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venerdì 13 settembre 2024

LA LIBERTA' IMPAZZITA

 


UN RAGAZZO 

FA STRAGE DELLA FAMIGLIA

 

PERCHE’?

 

-         di Giuseppe Savagnone*

-          

“Una famiglia perfetta”

Ci sono fatti cronaca che colpiscono tanto in profondità l’opinione pubblica da restare in qualche modo impressi come un drammatico punto interrogativo nella coscienza collettiva. La strage familiare di Paderno è avvenuta nella notte fra il 31 agosto e il 1° settembre, ma la grande eco che stanno avendo i funerali delle vittime, celebrati più di dieci giorni dopo, solennemente, dall’arcivescovo di Milano Delpini, evidenza quanto ancora sia forte la commozione che quella vicenda ha suscitato.

 La domanda più terribile che fin dall’inizio tutti si sono fatti, e a cui non è stata data ancora risposta, è: perché? Una domanda resa ancora più drammatica dall’efferatezza dell’episodio: un ragazzo di diciassette anni, Riccardo, che massacra a coltellate (ben sessantotto!) il fratellino di dodici anni, la madre e il padre, è l’incarnazione di una violenza inaudita, tanto più impressionante perché scatenata fra le mura domestiche, a conclusione di una festicciola familiare per il 51° compleanno del genitore.

 A colpire, fra l’altro, è la lucida indifferenza con cui Riccardo ha compiuto e commentato il suo gesto. Nel verbale del primo interrogatorio, fatto dal Gip il giorno successivo, il ragazzo ha raccontato: «E’ stata la sera della festa che ho pensato di farlo, non avevo ancora ideato questo piano, però avevo pensato di usare comunque il coltello perché era l’unica arma che avevo a disposizione in casa (…). Anch’io sono andato a dormire con loro, ma sono stato sveglio ad aspettare che loro si addormentassero (…). Sono andato di sopra, il primo che dovevo colpire era mio fratello (…). Lui si è svegliato e ha urlato ‘papà’. Io gli ho tappato la bocca e ho sferrato diverse coltellate. Sono andato in camera dei miei genitori. Loro hanno acceso la luce, io ero davanti a loro con il coltello in mano. Loro mi hanno detto di stare calmo, sono venuti in camera con me e lì li ho aggrediti. Non ricordo chi ho aggredito prima, ma credo che mia mamma sia stata la prima, perché poi si è accasciata a terra. Mio padre mi ha chiesto di lasciare il coltello. L’ho fatto e mi ha detto di chiamare il 118. A quel punto, mio padre è andato verso mio fratello e allora gli ho dato un colpo alla schiena».

 Ma la cosa più inquietante è che tutto ciò è accaduto senza alcuna apparente motivazione: nessuna lite, nessun progetto ostacolato, nessuna seria incomprensione.

 «Era una famiglia perfetta», ha detto il nonno materno del ragazzo, parlando agli inquirenti «di un padre attento all’educazione e di una madre che, pur severa con i figli, era molto presente e premurosa». I due fratelli, poi, «avevano un rapporto “idilliaco” e il minore ammirava molto il fratello maggiore, che era solito emulare».

 Anche la zia materna ha messo a verbale che era una «famiglia normale, senza particolari problemi, nemmeno economici», aggiungendo che il cognato «era un uomo piacevole, ironico, un bravo papà e marito». Il nipote viene descritto come «un ragazzo meraviglioso, bravo, educato, aiutava in casa, faceva sport. A livello caratteriale era riservato».

 Uno straniero

Perché, allora? La difesa si sta disperatamente appigliando alla richiesta di una perizia psichiatrica, ma nulla lascia pensare che Riccardo sia un pazzo o comunque uno squilibrato.

 Ai magistrati ha detto: «Non c’è un vero motivo per cui li ho uccisi. Mi sentivo un corpo estraneo nella mia famiglia. Oppresso. Ho pensato che uccidendoli tutti mi sarei liberato da questo disagio. Me ne sono accorto un minuto dopo: ho capito che non era uccidendoli che mi sarei liberato».

 E ancora: «Non so davvero come spiegarlo. Mi sento solo anche in mezzo agli altri (…). Non avevo un vero dialogo con nessuno. Era come se nessuno mi comprendesse (…). Ogni tanto i miei genitori mi chiedevano se c’era qualcosa che non andava perché mi vedevano silenzioso, ma io dicevo che andava tutto bene».

 Non possono non tornare in mente le pagine di grande romanzo del premio Nobel Albert Camus, Lo straniero (1942), in cui si descrive l’assassinio compiuto, senza motivo, per una serie di riflessi condizionati, da un modesto impiegato, Meursault, il quale, durante una banale lite sulla spiaggia, si trova messa tra le mani una pistola. «In quel momento ho pensato che si poteva sparare oppure non sparare e che una cosa valeva l’altra».

Alla fine spara, ma senza odio e, in fondo, senza un vero motivo. Ha scritto a questo proposito Raffaele La Capria: «L’indifferenza con cui il protagonista della storia di Camus compie le sue azioni discende dalla consapevolezza della sua estraneità al mondo e alla natura, che si traduce, nella vita di tutti i giorni, in gesti meccanici, privi di senso, e, anche se estremi come un assassinio, equivalenti».

 Ritornano alla mente le parole di Riccardo: «Non c’è un vero motivo per cui li ho uccisi. Mi sentivo un corpo estraneo nella mia famiglia». Anche lui era uno straniero. E anche lui, in una società dove si compiono ogni giorno azioni prive di senso, ha percepito che, tra uccidere e non uccidere, «una cosa vale va l’altra».

 La crisi dei fini

Il punto decisivo, di cui Albert Camus ha percepito tutta la drammaticità, è che la “morte di Dio” – annunciata da Nietzsche alla fine dell’Ottocento come simbolo del tramonto di tutti i valori su cui l’Occidente ha costruito la propria storia – ha lasciato le persone prive di qualunque fine che non sia l’esercizio della stessa libertà.

 Mentre – con il rapidissimo progresso della tecnica e il miglioramento delle condizioni economiche – è andato sempre più crescendo il potere della maggioranza delle persone sui mezzi, si è sempre indebolita la possibilità di individuare dei fini.

 Il tramonto delle grandi ideologie che, dallo scientismo, al marxismo, al fascismo avevano dato un senso alla vita; il declino della religione e la conseguente secolarizzazione, la crisi progressiva della famiglia, il progressivo indebolirsi dello Stato nazionale e la conseguente minore incidenza della politica, hanno progressivamente creato un grande vuoto, che colpisce tutti, ma di cui i giovani avvertono più immediatamente gli effetti.

 Anche perché proprio essi sono oggi molto più liberi di prima e avvertono più gravemente, perciò, il paradosso di una libertà che finisce per non avere altro scopo che la propria auto-celebrazione (vedi il diffondersi della droga, la sempre maggiore frequenza di comportamenti balordi che mettono  a rischio la vira propria e altrui..)

 Non è un problema solo italiano. Anche recentemente, negli Stato Uniti, la libertà è alla fine il punto fondamentale del programma di Kamala Harris. Ma una libertà che si auto-assolutizza è destinata a vedere negli altri solo dei limiti e quindi degli ostacoli.

 Non è un caso che, nel caso della candidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti, questa libertà si polarizzi poi di fatto sul tema dell’aborto come diritto della donna di sbarazzarsi dell’eventuale ostacolo di un figlio indesiderato.

 Che alla fine è assai meno lontano di quanto possa sembrare dal programma di Trump, che si batte per questo stesso tipo di libertà, insistendo però sulla espulsione degli immigrati. In entrambi i casi, l’“altro” diventa solo una minaccia.

 È la percezione espressa da Riccardo al Gip per cercare di fare capire il suo gesto: «Mi sentivo un corpo estraneo nella mia famiglia. Oppresso. Ho pensato che uccidendoli tutti mi sarei liberato da questo disagio».

 Non si tratta di un caso isolato. Dietro la grande impressione che la strage di Paderno ha suscitato, c’è forse l’oscura sensazione che il problema riguarda ormai tutta la nostra società, in particolare i nostri ragazzi, sempre più prigionieri dei loro cellulari e sempre meno capaci di dialogo in famiglia, ma anche sempre meno impegnati in forme comunitarie, siano quelle della religione o della politica e che, proprio per questo, ormai non avvertono più i legami, anche quelli affettivi, come un’opportunità, ma come un peso.

 Nella società della comunicazione globale, ognuno resta alla fine solo. È un bene, certo, che ciò non porti, nella stragrande maggioranza dei casi, ad uccidere, ma non esclude un individualismo profondo che prende sempre più forza.

 Forse bisogna ripensare il nostro modo di intendere la libertà. Senza fini a cui dedicarsi – e i fini si devono scoprire e conquistare, magari cercandoli insieme – la libertà impazzisce. E, come evidenzia, purtroppo, l’episodio di Paderno, può arrivare a uccidere.

 www.tuttavia.eu

 *Scrittore ed editorialista. Pastorale della Cultura – Arcidiocesi di Palermo

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giovedì 5 settembre 2024

UNA STRAGE CHE C'INTERROGA

 


Quei ragazzi sospesi tra desideri e realtà nelle famiglie senza più parole: ecco cosa ci dice la strage di Paderno Dugnano

La ferocia del giovane famiglicida di Paderno non può essere separata dal candore della sua autogiustificazione: volevo separarmi da loro, volevo non subire più l’oppressione della mia famiglia.

 - di Massimo Recalcati

In gioco è il grande tema dell’adolescenza: trovare la propria libertà svincolandosi dalle catene dei legami primari. Ma ciò che in questo caso trasforma in un dramma questa legittima esigenza che ogni adolescente porta con sé è il passaggio all’atto criminale. Significa che la separazione dalla famiglia non è stata simbolizzata attraverso una elaborazione di pensiero soggettiva, né è stata messa in parola, ma è stata agita direttamente e crudelmente nel reale. È la differenza tra il sogno e la veglia, tra il desiderio e la realtà, che in questi casi viene meno. In questo senso il ricorso alla violenza in generale e, in particolare, nel tempo dell’adolescenza, assomiglia ad una vera e propria allucinazione. Essa punta a realizzare immediatamente quello che nella realtà appare difficilmente realizzabile. Si tratta di una tremenda e tragica scorciatoia. Se in ogni adolescente c’è il sogno di emanciparsi dai vincoli della propria famiglia, non tutti ricorrono all’esercizio efferato della violenza per appagare questo sogno. Il conflitto tra le generazioni deve svilupparsi giustamente sul piano simbolico e non cortocircuitare col reale. Nondimeno, molto spesso la violenza giovanile è vissuta come risposta alla violenza supposta o effettivamente subita degli adulti. È sempre una violenza, alla sua radice, difensiva anche quando appare nella sua forma più aggressivamente rivendicativa. Non a caso questo giovane assassinio sembra abbia covato il desiderio di arruolarsi nelle truppe ucraine per aiutare quel paese a difendersi dall’aggressione ingiustificata della Russia. La violenza adolescente spesso porta con sé un fantasma giustizialista. In questo caso con la complicazione tragica che la vittima diviene giudice e boia da un istante all’altro. Ma più in generale, il passaggio all’atto violento implica sempre uno sfaldamento della legge della parola. Non mette, dunque, sotto accusa solo il carattere smidollato dei genitori o la frammentazione della famiglia ipermoderna, ma un’epoca intera che sputa senza ritegno su questa legge.

È evidente che la stagione della guerra che stiamo collettivamente vivendo segnala un tracollo clamoroso della parola nella forma di un fallimento generalizzato della politica. Le famiglie non sono nicchie separate dalla società ma respirano la sua aria a pieni polmoni. Il nostro tempo non è, dunque, solo il tempo (benedetto) dell’evaporazione della famiglia patriarcale, ma è anche il tempo che non sa offrire risposte a quella evaporazione se non sul piano del rimpianto nostalgico del passato o della critica nichilistica del legame famigliare tradizionale. Il problema credo sia invece quello di come si possa essere dei genitori sufficientemente buoni inun tempo dove il carattere impossibile di questo mestiere è messo a dura prova da una realtà che svaluta sistemicamente il valore testimoniale della parola. Non si tratta allora di riesumare una vecchia e ormai decrepita autorità, ma di dare sempre più valore alla testimonianza singolare. Quanto, per esempio, i media sanno valorizzare gli infiniti atti di testimonianza genitoriale positivi e non solo esibire i drammi famigliari efferati come quello di Paderno che di fatto si contano sulle punte delle dita? Al tempo stesso occorre non trascurare la presenza di un disagio effettivo che caratterizza il nuovo mondo dell’adolescenza.

 Si tratta anche in questo caso di non ignorare ma, al tempo stesso, di non diffondere panico, allarmismi inutili per un’emergenza che se è tale lo è oramai da diversi decenni. Piuttosto evitare l’eccesso di medicalizzazione, di psichiatrizzazione, di vittimizzazione del disagio. I sintomi e le crisi degli adolescenti attendono interlocutori che non si limitino a riconoscere in essi una malattia da curare, ma una modalità per provare ad esistere a proprio modo. Il problema non è riducibile a quello che accade nelle famiglie ma al collasso generalizzato della legge della parola. Si può invece decidere, come fanno alcuni, di imputare proprio alla disgregazione della famiglia patriarcale la causa prima della diffusione della violenza giovanile. Bisogna allora fare la ramanzina ai nuovi genitori che non saprebbero più dare di se stessi l’immagine di adulti autorevoli dimenticando però chenel nostro tempo l’autorevolezza non può più coincidere con la solidità e l’infallibilità esemplare. La testimonianza genitoriale è oggi senza modelli, obbligata a reinventarsi, a barcamenarsi, a navigare in mare aperto. Il nostro tempo impone la testimonianza singolare al posto dell’esemplarità ideale. Certo, si può e rimpiangere il passato, la tradizione, Dio, la patria e la famiglia naturale. Ma si può davvero avere nostalgia della vecchia famiglia dove la voce del padre sentenziava inflessibile il senso della Legge, del bene e del male, rendendo di fatto impossibile ogni circolazione della parola? Davvero pensiamo che per rispondere all’attuale crisi della famiglia la soluzione più adeguata sia coltivare il rimpianto frustrato per i bei tempi andati? Ma erano poi davvero così belli quei tempi? Basterebbe pensare alla violenza pedagogica che imperava, prima della contestazione del ’68, nelle nostre scuole e nelle nostre famiglie per avere dei seri dubbi. Il rigore di quei padri padroni e di quelle madri sacrificali — di cui la nostra letteratura e il nostro cinema hanno offerto ritratti indimenticabili — sarebbe il giusto antidoto per questa disgregazione in corso non solo della famiglia contemporanea ma anche del discorso educativo in quanto tale? Non credo. La tragedia di Paderno solleva per l’ennesima volta un grande tema: come reimpostare il discorso educativo nel tempo della sua evaporazione senza ricadere in una forma usurata di nostalgia patriarcale? Gli psicologi fustigatori delle famiglie smidollate hanno già dimenticato ovviamente la prova straordinaria che le famiglie italiane hanno dato durante il periodo della pandemia.

 Quanta cura, quanta pazienza, quanta dedizione è stata necessaria offrire ai nostri figli in quel tempo traumatico? Cosa saremmo stati senza l’ancora del legame famigliare? Condivisione dell’angoscia, della difficoltà, della frustrazione, della precarietà, della vita rinchiusa. Non è forse questa un’altra immagine della famiglia che dovremmo imparare a coltivare rispetto a quella che la riduce ad una centralina pedagogica e che molti vorrebbero ripristinare?

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