloro che hanno messo al centro del loro pensiero lo spazio (anziché il tempo) ci sono i sufi, mistici islamici. I sufi fanno riferimento anzitutto allo spazio vuoto. Cioè allo spazio che, proprio perché vuoto, si lascia riempire dai gesti che danno senso all’esistenza di ogni uomo, dal più misero al più elevato degli uomini: i gesti della libertà. Muoversi nello spazio vuoto, non impediti da nulla, significa muoversi liberamente. Che è come dire: nel solo modo veramente degno. Espressione artistica ma anche religiosa di questa dignità è la danza. Non è necessario spingersi tanto lontano e sfidare le più vertiginose altezze del pensiero per capire quanto sia necessario fare i conti con lo spazio. Basta pensare all’importanza che rivestono i luoghi da noi abitati. La nostra casa, ad esempio. Che è nostra non solo e non tanto perché ce ne siamo appropriati, ma perché in essa ci appropriamo di noi stessi. Nella nostra casa, più che altrove, noi siamo veramente noi. Anzi, potremmo dire che lì noi ci riconosciamo per quelli che veramente siamo. Lo stesso dovrebbe valere anche per il “posto” per antonomasia, il posto di lavoro. Che è un buon posto di lavoro, se ci sentiamo a nostro agio e come a casa. È un cattivo posto di lavoro, se ci fa sentire estranei, assoggettati a dinamiche alienanti, e come strappati a noi stessi.

 Perfino le esperienze che ci portano lontano dai luoghi consueti − per turismo, per vacanza, per necessità − possono essere positive o negative a seconda di come gli spazi ci accolgono (o ci respingono). Ci sono luoghi con cui si entra immediatamente in sintonia, in cui si sta bene senza sapere perché, e dove si vorrebbe tornare. E luoghi che avvertiamo come ostili e inabitabili prima ancora di averli effettivamente abitati. Che cosa significa tutto ciò? Significa tante cose, naturalmente. Ma una in particolare. E cioè che lo spazio non è mai neutro. E non è, non può essere, solo un fondale di palcoscenico. Al contrario, è nello spazio che noi ci mettiamo in gioco. Nello spazio dell’abitare, nello spazio condiviso in cui ci è dato di incontrare ciò che accomuna tutti. L’universalmente umano.

 E allora come continuare a far finta di niente di fronte al più grave dei problemi del nostro tempo? Come distogliere lo sguardo di fronte al fatto che la terra, la nostra casa comune, sta diventando inabitabile? Lo sta diventando non per un’arcana necessità, ma per colpa nostra, per la nostra irresponsabilità. Dovevamo prenderci cura della terra come di un bene che ci è stato affidato. Che cosa ne abbiamo fatto, invece?

 www.avvenire.it