Il duplice significato
del legno
C’è
nella città vecchia di Gerusalemme una strada che porta ancor oggi il nome di
Via Dolorosa. Su quel percorso, in un giorno della primavera forse dell’anno
30, un corteo avanzava sotto la direzione dell’exactor mortis, il centurione
romano incaricato dell’esecuzione capitale per crocifissione. Il condannato,
scortato da quattro soldati armati di lancia e dalla solita folla dei curiosi,
procedeva recando sulle spalle probabilmente il patibulum, cioè l’asse
trasversale della croce. Soste, incontri, piccoli episodi della narrazione
evangelica che ha per protagonista Gesù di Nazaret sono divenuti le «stazioni»
della Via crucis, la famosa pratica devozionale cristiana sorta già al tempo
delle Crociate. Noi ora fisseremo il nostro sguardo sulla meta di quel gruppo
di persone, un modesto picco roccioso fuori dalle mura di Gerusalemme, in
aramaico Golgota, in latino Calvario, in italiano «Cranio», forse per la sua
forma o perché era la sede delle condanne a morte per crocifissione. È noto che
questa esecuzione capitale, il servile supplicium, come lo definiva lo storico
romano Tacito, cioè il supplizio infamante degli schiavi, era praticata in
Palestina dalle forze romane di occupazione nei confronti dei rivoluzionari,
com’è attestato anche dallo scheletro di un giovane ebreo di nome Yehohanan
(Giovanni) con un chiodo nella caviglia e segni di perforazione
nell’avambraccio, ritrovato nel 1969 a nord-est di Gerusalemme. Le modalità
della crocifissione, infatti, erano un po’ differenti da quelle che l’arte ha
raffigurato nei secoli, ma il supplizio era comunque causa di «una sofferenza
intollerabile e della più penosa delle morti», come affermava lo storico
ebraico filoromano Giuseppe Flavio, vissuto poco dopo Gesù, nella sua opera
Guerra giudaica.
Negli Atti degli apostoli, parlando della morte di Cristo, si afferma che egli «fu appeso a un legno» (5,30; 10,39; 13,29; 16,24). Questa espressione ha una duplice spiegazione. La prima è di ordine storico: la croce era costituita, infatti, di un legno verticale che era già infisso nel terreno, mentre – come si diceva – il condannato portava sulle spalle il braccio orizzontale della croce, che veniva poi sollevato sul palo verticale quando la vittima era stata inchiodata ai polsi o negli avambracci. Questo «legno» verticale era, dunque, l’asse portante. La forma finale della croce era, quindi, a T (in greco tau), anche se sopra di essa un altro paletto poteva recare il titulus, ossia la motivazione ufficiale della condanna a morte. L’altra ragione per il ricorso al termine «legno» è, invece, di indole teologica, come insegna san Paolo che cita un passo del libro biblico del Deuteronomio (21,23) per mostrare che in Cristo si addensa tutta la «maledizione» del peccato perché si trasformi in «benedizione» per noi: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti» (Galati 3,13-14). Lo stesso Apostolo nella sua Prima Lettera ai Corinzi proclama con forza che «noi annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani, ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei sia Greci, Cristo è potenza e sapienza di Dio» (1,23-24). Si comprende quanto forte sia la provocazione paolina nel porre al centro della fede e della stessa cultura cristiana un simile segno, enfaticamente opponendolo alla sapienza greca. Egli marca il contrasto definendo ciò che la croce appariva agli occhi dei pagani: essa è in greco chiamata môría, cioè «stupidità, idiozia, stoltezza, follia».
Lo skándalon della croce
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