con la scuola?
Che le cose lottino per sopravvivere è evidente, ciò che sorprende è che la lotta miri alla bellezza.
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di Alessandro D’Avenia
Qualche
giorno fa mi si è reso ancora una volta chiaro in una piccola piazza di Milano:
sui rami di alcune magnolie brillavano già, in una luce ancora invernale, le
prime fioriture. Non era un’anomalia. Molti si fermavano ad ammirare, colti da
quel desiderio che la bellezza risveglia perché, essendo la bellezza vita
compiuta, ci ricorda che siamo fatti per questo: compierci nel tempo e nel
mondo che ci sono dati. La bellezza chiede: a che punto sei con i doni della
vita? E se la bellezza è il fine della vita, dovrebbe esserlo anche
dell’educazione che è aiutare la vita a crescere.
Avviene nel luogo deputato, dopo la famiglia, a questo: la scuola? Vi si dovrebbe scoprire la propria unicità per poi portarla a compimento cercando nel mondo e nel tempo ciò che serve allo scopo. Eppure, il «XXI Profilo dei diplomati» presentato il 29 febbraio da AlmaDiploma, analizzato già su queste pagine, riferisce che un ragazzo su due dice di aver sbagliato indirizzo scolastico e universitario. Esito inevitabile di un orientamento quasi assente nella scuola secondaria di primo e secondo grado. Si esce da medie e superiori possedendo delle competenze, ma non se stessi. E senza questo non si può essere felici. Perché?
L’orientamento
dovrebbe servire a scoprire i propri talenti per poi farli fiorire a beneficio
degli altri nel tempo, grazie a terreni e giardinieri scelti perché adeguati a
quelle caratteristiche, come le magnolie che richiamano passanti a sostare e
bambini a giocare. Non conoscendo se stessi (cioè non essendo ri-conosciuti da
chi li educa) i ragazzi si affidano a impressioni fugaci, scelte di
maggioranza, aspettative familiari. Non si può non scegliere ma se non si ha
l’energia e il coraggio di una vocazione, si sceglie ciò che sembra più certo,
comodo, sicuro, rinunciando così alla propria specifica bellezza. Per questo
molti ragazzi si ritrovano in vite non loro, con il senso di colpa e l’ansia
tipici di una cultura della perfezione e della performance. A differenza di
quelle magnolie che fanno ciò a cui sono chiamate nel tempo che serve loro,
proprio in mezzo al traffico, noi rischiamo di essere inghiottiti da quel
traffico: un mondo che ci dice come essere e che cosa fare prima di averci
permesso di scoprire chi siamo e per chi. Può essere felice una magnolia a cui
si chiede di fare pere o di fiorire in tutte le stagioni? Entrerà in
contraddizione con se stessa, sarà sfruttata (privata dei suoi frutti) e
appassirà.
La
cooperazione è per me uno dei capitoli più interessanti della recente botanica,
sviluppato negli ultimi anni dagli studi di Suzanne Simard che ha riscritto il
paradigma competitivo nell’evoluzione delle piante (consiglio il TedTalk «How
trees talk to each other» del 2016 e il suo libro L’albero madre):
quando l’albero di un gruppo è minacciato o si ammala, gli altri esemplari,
anche di specie diverse, scambiano non solo informazioni aeree tramite ormoni
diffusibili ma soprattutto sostanze nutrienti attraverso l’immensa rete delle
loro radici. Gli alberi non sono innanzitutto attori individuali in
competizione per le risorse, ma un sistema collaborativo, con alcuni alberi che
per la loro età hanno un ruolo centrale per la nascita e la vita dei più
giovani, questo sistema è definito da Simard «intelligenza del bosco».
Finché la scuola non avrà questa intelligenza, userà solo la lingua dell’utile
e dell’efficienza (rendimento, crediti, debiti, competenze...) e non della vita
(crescita, maturazione, cooperazione, vocazione...) i suoi «virgulti» spesso
appassiranno prima della «maturità» invece di diventare belli come le magnolie
che, persino nell’asfalto trafficato e inquinato, spingono a fermarsi a
respirare e a chiedersi perché e per chi siamo qui.
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