«State molto attenti a non far piangere una donna
perché Dio conta le sue lacrime"
dalla Bibbia
- di Gianfranco
Ravasi
In
questi ultimi mesi è tornato di moda – purtroppo in un contesto tragico –
l’aggettivo un po’ obsoleto «patriarcale». Il pensiero di molti è corso
all’Antico Testamento che si apre appunto con una sfilata di “patriarchi”
ebrei: Abramo, Isacco, Giacobbe e altre autorità maschili minori. In verità, in
quelle pagine non manca un’altra processione di matriarche: Sara, Agar,
Rachele, Lia e, poi, Miriam, Debora, Anna, Giuditta, Ester, la Sulammita,
protagonista del Cantico dei cantici e così via. Per non parlare, poi, del
Nuovo Testamento ove la folla femminile s’infittisce avendo come capo-fila
Maria la madre di Gesù.
È,
però, indubbio che l’orizzonte storico e socio-culturale della Bibbia è di
matrice appunto “patriarcale” ed è, perciò, necessario per sceverare il
messaggio più profondo – adottare un’ermeneutica accurata, così da evitare la
Scilla del fondamentalismo letteralista («la lettera uccide», ammoniva già san
Paolo) ma anche la Cariddi dell’allegoria evanescente che fa evaporare il
realismo delle coordinate entro cui quel messaggio è “incarnato”.
Ebbene,
alla soglia dell’8 marzo, vorremmo proporre una pagina biblica capitale,
collocata in apertura al primo libro sacro, la Genesi (c. 2), che è stata
impugnata da una lettura letteralista come una sorta di manifesto
antifemminista. Noi, invece, paradossalmente intendiamo offrirla proprio alla
donna nella sua giornata festiva tradizionale.
Quel
testo mira a definire un’antropologia generale affidandola – secondo lo stile
semitico – non a una riflessione teorica, bensì a una parabola narrativa
sapienziale. Entra in scena innanzitutto ha-’adam che in ebraico non è un nome
proprio (Adamo) ma comune segnato dall’articolo (ha-): è, quindi, l’Uomo,
letteralmente «colui che ha il colore rossastro» dell’argilla, simbolo della
sua materialità. Secondo il linguaggio mitico, il Creatore infatti lo impasta
con polvere del suolo (2,7), e gli insuffla non solo uno spirito vitale ma
anche quella che noi chiameremmo “autocoscienza” morale personale.
Ora,
quasi anticipando Lévinas, Buber e i filosofi personalisti – che, in realtà,
dipendono proprio dalla matrice biblica – l’antico autore biblico imposta la
sua visione della creatura umana sul concetto di relazione. Triplice è il
rapporto che la persona instaura, infrangendo la sua solitudine. Il primo è
verticale-ascensionale, proiettandosi verso l’alto, l’oltre, l’Altro
trascendente, il Creatore, Dio. In un testo sacro è la componente radicale che
genera l’homo religiosus e, in senso “laico”, è l’aprirsi all’oceano
dell’essere e dell’universo oltre la propria isola, per usare un’immagine di
Wittgenstein («ciò che volevo definire erano i contorni di un’isola, ciò che ho
scoperto erano invece le frontiere dell’oceano»).
L’essere
umano, però, vive una seconda relazione, verticale-discensionale, verso il
basso, la materia: è l’avventura di «coltivare e custodire la terra» (2,15) e
di «dare il nome agli animali» (2,19-20). Entra in scena l’homo faber,
impegnato nella trasformazione delle realtà naturali, nel lavoro, nella scienza
(nei papiri egizi l’elenco dei termini vegetali e zoologici indicava appunto la
conoscenza scientifica). Eppure, nota la Genesi, giunto alla sera della sua
giornata “verticale” di preghiera e di lavoro, la creatura umana è triste e
incompiuta perché «non aveva trovato un aiuto kenegdô», letteralmente «come
davanti a sé».
Scatta,
così, la terza relazione, quella orizzontale, l’incontro col proprio simile, un
altro volto umano. Il Creatore comprende questa esigenza: «Non è bene che
l’uomo sia solo; voglio fargli un aiuto kenegdô» (2,18), un «aiuto» vivo e
personale, un alleato nel quale possa fissare gli occhi negli occhi, anche in
un dialogo silenzioso, trasferendo nell’altro il suo pensiero, i sentimenti, il
riso e le lacrime.
Ecco,
allora, quell’atto divino che è stato letto come anti-femminile, simboleggiato
nella “costola” estratta all’uomo: in realtà, il termine ebraico sela‘
significa innanzitutto «lato», introducendo proprio quell’orizzontalità a cui
accennavamo. È con questo simbolo carnale che si esalta la parità sostanziale
tra i due, come è dichiarato in quel canto d’amore primigenio che ha-’adam
intona e che sarà declinato nella storia in infinite forme e tonalità:
«Finalmente essa è osso delle mie ossa, carne della mia carne!» (2,23).
La
corporeità per la Bibbia è strutturale e ha una compattezza psico-fisica: si
ribadisce così l’unità profonda tra i due che sono «un’unica carne» (2,24), pur
nella diversità dei sessi. Infatti, l’originale ebraico con un gioco di parole
definisce i nomi dei due in modo folgorante, lui è ’ish, «uomo», e lei è
’isshah, «donna»: il vocabolo è identico, segnato solo dalla desinenza finale
del genere. Anzi, come ribadisce la Genesi, a differenza della successiva
tradizione giudaica e persino popolare, «Dio creò l’uomo a sua immagine,
maschio e femmina li creò» (1,27). La rappresentazione autentica divina non è
nel solo uomo, ma nella coppia che si ama e genera, imitando il Creatore.
Concludendo,
è solo con la presenza della donna che si attua la pienezza dell’umanità. Se si
vuole usare un termine legato all’evoluzione, l’“ominizzazione” vera si ha non
nella solitudine dominatrice del maschio ma nella vita alla pari (kenegdô) con
la donna, nella donazione reciproca dell’amore, incontro umano supremo, oltre
il sesso e l’eros, come canta la protagonista del Cantico dei cantici: «Il mio
amato è mio e io sono sua … Io sono del mio amato e il mio amato è mio» (2,16;
6,3).
In
appendice alleghiamo un testo giudaico tardo adatto, al di là della sua
formulazione a impronta maschile, ad essere un monito anche per oggi: «State
molto attenti a non far piangere una donna perché Dio conta le sue lacrime. La
donna è uscita dalla costola dell’uomo, non dai piedi per essere calpestata, né
dalla testa per essere superiore, ma dal fianco per essere uguale. Un po’ più
in basso del braccio per essere protetta e dal lato del cuore per essere
amata».
Alzogliocchiversoilcielo
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