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mercoledì 16 aprile 2025

IL GIOVEDI' SANTO


FATE QUESTO
IN MEMORIA DI ME



Con il tramonto del giovedì santo ha inizio il triduo pasquale, quei giorni “santi”, distinti dagli altri, in cui noi cristiani meditiamo, celebriamo, riviviamo il mistero centrale della nostra fede: 

Gesù entra nella sua passione, conosce la morte e la sepoltura e il terzo giorno è risuscitato dal Padre

 nella forza di vita che è lo Spirito santo.


- di Enzo Bianchi

 

Ma questo evento della passione di Gesù era dovuto al caso o a un destino che incombeva su Gesù? Perché Gesù ha conosciuto una condanna, la tortura e la morte violenta? Sono domande cui si deve dare una risposta se si vuole cogliere e conoscere in profondità il senso della passione. Ma sono gli stessi Vangeli che vogliono fornirci questa risposta testimoniando gli eventi di quei giorni pasquali dell’anno 30 della nostra era. Infatti Gesù, proprio per manifestare ai discepoli che entrava nella passione assumendola come un atto, non costretto dal fato e neppure per la casualità di eventi a lui sfavorevoli, anticipa con un mimo, con un gesto simbolico quello che gli sta per succedere e ne svela così il significato. Nella libertà, dunque, Gesù accetta quella fine che va profilandosi: avrebbe potuto fuggire, avrebbe potuto evitare di affrontare quella prova e, certo, ha chiesto al Padre se non fosse possibile questo, ma se Gesù voleva dimorare nella giustizia, se voleva collocarsi dalla parte dei giusti che in un mondo ingiusto sono sempre osteggiati e perseguitati, se voleva restare nella solidarietà con le vittime, gli agnelli della storia, allora doveva accettare quella condanna e quella morte. Sì, liberamente l’ha accettata perché fosse fatta la volontà del Padre: non che il Padre volesse la sua morte, ma la volontà del Padre chiedeva che Gesù restasse nella giustizia, nella carità, nella solidarietà con le vittime.

Ma questa libertà di Gesù era nutrita e accompagnata anche dall’amore: amore per il Padre, certo, ma anche per la verità e la giustizia, amore per noi uomini. Sì, proprio perché fosse manifesto che Gesù deponeva la sua vita liberamente e per amore – non costretto dal destino né da circostanze fortuite – Gesù anticipa con il segno quello che sta per accadergli. A tavola con i suoi discepoli, Gesù compie sul pane e sul vino delle azioni accompagnate dalle sue parole: il suo corpo è spezzato e dato per gli uomini, il suo sangue è versato e dato per tutti. E il segno della sua morte imminente, il sacramento del rendimento di grazie è l’eucaristia che i cristiani dovranno celebrare in memoria di Gesù per essere essi pure coinvolti in quel gesto che è dare la vita per i fratelli, per gli altri: alla fine di quell’azione Gesù esclama “Fate questo in memoria di me!”. Fino al suo ritorno, per tutto il tempo in cui i cristiani vivono nel mondo tra la morte-risurrezione di Gesù e la sua venuta nella gloria, è nella celebrazione di quel gesto del loro Maestro e Signore che i cristiani saranno plasmati come discepoli, parteciperanno alla vita stessa di Cristo, conosceranno che lui, il Signore, è con loro fino alla fine della storia.


Il giovedì santo non può dunque non celebrare questo evento anticipatore della passione di Gesù, narrazione del suo esodo da questo mondo al Padre. Ma la chiesa, significativamente, nella liturgia del giovedì santo sera, oltre a ricordare e vivere questo gesto del suo Signore come in ogni eucaristia, vive e ripete anche un altro gesto di Gesù, quello della lavanda dei piedi. Anche il quarto Vangelo, infatti, ricorda “l’ultima cena di Gesù con i suoi”, quella cena in cui fu svelato il traditore e annunciato il rinnegamento di Pietro e la fuga di tutti gli altri discepoli, quella cena vissuta in occasione dell’ultima pasqua di Gesù a Gerusalemme prima della sua morte. Però, anziché narrare il segno del pane e del vino, Giovanni narra il segno della lavanda! Perché un’azione “altra”, un segno “altro”? Eppure anche il quarto evangelista conosce il racconto dell’eucaristia, la chiesa ormai da decenni celebra questo sacramento. Perché allora la memoria di quest’altro segno? 


Possiamo ritenere molto probabile che questa scelta del quarto Vangelo sia motivata da un’urgenza avvertita nella chiesa alla fine del I secolo: la celebrazione eucaristica non può essere un rito disgiunto da una prassi coerente di agape, di amore e servizio ai fratelli, poiché proprio questo è il suo significato: dare la vita per i fratelli! L’evangelista vuole così riattualizzare il messaggio dell’eucaristia ricordando che o essa è servizio reciproco, dono della vita per l’altro, amore fino all’estremo, oppure è solo un rito che appartiene alla “scena” di questo mondo. Potremmo dire che l’intenzione di Giovanni è che il sacramento dell’altare sia letto e vissuto sempre come sacramento del fratello: celebrazione eucaristica con il pane spezzato e il vino offerto e servizio concreto, quotidiano al fratello si richiamano reciprocamente come due facce della partecipazione al mistero pasquale di Cristo. Ecco allora il gesto di Gesù narrato lentamente, quasi al rallentatore, affinché resti ben impresso nella mente del discepolo di ogni tempo: Gesù depone la veste, prende un asciugamano, se lo cinge ai fianchi, verso l’acqua nel catino, lava i piedi, li asciuga, riprende la veste… Sono verbi di azione che rendono plasticamente l’evento della lavanda. E’ un gesto che Gesù compie in piena consapevolezza: Gesù, il Kyrios, il Signore, lava i piedi ai discepoli. Gesto anomalo, gesto paradossale che capovolge i ruoli, gesto scandaloso, come testimonia la reazione di Pietro! Eppure, proprio così Gesù racconta, “evangelizza” Dio, nel senso che rende Dio “buona notizia” per noi.


Due azioni diverse, due mimi sacramentali, due segni che narrano la stessa realtà: Gesù offre la sua vita e, liberamente e per amore, va verso la propria morte facendosi schiavo. Per questo, come al gesto eucaristico, così anche al gesto della lavanda fa seguito il comando: “Come io ho lavato i piedi a voi, così fate anche voi”. E la chiesa, se vuole essere chiesa del Signore, così deve fare in obbedienza al suo mandato: spezzare il pane, offrire il vino, lavare i piedi nell’assemblea dei credenti e nella storia degli uomini.


domenica 19 gennaio 2025

RIFORMA SCUOLA. QUESTIONE DI DIDATTICA

 


Scuola. 

Più dei programmi

 pesa la didattica: 

il tema è 

fare appassionare 

i ragazzi


-        - di Eraldo Affinati

La cosa peggiore che potremmo fare nel riflettere sulle nuove indicazioni nazionali appena presentate dal ministro Giuseppe Valditara per il primo ciclo di istruzione, ovvero dalla scuola dell’infanzia alle superiori di I grado, sarebbe quella di strumentalizzare l’auspicato dibattito alimentando in modo precostituito le pur inevitabili contrapposizioni. Se c’è un luogo dove dovremmo trovare punti d’intesa cercando una sintesi complessiva, a partire dai fondamenti del sapere, è proprio questo. Senza dimenticare, è ovvio, la natura convenzionale dei programmi scolastici che non rappresentano una verità assoluta, bensì soltanto ipotesi di lavoro conoscitive.

Stiamo parlando, non dimentichiamolo, della formazione culturale delle future generazioni, umanistica dal momento che su quella scientifica si è già legiferato, tenendo presente che si tratta di criteri generali di massima, i quali dovranno poi calarsi nelle realtà particolari degli istituti: il che può fare tutta la differenza del mondo. Spesso e volentieri le singole scuole, grazie al regime dell’autonomia, praticano sperimentazioni che sono in linea con tali indicazioni: pensiamo, ad esempio, allo studio del latino come materia opzionale; oppure al maggiore spazio da riservare alla musica e alle arti: in tale direzione nell’istruzione italiana esistono eccellenze che potrebbero essere prese a modello.

Ma, al di là di questo, ciò che davvero conta, prima ancora delle enunciazioni programmatiche, è la concreta ricaduta nell’attività didattica quotidiana. Ad esempio, chi potrebbe non essere d’accordo sull’intensificazione della letteratura e della grammatica? Epica e saghe nordiche: certo, questi sono da sempre campi privilegiati per ogni maestro consapevole, ben sapendo quanto i più piccoli possono essere trascinati così nell’apprendimento creativo.

Filastrocche e poesie da imparare a memoria? Perché no? Ma bisogna saper appassionare bambini e ragazzi. Come si fa? Qui dovrebbe cominciare la nostra discussione. Formare i docenti resta decisivo. Scrivere i titoli dei programmi da svolgere rappresenta soltanto il primo passo, peraltro con il rischio di risultare fuorvianti. Pensiamo alla ventilata abolizione della cosiddetta geostoria nelle superiori. Se con questo si vuole intendere il ripristino dello studio della geografia siamo assolutamente favorevoli: lo riteniamo anzi fondamentale.

Tuttavia privilegiare la storia d’Italia, dell’Europa e dell’Occidente, può nascondere qualche insidia. Ho ancora negli occhi lo sguardo stupefatto di una bambina di scuola media che cercava di tracciare sul mappamondo il viaggio compiuto da un suo compagno di classe appena arrivato dall’Africa: un’esperienza entusiasmante a cui ogni insegnante vorrebbe assistere, in quanto avrebbe la possibilità di spiegare ai propri alunni il tema affascinante dell’origine.

Qual è la stazione da cui partiamo? Tu pensi che la tradizione da cui discendi appartenga solo a te, poi ti accorgi che noi esseri umani siamo sempre cresciuti intrecciati gli uni agli altri, collegati da nessi imperscrutabili, ma persistenti: tocchi una nervatura, fai vibrare l’intera pianta. I bambini lo intuiscono in modo istintivo: sta a noi farglielo comprendere davvero. Raccontare la storia come se fosse una grande favola? Attenzione a non banalizzare: bisogna insegnare a utilizzare le fonti. Se, sin dalla più tenera età, cominciassimo a fare semplice divulgazione, come se la scuola fosse un programma televisivo, non renderemmo un buon servizio ai nostri figli. Soprattutto oggi che, di fronte alla rivoluzione digitale, siamo chiamati a ripristinare le gerarchie di valore nel grande mare della Rete.

Un discorso a parte va riservato al giusto richiamo nei confronti dei testi sacri. In Israele la Bibbia è una materia vera e propria che ogni alunno impara a conoscere sin da piccolo. Nelle nostre scuole invece viene spesso ridotta a schema frettoloso, appunto estemporaneo, scheda riassuntiva. Quando va bene, l'insegnante, dopo averne letto alcune pagine dall'antologia di epica, passa subito all'Iliade e all'Odissea. 

Esistono profonde ragioni storiche che spiegano questa falla clamorosa, sulle quali sarebbe lungo discettare, ma il paradosso culturale persiste e, nella sua gravità, continua a interrogare tutti noi: stiamo parlando della radice dell’Occidente. 

Pensiamo soltanto ai generi letterari presenti nella Bibbia: scrittura sapienziale, vicenda storica, racconto genealogico, annuncio profetico, tavola legislativa, inno poetico. 

I sentimenti umani, così come noi li concepiamo, derivano da quei testi; il nostro modo di stare assieme, anche; perfino i sogni che facciamo e faremo sono custoditi lì.

www.avvenire.it

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venerdì 9 agosto 2024

NUOVI LINGUAGGI PER INSEGNARE

Guidare le Scelte con Integrità e Passione -

 Insegnare è una sfida quotidiana, e non soltanto perché bisogna costantemente aggiornarsi sulla propria materia, sulle tendenze dei più giovani, sulle nuove teorie pedagogiche, ma anche perché bisogna inventarsi sempre nuovi modi di coinvolgere la classe. Abbiamo chiesto al professor Carlo Rovelli qualche consiglio per trovare nuovi linguaggi e registri per non annoiare (e annoiarsi!).

 

La capacità di cambiare registro 

 Fisico teorico e docente universitario, impegnato nella astrusa ricerca di una soluzione capace di combinare la Teoria della relatività e la Meccanica quantistica, Carlo Rovelli è diventato all’improvviso famoso in tutto il mondo come divulgatore scientifico grazie a un libretto scarno e prezioso, Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi), tradotto in tutto il mondo. 

 La cosa che più colpisce del suo lavoro di divulgatore e di scienziato è la capacità di usare linguaggi e registri diversi: ha scritto libri brevi e semplici, di grande successo, ma anche testi complessi e meno conosciuti. E poi ai suoi studenti all’università e nei suoi lavori scientifici, parla in modo ancora diverso. Ma a scuola come si deve fare? Si deve scegliere uno stile o provarne tanti? 

Perché è utile usare linguaggi e registri diversi 

 “Nella mia esperienza di insegnante ho capito che è più efficace usare linguaggi diversi”, racconta Rovelli. “I corsi che tengo all’università sono composti da più momenti: lezioni dure, racconti leggeri, discussioni aperte. Passo dalla presentazione di un argomento difficile e rigoroso a considerazioni generali, dalle chiacchiere ai teoremi. I motivi sono tre. Il primo è che gli studenti sono diversissimi fra di loro: il modo di imparare di ciascuno è soggettivo”. 

 “Qualcuno trova facile ciò che per un altro è un passaggio insormontabile e viceversa”, continua il fisico. “Ognuno di noi impara diversamente e per insegnare bisogna arrivare a tutti. Il secondo motivo per mescolare registri è che la scuola è noiosa. Ricordo ancora con angoscia la noia che provavo sui banchi di scuola. Quindi almeno variamola! Il terzo motivo è che imparare mette sempre in gioco parti diverse di sé: la memoria, l’attenzione, la capacità di assorbire concetti e le emozioni che motivano tutto questo. E quindi è necessario ricorrere a più registri”. 

 Trasmettere passione significa seminarla 

 Carlo Rovelli è certamente appassionato di quello che fa. Ma la passione per la scienza, come quella per la letteratura o per l’arte, è qualcosa che si ha o che si trasmette? E poi: l’educatore deve scoprire la passione del suo studente o deve suscitarla? Ecco la risposta del professore. 

 “Penso sia la stessa cosa. Un’intervista precedente fatta a Umberto Galimberti dalla vostra rivista si intitola Per insegnare bisogna saper affascinare. Credo che questo titolo in fondo dica tutto quello che ci sia da dire sull’insegnamento; il resto sono dettagli. Affascinare vuol dire suscitare passione. Ma suscitare passione vuol dire entrare in sintonia con le passioni profonde dei giovani, che ci sono già, e notoriamente gli adulti non le vedono". 

 "Con ogni probabilità" continua il professore, "Leopardi, che coltivava mondi sterminati nella sua anima, era visto come un giovane svogliato e ‘sdraiato’ da suo padre e il giovane Einstein era notoriamente un perdigiorno. L’intero progetto del sapere, della conoscenza, che si trasmette nella scuola, è raccontato così bene nel ‘Simposio’ di Platone: un progetto di meraviglia, di fascinazione, di amore e plagio fra maestro e studente. Quando la scuola da oceano di noia si apre in questi momenti di entusiasmo, e per fortuna succede spesso, allora la scuola funziona, io credo. E, mi permetta di aggiungere, ho visto scuole francesi, americane e inglesi: l’Italia ha forse la migliore scuola del mondo”. 

 Chi insegna può prendere posizioni? 

 Carlo Rovelli non è solo fisico e docente, ma ha scelto anche una attività di impegno civile, scrivendo per il Corriere della Sera e intervenendo su temi che esulano dalla sua competenza scientifica. Per questo, qualcuno l’ha anche criticato. I docenti corrono lo stesso rischio a scuola. Come dovrebbero comportarsi quindi? 

 “È un equilibrio delicato” spiega Rovelli, “ma che va cercato con determinazione e intelligenza. Come nella vita, ogni insegnante deve sapere mantenere il rispetto profondo per chi la pensa diversamente da lui. Il rispetto delle idee diverse è un grande insegnamento che può dare la scuola. Ma questo non significa che un insegnante debba presentare tutte le idee come eguali. Al contrario, i docenti migliori sono quelli che difendono e argomentano con passione le proprie idee, anche politiche, senza nasconderle. Non esiste l’obiettività nel mondo del sapere e delle idee. E la scuola è il mondo delle idee. Gli insegnanti che ciascuno di noi ricorda sono quelli appassionati. La scuola non deve riempire la testa degli studenti: deve dare strumenti e scatenarla”. 

 Gestire la relazione con gli studenti 

 E sull’effetto che fa entrare nelle scuole per qualche incontro, Rovelli dice: “Ogni volta rimango ammirato dal lavoro dei docenti. È molto più difficile insegnare nelle scuole che all’università, dove comunque la distanza è maggiore e i contatti minori. È bellissimo insegnare, ma quanto è difficile!”. 

 Ma con chi è più facile avere a che fare? Con i bambini delle elementari o i ragazzi delle superiori? 

 “Non saprei dire”, risponde il fisico. “Credo che ogni età sia diversa. A volte basta pochissimo per rendere facile una cosa difficile o viceversa. Ricordo una supplenza in una scuola media quando ancora ero studente universitario. 

 Appena arrivato, sbarbatello e inesperto, la classe mi ha mangiato. Facevano i fatti loro e non mi degnavano di interesse. Era una supplenza di matematica e mi hanno subito detto che detestavano la matematica. In programma avevano degli esercizi con equazioni lineari e dovevano fare dei grafici, che evidentemente trovavano insensati e noiosissimi. 

 Per un po’ ho insistito per farglieli fare. Poi ho lasciato perdere e ho raccontato loro di Cartesio, della sua idea di trasformare le formule in disegni e disegni in formule. Ho spiegato come questa piccola idea sia alla base di tutta la scienza moderna, perché le formule non sono astratte ma sono sempre espressione di una forma, di un disegno. Dopo un po’ erano tutti rapiti e ascoltavano in silenzio. E alla fine scherzavano fra di loro chiedendosi quale fosse la formula che disegna la bicicletta. E disegnare rette, tutto d’un tratto, era diventato bello”. 

 Usare nuovi linguaggi e registri, aggiornarsi continuamente e modificare il proprio stile in base al contesto e al pubblico è fondamentale, secondo Carlo Rovelli! 

 Con la collaborazione di Paolo Magliocco

 

Fonte: Focus Scuola

 

 

 

 

venerdì 1 settembre 2023

MAI TI ACCADRA'

PENSI SECONDO GLI UOMINI


-  VANGELO - Mt 16,21-27

21In quel tempo Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno. 22Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo dicendo: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai». 23Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: «Va' dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!». 24Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. 25Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà. 26Infatti quale vantaggio avrà un uomo se guadagnerà il mondo intero, ma perderà la propria vita? O che cosa un uomo potrà dare in cambio della propria vita? 27Perché il Figlio dell'uomo sta per venire nella gloria del Padre suo, con i suoi angeli, e allora renderà a ciascuno secondo le sue azioni».

 

Commento di Enzo Bianchi

Nel brano evangelico di domenica scorsa, che precede immediatamente quello odierno, Pietro rispondeva a Gesù, che interrogava i suoi discepoli sulla sua identità, con una confessione di fede: “Tu sei il Cristo, il Messia, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Proprio per questa rivelazione ricevuta dal Padre che è nei cieli, Simone, il pescatore di Galilea, viene istituito da Gesù come Roccia (pétra), la prima pietra della costruzione della sua chiesa (cf. Mt 16,18).

 Ma ecco l’ordine perentorio di Gesù di non svelare a nessuno la sua identità di Messia e, insieme, l’inizio di una nuova rivelazione. Sta scritto infatti che “da allora Gesù cominciò (érxato) a mostrare (deiknýein) ai suoi discepoli…”. Non solo a dire, a insegnare, come annotano gli altri sinottici, ma a mostrare, dunque con le parole e il comportamento, che “era necessario (deî) per lui andare a Gerusalemme e patire molte cose (pollá) da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno”. Matteo racconta che Gesù, dopo l’uccisione di Giovanni il Battista (cf. Mt 14,1-12) e le contestazioni e il rifiuto da parte di scribi e farisei (cf. Mt 15,1-20; 16,1-12), si era allontanato dalla Galilea verso le terre del nord, oltre le frontiere della terra santa, ma ora ritorna e decide di iniziare la salita verso Gerusalemme, la città santa, ma che egli conosce anche come “città che uccide i profeti” (Mt 23,37).

 Gesù sente che “è necessario”, che “deve” intraprendere questo viaggio, non perché un fato lo decida per lui, ma perché la sua missione lo richiede, anche al prezzo della morte violenta. Questa necessitas è innanzitutto umana, inscritta nella storia umana, nelle vicende del mondo: in un mondo ingiusto, il giusto può solo ricevere rifiuto, persecuzione e persino la morte. Se Gesù vuole compiere la sua missione in parole e opere secondo la volontà del Padre suo, se resta coerente con ciò che ha predicato, deve compiere la sua missione anche andando nella città santa, anche affrontando l’odio e il rifiuto dei sacerdoti, degli scribi, degli uomini religiosi muniti di autorità e potere nel popolo del Signore. Questa necessitas umana diventa così anche necessitas divina. Ma attenzione: non perché Dio, il Padre di Gesù che è nei cieli, desideri la morte del Figlio, ma perché vuole che Gesù lo narri fedelmente come Dio di amore, Dio disarmato e mite, Dio che accetta di essere colpito piuttosto che colpire. Vigiliamo a non proiettare su Dio l’immagine perversa di un Padre che vorrebbe la morte e la sofferenza del Figlio (pollà patheîn). No, avviene così perché è una logica insita nel mondo, come aveva letto e profetizzato l’autore del libro della Sapienza, smascherando i ragionamenti degli empi e la loro persecuzione del giusto e povero credente nel Signore, il quale confessa Dio come Padre (cf. Sap 1,16-2,20).

 Lo ripeto: in un mondo ingiusto, il giusto può solo conoscere la sofferenza, e Gesù, da quell’ora immediatamente successiva alla confessione di Pietro, lo mostra. Si noti che Gesù fa per tre volte questo annuncio durante la salita a Gerusalemme (cf. Mt 16,21; 17,22-23; 20,17-19), dunque con un’insistenza e un’intenzione precise: i discepoli che lo seguono devono comprendere che nella sua vocazione, nella sua identità di Messia è contenuta tutta la vocazione del Servo del Signore, che conosce sofferenza e morte (cf. Is 52,13-53,12). L’essenziale dell’annuncio-profezia è la necessitas della passione quale sofferenza patita, quale rifiuto da parte dell’autorità religiosa legittima, quale morte violenta, esito umanamente fallimentare di una vita e di una missione. Proprio dopo questa fine, però, vi sarà la resurrezione dai morti il terzo giorno, come azione del Padre su di lui, il Figlio: resurrezione non come vendetta sulla morte, ma come frutto della passione e della morte. E non vi sono solo parole da parte di Gesù, ma anche il suo comportamento insegna ai suoi discepoli tale necessitas: vita e parole concorrono nel suo “annunciare la parola apertamente (parrhesía)” (cf. Mc 8,32).

 Di fronte a questo annuncio, la Roccia della chiesa, Pietro, appena istituito tale e proclamato da Gesù “beato” (cf. Mt 16,17-19), reagisce. Prende con sé Gesù, quasi in disparte dagli altri discepoli, e comincia a rimproverarlo dicendogli: “(Dio) ti preservi, Signore! Ciò non ti accadrà mai!”. Pietro invoca Gesù quale Kýrios, Signore, lo riconosce nella sua identità, ma proprio per questo lo rimprovera ritenendo le sue parole insensate, perché la passione e la morte non possono accadere al Messia. Non scandalizziamoci delle parole di Pietro: anche Gesù provava rifiuto e ripugnanza per ciò che lo attendeva e nel Getsemani lo mostrerà ai discepoli con un’angoscia vissuta visibilmente e con una preghiera al Padre affinché allontanasse da lui il calice di quella misera fine (cf. Mt 26,36-46)! La sofferenza e la morte, nostra e di chi amiamo, ma anche degli altri, ci fanno male e ci ripugnano. Pietro sta dicendo questo.

 Ma per Gesù quelle parole suonano come una tentazione rinnovata da parte di Satana. Colui che l’aveva tentato nel deserto, offrendogli una via messianica senza croce e senza morte, ma fatta solo di successo e di potere (cf. Mt 4,1-11), si manifesta ora nelle parole del discepolo da lui istituito come Roccia. Per questo Gesù gli grida: “Opíso mou, sta alla mia sequela, dietro a me, non prendermi in disparte, non essere un ostacolo sulla mia strada, perché i tuoi pensieri sono umani, non sono pensieri di Dio”. Ecco perché la Roccia può essere chiamato Satana! Nessuna smentita della precedente investitura e della beatitudine rivolta a Pietro, ma un chiaro avvertimento: anche alla Roccia è possibile finire per ragionare mondanamente ed essere un ostacolo sulla via del Signore.

 E affinché questo “mostrare” la necessitas passionis sia una parola definitiva, a questo punto Gesù, secondo Marco, chiama addirittura a sé la folla (cf. Mc 8,34), e secondo Matteo dice ai discepoli: “Se qualcuno vuole venire dietro a me (opíso mou), smetta di conoscere solo se stesso, prenda la sua croce e mi segua”. Ecco come il discepolato si precisa per tutti: non è solo seguire un maestro sapiente e autorevole, non è solo seguire un profeta capace di compiere miracoli, ma significa essere coinvolti con la vita di Gesù, significa rinunciare a conoscere e affermare se stessi, significa prendere la propria croce, lo strumento della morte dell’uomo mondano, dell’“uomo vecchio” (Rm 6,6; Ef 4,22; Col 3,9), e seguire Gesù ovunque egli vada (cf. Ap 14,4). Discepolato a caro prezzo! Discepolato che non rende esenti dallo scandalo, dalla prova, dalla sofferenza. Discepolato che pone dalla parte di Gesù, il Servo sofferente, e dalla parte di tutti quelli che soffrono in questo mondo. Sì, beati i poveri, i miti, quelli che piangono, quelli che sono perseguitati (cf. Mt 5,1-12)… La perdita di sé, del sé mondano, è necessaria perché possa emergere il proprio autentico sé, quello che si trova in Cristo Gesù. I cristiani, e soprattutto i pastori della chiesa, che proclamano la vera identità di Gesù quale Figlio del Dio vivente, non dimentichino, non occultino mai il crocifisso. Infatti, la gloria di ogni cristiano sta tutta in quel prendere la propria croce e seguire il suo Signore nella passione, morte e resurrezione.

 Ecco allora, di seguito, alcune sentenze di Gesù imperniate sulla parola “vita”. La vita è innanzitutto non quella che uno cerca di conservare a ogni costo, seguendo l’impulso a vivere anche senza e contro gli altri, in una logica di autoconservazione, logica che non riconosce la dinamica del dono di sé a Dio e agli altri. Al contrario, si può addirittura spendere la vita fino a perderla nel darla, e in questo caso la si ritrova nella potenza della resurrezione che Dio opera come parola ultima e intima sulle nostre vite.

 La vita vera, inoltre, non significa guadagnare il mondo, non si identifica con l’avere, con il possedere, perché nessuno può pagare a Dio la propria redenzione e salvare la propria vita (cf. Sal 49,8-9). Questa verità sarà manifesta quando verrà il Figlio dell’uomo nella gloria del Padre, con tutti i suoi angeli, in quello che sarà “il giorno del Signore”, annunciato dai profeti e confermato da Gesù come giorno del Figlio dell’uomo (cf. Mt 24,44; 25,31). Allora, mediante un giudizio ultimo e definitivo, apparirà la verità della vita di ciascuno di noi e ognuno riceverà da Dio un giudizio conforme a ciò che avrà vissuto e operato sulla terra. All’orizzonte ultimo della storia sta dunque per tutti noi la venuta nella gloria di Cristo, Figlio dell’uomo e Figlio del Dio vivente, colui che è stato crocifisso ed è stato risuscitato il terzo giorno.

E se noi abbiamo tentato di seguire Gesù, ma come Pietro, la Roccia, di fronte alla persecuzione abbiamo riconosciuto solo noi stessi, fino a dire di Gesù: “Non lo conosco” (cf. Mt 26,69-75), nel pentimento conosceremo lo sguardo misericordioso di Gesù. Come è accaduto a Pietro (cf. Lc 22,61-62)!

 

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lunedì 17 aprile 2023

SCUOLA. CONTO ALLA ROVESCIA


 È inutile studiare, se non sboccia il gusto 

per “questa” ora di lezione

La scuola prepara per un viaggio inutile, che nessuno vuole fare. È il prezzo che si paga per averla ridotta a meccanismo.

- di  Valerio Capasa

 

Anche sul muro della mia quinta campeggia un cartellone con i numeri decrescenti da 100 a 1. Ogni giorno una ragazza sale sulla sedia e ci mette una croce sopra: 62 61 60 59… A me, più che The final countdown, viene in mente Piove di Domenico Modugno: “Ciao ciao mia alunna / un autore ancora / e poi per sempre ti perderò”. E annego nel groppo in gola di questo “per sempre”: “E fieramente mi si stringe il core, / a pensar come tutto al mondo passa, / e quasi orma non lascia”.

Piace sbarrare caselle anche agli insegnanti: autori, argomenti, capitoli, uno dopo l’altro. Giorni, spiegazioni, verifiche: tutti si tolgono davanti qualcosa. Non è già abbastanza che pagine, alunni e parole si cancellino da soli? Perché mettersi a soffiare a favore di vento, agevolando la già naturale smemorataggine? Io prego con i versi di Montale: “Non recidere, forbice, quel volto, / solo nella memoria che si sfolla, / non far del grande suo viso in ascolto / la mia nebbia di sempre”.

L’album delle figurine, una volta completato, non ha più granché di interessante. In principio era un album vuoto, che a poco a poco si riempie incollando le figurine degli autori svolti: Svevo, Pascoli, Ungaretti… E alla fine eccoli lì, tutti al loro posto, nella pagina trionfante e ingannevole, dove manca tanto di quello che speravi, a cominciare dal fatto che un album di figurine non somiglia a una partita di calcio, come un autore inserito in programma non somiglia alla lettura di un libro. Lo canta splendidamente Francesco De Gregori, e potrebbe sottoscriverlo qualunque scrittore: “Guarda che non sono io la mia fotografia / che non vale niente e che ti porti via”.

Sparita la bella esitazione dell’album incompleto, della pagina bianca, dell’ansia di scoprire e di giocarsela, rimane tutto fatto, e tutto morto. La realtà invece è realtà “quando porta con sé un segreto”. Ungaretti lo diceva della poesia, ma vale identicamente per una materia, una classe, un alunno. Invece qui son tutti in fibrillazione per completare l’album.

È l’eterna vicenda di Marta e Maria: l’una indaffarata, a preparare comprensibilmente il pranzo; l’altra che “si è scelta la parte migliore”. Mentre in aeroporto non riesco a staccare i miei occhi dagli occhi di questi ragazzi che stanno per volare via, mi pare che gli altri si agitino per riempire la valigia, dove si può schiacciare un altro argomento e poi infilarne un altro ancora, fino a scoppiare. Non badano al fatto che dopo pochi viaggi la valigia, trattata così, non potrà che rompersi, che lo spazio del cervello è quello che è, che solo alcuni possono permettersi un supplemento, e che ben altra storia sarebbe viaggiare per trasferirsi: allora sì che sarà giusto, per chi si iscrive a una determinata facoltà, portarsi dietro tutto quello che gli serve. Ma continuando a ingozzarci così, chi è che vorrà mai trasferirsi nel paese di Obesità?

Ovviamente, come nel film Mamma ho perso l’aereo, in tutta questa furia capita che ci si dimentichi della cosa più importante: “Kevin!”. Preoccupàti delle cose, finiamo per scordarci le persone.

Saint-Exupéry raccomandava tutt’altro approccio: “Se vuoi costruire una nave, non radunare uomini per tagliare legna e dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia del mare vasto e infinito”.  Perché di un orizzonte infinito c’è bisogno, su questi binari in cui tutto è già scritto. I riti di iniziazione li ha scanditi Brunori Sas nelle Quattro volte:

Primo step: “Devo solo arrivare alla quinta elementare”.

Secondo step: “Devo solo arrivare agli esami di maturità”.

Terzo step: “Devo solo arrivare alla fine del mese”.

Quarto step: “Devo solo arrivare a due passi dall’altare”.

Risultato finale: “e dopo quarant’anni forse andarmene in pensione / con l’orologio d’oro al polso e il gelo dentro al cuore”.

È lì che vogliamo arrivare? A sfornare professionisti anziché a educare uomini? A immetterli nel sistema senza che sappiano giudicarlo e magari ripensarlo? Fra Pcto, progetti, certificazioni, arretrati, overdose di capitoli e test d’ingresso, il meccanismo è talmente ben congegnato che è quasi impossibile trovare uno spiraglio di libertà: “Cerca una maglia rotta nella rete / che ci stringe, tu balza fuori, fuggi! / Va’, per te l’ho pregato”, sussurro ancora con Montale.

Sono anni che, alla domanda “tu quanti autori fai?”, rispondo con la contro-domanda “tu quanti lettori susciti?”. Si tratta di spostare lo sguardo dagli oggetti ai soggetti. Non entro in classe per spiegare questo argomento o fare queste verifiche, ma perché questo ragazzo alzi lo sguardo, cominci a esserci, per toccare questo “scordato strumento, / cuore”.

Lo scrive ancora Montale in Prima del viaggio: si sa cosa va fatto quando ci si prepara a partire, “si controllano / valige e passaporti, si completa / il corredo”, si sistemano i nodi concettuali, ci si informa sulle sedi universitarie. “E poi si parte e tutto è O.K. e tutto / è per il meglio e inutile”. In fondo in fondo, non la sentiamo tutti l’inutilità di queste croci sopra, di questa vita sistemata, di questo gelo che cresce nel cuore, di questo mondo impersonale e agghiacciante?

Non lo cercate anche voi “un malchiuso portone” da cui possa intrufolarsi quella lezione, quel messaggio, quell’appuntamento, quell’amicizia in cui “il gelo del cuore si sfa”?

“Un imprevisto / è la sola speranza”. Può essere un ragazzo che non ha voglia di finire ma di cominciare, non di arrivare ma di vivere il presente. “E ora che ne sarà / del mio viaggio? / Troppo accuratamente l’ho studiato / senza saperne nulla”. È inutile studiare, se non sboccia il gusto per il proprio viaggio, per questa ora di lezione. Stamattina c’è ancora da cantare Brunori: “Si può nascere un’altra volta”.

 

Il Sussidiario

venerdì 19 agosto 2022

PASSIONE, CONDIVISIONE E VICINANZA

Il Papa al Meeting: condivisione e vicinanza, questo il compito dei cristiani

Messaggio di Francesco a firma del Segretario di Stato cardinale Pietro Parolin per l’apertura della 43.ma edizione della kermesse di Comunione e Liberazione, il 20 agosto, dal titolo “Una passione per l’uomo." Il testo racchiude un appello alla comunità cristiana ad alimentare l’amicizia sociale non "dando lezioni dal balcone", ma "scendendo in strada sostenuti da una speranza affidabile”

 -di Gabriella Ceraso – Città del Vaticano

 Nel centenario della nascita del fondatore di Comunione e liberazione, il Servo di Dio Luigi Giussani, rivive nell’edizione del Meeting 2022 il suo “zelo apostolico”, tutto racchiuso nelle parole da lui pronunciate nel 1985 che danno il tema di questi cinque giorni di incontri, dibattiti, spettacoli e arte sui temi della fede, sulla politica e l'attualità internazionale: “Il cristianesimo non è nato per fondare una religione, è nato come passione per l’uomo. […] L’amore all’uomo, la venerazione per l’uomo, la tenerezza per l’uomo, la stima assoluta per l’uomo”.

 Parola chiave "passione"

Eccola la parola chiave, il tema, ”la Passione per l’uomo”, che anche il Papa pone al centro della riflessione firmata dal cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin e indirizzata al vescovo di Rimini monsignor Francesco Lambiasi, e che si trasforma in un appello ai cristiani di oggi: nel clima del "tutti contro tutti" riscoprire la via dell' "l'attenzione d'amore" agli altri, della vicinanza, della ricerca del bene, quale condizione per essere pienamente noi stessi e portare frutti". "L'incontro con l'altro è essenziale".

A volte - si legge nel testo - sembra che la storia abbia voltato le spalle a questo sguardo di Cristo sull’uomo e Papa Francesco lo ha sottolineato più volte. “La fragilità dei tempi in cui viviamo” è anche “credere che non esista possibilità di riscatto, una mano che ti rialza, un abbraccio che ti salva, ti perdona, ti risolleva” ed è “anche l’aspetto più penoso dell’esperienza di tanti che hanno vissuto la solitudine durante la pandemia o che hanno dovuto abbandonare tutto per sfuggire alla violenza della guerra”.

Come il buon samaritano, come Cristo: amare ciascuno

Ecco allora che la parabola del buon samaritano è oggi più che mai una parola-chiave, in profonda assonanza con il tema del Meeting, perché da una parte mostra il bisogno che c'è in ogni uomo della "misericordia di Dio e della sua delicatezza", dall'altra incarna la “passione incondizionata per ogni fratello e sorella che si incontra lungo il cammino”, che non è  “solo generosità” ma – nella descrizione di Papa Francesco – è “riconoscere Cristo stesso in ogni fratello abbandonato o escluso”. Chi crede è chiamato ad avere lo stesso sguardo, la stessa passione di Cristo, che ha amato ciascuno senza nessuna esclusione: un “amore gratuito, senza misura e senza calcoli.” Ma – ci chiediamo – “tutto ciò non potrebbe apparire una pia intenzione, rispetto a quanto vediamo accadere oggi?”.

La strada della fraternità non è disegnata sulle nuvole

Come è possibile guardare a chi ci sta accanto come un bene da rispettare, in un mondo che oggi mette “tutti contro tutti” e dove a prevalere sono “gli egoismi e gli interessi di parte”, con la pandemia e la guerra che ci hanno portato indietro rispetto al progetto di una umanità solidale? Tenendo presente che – si legge nel messaggio – “la strada della fraternità non è disegnata sulle nuvole, ma attraversa i tanti deserti spirituali presenti nelle nostre società” e che proprio nel deserto – come diceva Benedetto XVI – “si riscopre il valore di ciò che è essenziale per vivere, Francesco indica la via: “Il nostro impegno  - si legge nel Messaggio  - non consiste esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza” “ non un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione rivolta all’altro considerandolo come un’unica cosa con sé stessi. Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per la sua persona" e del desiderio di cercare il suo bene.  "Recuperare questa consapevolezza è decisivo". È l’altro dunque, l’incontro con l’altro, - ancora una volta nelle parole di Papa Francesco - “la condizione per diventare pienamente noi stessi e portare frutto”

L'amicizia sociale, frutto del donarsi agli altri

Donarsi agli altri costruisce quell’"amicizia sociale" che il Papa raccomanda nel suo messaggio: è fraternità aperta a tutti, è “abbraccio che abbatte i muri e va incontro all’altro nella consapevolezza di quanto vale ogni singola concreta persona, in qualunque situazione si trovi. Un amore all’altro per quello che è: creatura di Dio, fatta a sua immagine e somiglianza, dunque dotata di una dignità intangibile, di cui nessuno può disporre o, peggio, abusare”.

È questa amicizia sociale che, come credenti, siamo invitati ad alimentare con la nostra testimonianza: ed è questa amicizia sociale che il Papa invita i partecipanti al Meeting a promuovere. Accorciare le distanze, abbassarsi a toccare la carne sofferente di Cristo nel popolo. “Quanto bisogno hanno gli uomini e le donne del nostro tempo di incontrare persone che non impartiscano lezioni dal balcone, ma scendano in strada per condividere la fatica quotidiana del vivere, sostenute da una speranza affidabile!”. Questo è il compito storico dei cristiani: al Meeting Francesco chiede di cogliere questo appello "continuando a collaborare con la Chiesa universale sulla strada dell’amicizia fra i popoli, dilatando nel mondo la passione per l’uomo".

 

Vatican News

 

MESSAGGIO DEL PAPA

 

lunedì 15 agosto 2022

RIAPRIRE VITA E SPERANZA

 “Zuppi: riaprire

 ora vita e speranza.

Disincanto, valori 

e scelte forti”

- Card. Matteo Zuppi *

Nel cuore del mese di agosto, in quasi tutti i paesi e le città del nostro Paese, si celebra la festa dell’assunzione di Maria al cielo.

Un mistero che ci dice qual è la nostra destinazione: ossia essere assunti con il nostro corpo risorto nel cielo di Dio.

Maria, la prima che ha creduto alla Parola del Signore, è la prima a entrare nel cielo di Dio con il suo corpo.

Questa festa è celebrata da tutti i cristiani di tutte le confessioni, ovunque nel mondo. In Occidente la chiamiamo, appunto, Assunzione.

In Oriente l’iconografia la trasmette con l’icona della "Dormizione": gli apostoli circondano in preghiera la madre di Gesù "addormentata" nel suo letto di morte (la morte dei credenti non è mai da sola, ma sempre circondata dalle presenze degli amici di Gesù).

Gesù è raffigurato sopra di lei e tiene tra le sue mani una piccola Maria - quasi "bambina". Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli.

Per tanti anni l’ho contemplata nel mosaico absidale della Basilica di Santa Maria in Trastevere.

Ed è bello che la prima persona che transita direttamente al cielo di Dio, anima e corpo, sia l’anziana madre di Gesù: lei che ha inaugurato la storia della nostra fede e ospitato il Figlio del nostro riscatto, entra per prima, con un corpo risorto, nella pienezza del Regno.

Il corpo risorto vuol dire che non perderemo la sensibilità umana: al contrario, essa diventerà così pura, così profonda, così fine, da renderci capaci di intercettare direttamente la sensibilità di Dio per tutto il creato e per tutte le creature, dalle più piccole alle più emozionanti che abitano l’eterna fantasia dell’amore di Dio che genera e ispira da sempre i ritmi e i riti della vita che ha creato.

E Maria è il simbolo reale del legame profondo della generazione e dell’ispirazione divina della vita con l’origine e la destinazione.

In Gesù risorto questo legame irrevocabile abita per sempre l’intimità divina da cui proviene e la condizione umana nella quale si irradia.

L’intera storia dell’uomo e quella dell’umanità, lungi dall’essere abbandonata al suo destino mortale, vi appare destinata al riscatto di ogni abbandono che la umilia, la ferisce, la perde: nell’anima e nel corpo.

La cultura moderna ci ha resi gelosi della nostra libertà di vivere: e persino di morire. Ma siamo anche diventati molto rassegnati al corto respiro del nostro modo di godere la vita.

Possiamo chiamarlo disincanto, per dare un tono molto adulto e molto razionale a questo pensiero. 

Di fatto, da quando abbiamo abbassato il cielo dei nostri desideri restringendolo all’orizzonte del nostro io, anche la terra ci sembra più avara di vere soddisfazioni e di autentici entusiasmi.

A ragione si parla di passioni tristi. Non sappiamo più stupirci del tanto che pure abbiamo e scoprire l’incanto che è ogni persona che nasconde il riflesso di Dio.

Ci affanniamo giustamente ad aggiustare la società e l’habitat per tanti individui, ma non crediamo più nella comunità e nel mondo che dovrebbero ospitare la fraternità di cui abbiamo bisogno e alla quale apparteniamo.

Dobbiamo chiederci se per caso non ci stiamo rassegnando a essere una sorta di colonia di insetti, certo, evoluti e ingegnosi.

La società che stiamo costruendo rischia di avere paura della vita e diffidare della speranza. Scopriamo di avere politiche da amministrazione di condominio, aspettative di vita giovanilistiche, distanze umilianti e in crescita: fra ricchi e poveri, uomini e donne, vecchi e bambini, mediatici e anonimi, onesti e furbi.

Nello spaesamento dell’incertezza, cresce il fascino della chiusura in spazi ristretti e orizzonti chiusi e angusti.

L’autoreferenzialità porta a ripiegarci su noi stessi e contagia le persone, i popoli e le culture, anche noi credenti: non di rado appariamo senza idee, senza parole, senza azioni che riaprano i cuori al senso della destinazione dell’esistenza nostra e del mondo.

Come Maria troviamo forza facendo nostra la visione di Dio che si fa uomo per iniziare il suo Regno di amore, che sarà di tutto il popolo.

La rassegnazione a un mondo ingiusto non è l’effetto – che ora diventa particolarmente visibile – di una certa depressione escatologica che affligge lo stesso cristianesimo?

Il mistero dell’Assunta ci ri-apre al cielo della nostra destinazione. Mercoledì scorso il Papa, riferendosi proprio alla nostra destinazione finale, ha affermato con efficacia: «Il meglio deve ancora venire».

Il cielo – che pure pensiamo pieno di santi rimane forse povero di Vita. E quindi poco attrattivo.

Gesù quando parla del Regno lo descrive come un pranzo di nozze, una festa con gli amici, il lavoro che rende perfetta la casa, le sorprese che rendono il raccolto più ricco della semina.

Tutto ciò lo iniziamo già sulla terra. Con il "sì" di Maria a divenire la madre del Figlio.

Con il nostro sì a farlo nascere e crescere in noi. Il Signore è «nato da Donna», scrive l’Apostolo.

Come ogni essere umano: certo, la sua destinazione è il grembo di Dio; ma il rispetto per la qualità spirituale del grembo che l’ha portato da Dio a noi è la discriminante della qualità umana della nostra esistenza.

La donna comunica al corpo umano la sua sensibilità spirituale, fin dal concepimento, fin dalla gestazione. La donna che diventa madre non è una donna violata, consumata, di seconda scelta.

La maternità deve apparire – ed essere trattata – come un valore aggiunto dell’autodeterminazione femminile, non come un uso e un abuso che le fa perdere valore.

La società civile, la politica e tutta la comunità cristiana debbono impegnarsi a riconoscere il prestigio della maternità e il valore che la natalità rappresenta per i nostri tempi e per il Paese di cui siamo cittadini e cittadine.

L’Assunta è Vergine e Madre, senza pregiudizio di entrambe. Il riscatto dall’attuale depressione escatologica della vita cristiana (e dell’umano che ci è comune) incomincia forse proprio da qui: da una madre che, proprio perché umile, ha saputo dire di sé: «grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente».

Il nostro Paese – il mondo – ha sempre più bisogno di grandi visioni e di uomini e donne umili che se ne lasciano appassionare e non hanno paura di donare la vita per trovarla.

*Presidente CEI

venerdì 15 luglio 2022

DARE SENSO A CIO' CHE SI INSEGNA E SI FA


 “L’avventura di rimettere in moto uno studente bloccato”

Se il significato di ciò che studiano non diventa esperienza, gli studenti si perdono. Il lavoro nelle scuole della Fondazione Grossman

“Abbiamo riguardato il lavoro con loro e abbiamo guardato loro”. Questo, in nuce, un tentativo di recupero di inglese al liceo, nato dall’esigenza di due colleghe che si sono chieste “come mettere in moto uno studente bloccato”. Nell’ultimo periodo di scuola un’ora alla settimana è stata dedicata alla ripresa dei contenuti, costituendo due gruppi e scambiandosi gli studenti in base ai livelli di apprendimento raggiunti.

Nella nuova compagine molti si sono sentiti più liberi di chiedere o di proporre il loro tentativo e la verifica finale è consistita nella richiesta di un lavoro commentato, in cui ognuno, se non fosse riuscito a eseguire un esercizio, avrebbe dovuto provare a spiegare perché, al fine di acquisire consapevolezza del proprio apprendimento.

Una didattica che si è rivelata proficua, nella quale il recupero ha perso qualsiasi connotato di ripetitività ed è consistito sostanzialmente in un dialogo tra soggetti liberi. Non vi sono stati se non pochissimi debiti in queste classi: una conseguenza, non un assunto di partenza a imitazione del tanto decantato sistema finlandese, additato come esempio di scuola innovativa, a tasso dispersione zero, dal presidente dell’Associazione nazionale presidi (Anp) Antonello Giannelli durante un’audizione in Commissione Cultura alla Camera: “Registriamo una forte disaffezione dei ragazzi dall’andare a scuola e fare formazione. E io ritengo che la matrice essenziale sia da ritrovare nella matrice ‘gentiliana’ dei nostri cicli di studi, che genera dispersione. È in crisi il sistema ‘trasmissivo’ dell’insegnamento, anche per questo serve innovazione e vorrei attirare l’attenzione sul caso della Finlandia, dove non ci sono bocciature e il tasso di dispersione è zero, e non sto parlando di un ‘6 politico’”. Quindi, ha concluso Giannelli, “dobbiamo fare in modo che i nostri docenti siano in grado di ‘convincere’ i nostri studenti della bontà di avviare un processo di apprendimento”

Fermo restando che non è del tutto chiara la definizione di scuola ‘trasmissiva’, demonizzata in tanta letteratura didattica (se una scuola non trasmette cultura da una generazione all’altra e non la invita al vaglio della tradizione, ha senso di esistere?); pur considerando poco convincente imputare solo all’impostazione gentiliana della scuola una crisi epocale come quella che stiamo vivendo, in cui il fenomeno del ritiro dall’impegno, dalla vita, dallo studio, dal lavoro è diffuso tra giovani e adulti, nella scuola e nel mondo del lavoro, segno di mancanza del significato del vivere, di coscienza del compito, di impegno serio con la vita propria e altrui, è evidente che occorre prendere sul serio l’invito a fare in modo che i nostri studenti si convincano della bontà di avviare un processo di apprendimento. O meglio: fare in modo che i nostri studenti si implichino in un’appassionante esperienza di conoscenza e investano su sé stessi.

È stato questo il tema centrale del collegio docenti finale delle scuole della Fondazione Grossman, riunitesi all’ombra degli alberi in cortile nell’afoso pomeriggio del 30 giugno per tentare di rispondere alla domanda: “Da che cosa abbiamo imparato e quali passi di consapevolezza abbiamo compiuto, rispetto all’uso della ragione, dell’affezione e della libertà nella conoscenza e nelle relazioni?”

Molti gli interventi di docenti di tutti i livelli scolari, dall’infanzia ai licei, in cui sono emerse le strade tentate durante l’anno per coinvolgere gli studenti nel lavoro. I docenti di italiano della scuola secondaria di primo e secondo grado hanno raccontato il loro percorso di autoformazione sul tema della “domanda”, considerata come fattore essenziale per mettere realmente e appassionatamente in dialogo gli studenti, soggetti di conoscenza, con l’oggetto della loro disciplina: il testo.

La “domanda” è stata oggetto di riflessione teorica e di analisi critica: durante l’anno i docenti si trovavano per valutare e migliorare le domande poste ai testi al fine di avviare il processo interpretativo e per analizzare le domande poste dai ragazzi, nell’ottica di affinare la capacità di interrogare gli oggetti disciplinari coinvolgendo i ragazzi nell’avventura interpretativa.

Sorprendentemente affine il tentativo proposto dalle docenti della scuola dell’infanzia e quelli di greco e latino del liceo classico: le prime hanno impostato l’intero anno scolastico sul racconto drammatizzato de Il leone, la strega e l’armadio di C.S. Lewis. Le maestre hanno rappresentato a puntate gli episodi del racconto, ciascuna interpretando un personaggio, e il percorso si è rivelato in grado di educare l’attesa e la pazienza dei bambini e anche dei genitori che sono stati invitati a non anticipare le vicende del testo, nonché di potenziare la conoscenza e la proprietà lessicale, stimolate da un testo di indubbio valore letterario. Grazie alla capacità attrattiva dei personaggi, che che ha favorito l’immedesimazione dei bambini, la storia ha offerto l’occasione anche di una educazione morale, incarnando nelle vicende temi importanti come la lotta tra il bene e il male, il tradimento e il perdono…

Un antidoto alla dispersione è sicuramente il coinvolgimento in grandi storie attraverso la narrazione e la drammatizzazione di testi densi dal punto di vista semantico, in tutti i livelli scolari, al contrario di una malintesa concezione di inclusione che suggerisce di abbassare il livello delle proposte didattiche per non creare disparità. Gli studenti attendono dagli adulti, diceva un docente di arte, non di facilitare loro le cose, ma di essere implicati in percorsi che rispondano alle esigenze del loro cuore.

Analogamente al percorso della scuola dell’infanzia, nel dipartimento di lingue classiche si è lavorato sulla possibilità di un approccio testuale all’apprendimento delle lingue, non soddisfatti dell’idea che i primi anni siano dedicati a uno studio puramente grammaticale della lingua indifferente alla questione del senso. Il rischio di studiare i testi solo come strumenti per conoscere la lingua, di parcellizzarne l’analisi su elementi o di morfologia o di sintassi, è alto al biennio e si rischia di demandare al triennio l’incontro unitario con il testo, demotivando gli studenti.

La ragione, infatti, è un organismo, non un meccanismo, e si soddisfa solo nell’incontro col significato delle cose. Il tentativo in atto è quello di proporre già dal primo anno testi di una certa lunghezza, perché per accedere al significato di un testo serve un contesto e leggere insieme miti e storie per intero aiuta a ricavarlo. Si legge dunque a puntate con gli studenti, nei quali si genera anche aspettativa sul prosieguo, e la contestualizzazione aiuta a muoversi anche davanti a strutture morfologiche e lessicali non note e ad apprenderle.

Questi e altri interventi hanno messo in luce che per combattere la dispersione scolastica, il disamore per lo studio, il disinvestimento su di sé e sul proprio futuro, innanzitutto occorre che gli studenti facciano esperienza del significato dei contenuti loro proposti. E ciò accade a condizione che i docenti si riapproprino delle proprie discipline, sappiano scegliere cioè contenuti adeguati alla domanda di senso che alberga nei cuori degli studenti, propongano strategie e strumenti adeguati a conoscerli nelle condizioni attuali, decostruiscano e ricostruiscano il loro sapere con gli studenti; condividano i loro tentativi e interrogativi con i colleghi, perché il compito di istruire ed educare oggi è estremamente arduo ed è impossibile affrontarlo da soli; siano realisti e flessibili, considerando i vincoli che la realtà pone come occasione di innovazione, comprese le domande, le paure e le incertezze degli studenti. Perché la rigidità, gli stereotipi e lo schematismo sono i veri ostacoli di una scuola che, attraverso la relazione, intenda coinvolgere e appassionare gli studenti a sé stessi e alla realtà.

 

Il Sussidiario