In
Nord America si torna a insegnare il corsivo a scuola.
Pratica necessaria
al
tempo del pc,
che ha mutato
alla radice l’approccio.
A livello fisico e
cognitivo.
-
di RAFFAELE SIMONE
In
diversi Paesi occidentali (Canada e alcuni degli Stati Uniti) si registra da
qualche anno un ritorno all’insegnamento della scrittura corsiva a mano nella
scuola primaria. Dagli anni Ottanta in poi, sulla spinta di dottrine
pedagogiche più o meno salde, la scrittura corsiva fu abbandonata e sostituita
con la pratica del maiuscoletto (detto familiarmente stampatello), un “glifo”
preso in prestito dalla tipografia. Al maiuscoletto si attribuivano diversi
vantaggi: una maggiore facilità di apprendimento, perché permette di saltare la
lunga serie di passi grafici (le aste, i tondi ecc.) necessari per imparare la
scrittura corsiva, e una maggiore velocità di esecuzione. Inizialmente
l’obiettivo era di usarlo nei primi anni dell’apprendimento, con l’intento di
passare più tardi al corsivo. Nondimeno, come mi ha fatto notare Franco
Lorenzoni, maestro elementare di grande esperienza e autore di libri di culto
nell’ambiente della scuola primaria (come Educare controvento, Sellerio), «un
discreto numero di maestre e maestri hanno rimandato di anni e in alcuni casi
rinunciato a insegnare lo scrivere in corsivo», lasciando che il maiuscoletto
rimanesse il solo praticato, come mi è capitato di riscontrare presso i miei
studenti universitari sin dalla fine degli anni Ottanta.
Più
di recente, l’universale diffusione di strumenti di scrittura a tastiera
(computer, tablet, smartphone) ha scompigliato le carte, spingendo ad
accantonare anche il maiuscoletto: i bambini imparano spesso a scrivere
direttamente digitando su una tastiera. Se poi devono proprio scrivere a mano
qualcosa, lo fanno in maiuscoletto, ma la frequenza dell’uso di tastiere rende
gradualmente marginale (oltre che ingrato) anche questo compito. Non è più la
mano intera che lavora, ma solo le dita, e solo con la punta.
In
un’epoca come la nostra, tra guerre e disordini geopolitici catastrofici,
occuparsi delle prime fasi della scrittura può sembrare un intrattenimento
superfluo. Ma non è così. Tutto ciò che riguarda la scrittura va guardato con
estremo rispetto. La scrittura, pur essendo relativamente recente (i suoi inizi
non risalgono a molto più di 5.000 anni fa) è infatti una delle nostre
invenzioni più insigni e potenti, perché ha permesso una quantità di
acquisizioni di cui la specie umana si è enormemente avvantaggiata: dalla
trasmissione e conservazione di informazioni alla letteratura, dalla
registrazione di proprietà e oggetti alla messa per iscritto della matematica e
di altri codici simbolici. Col tempo la scrittura ha preso tale importanza che,
nella modernità, l’alfabetismo (che l’inglese chiama più espressivamente
literacy “capacità di scrivere le lettere”) è uno degli indicatori primari del
grado di sviluppo culturale e civile sia del singolo che di un intero paese.
Come
tutte le invenzioni simboliche, però, la scrittura è fragile. Per questo, non
sorprende che, a dispetto dell’importanza che ha assunto nella storia, sia
stata colpita in pieno dall’avvento del digitale (quel che io chiamo di solito
“mediasfera”), considerato che a quel mondo si accede quasi solo scrivendo su
una tastiera. Le pratiche di scrittura ne sono state rimodellate alla radice.
Tutti oggi scrivono sin dall’infanzia su qualche device (smartphone, pc, tablet
ecc.), al punto da dar luogo a uno dei paradossi più singolari della nostra
epoca: sebbene nella storia non si sia mai scritto tanto, il dominio della
scrittura (in tutti i suoi sensi) non si è affatto consolidato. È solo per una
sorta di inerzia lessicale che continuiamo a chiamare “scrittura” un
comportamento che non somiglia in nulla a ciò che, nel tempo, si è indicato con
questo termine. Per questo, se si torna a discutere di scrittura a mano e in
qualche paese si torna ad adottarla come forma primaria di apprendimento, è
importante capire che cosa questo significhi. È utile ricordare che le
invenzioni culturali come la scrittura (e la lettura) si basano su meccanismi
cerebrali che si erano evoluti per tutt’altri scopi, ma che, avendo un certo
margine di plasticità, si sono riconvertiti alle nuove funzioni. Lo stesso
adattamento ha avuto luogo per il linguaggio: l’organismo umano non aveva
nessun circuito neuronale o apparato dedicato per parlare, eppure Homo sapiens
parla. Stanislas Dehaene (del Collège de France), uno dei più brillanti
neuroscienziati europei, ha chiamato questo fenomeno “riciclaggio neuronale”.
Il riciclaggio non ha funzionato però solo per i neuroni, ma anche per la
dimensione motoria: neppure la mano era originariamente fatta per muovere uno
stilo su un supporto piano, ma per prendere, manovrare, tirare, avvitare,
stringere ecc., oltre che per percepire attraverso il tatto. Adattandosi alla
nuova funzione, tutte le sue ventisette ossa lavorano per eseguire la
scrittura, ma senza rinunciare alle loro funzioni evolutivamente primarie.
Insomma,
la scrittura a mano non comporta solo l’attività e l’allenamento di particolari
strutture neuronali, ma anche uno speciale lavoro delle diverse parti della
mano. Ciò vale in particolare per la scrittura corsiva, che nella tradizione
italiana (e di altri Paesi) si presenta nella forma del corsivo inglese:
lettere con curve, anelli, spigoli, riccioli, che possono sporgere sul rigo
verso l’alto e verso il basso e che, soprattutto, si legano tra di loro
mediante tratti appositi (le legature). La mano deve scorrere fluidamente,
seguendo il rigo e attenendosi ai bordi, controllando la pressione, interagendo
con la vista, imparando così gradualmente movimenti dedicati sempre più fini.
Queste operazioni sono ovviamente complesse e, come ho accennato, richiedono un
lungo processo preparatorio. Ma questo sforzo paga: in questo modo il piccolo
umano acquista capacità anche in altri ambiti.
La
scrittura manuale è infatti collegata con altre pratiche fini, che il bambino
ha bisogno di acquisire sin dai primi anni. Comporta per esempio la capacità di
maneggiare gli attrezzi connessi con lo scrivere: penne, gesso, gomme da
cancellare, colla e forbici. Franco Lorenzoni mi ha ricordato che con la
scomparsa della scrittura corsiva «bambine e bambini hanno disimparato ad
allacciarsi le scarpe, ma in questo caso l’industria ha provveduto fornendo a
loro e ai loro genitori scarpe che si chiudono a strappo».
A
un livello più alto, alcune tradizioni di scrittura mostrano il continuum tra
la scrittura a mano e il disegno. Così nella tradizione araba, l’alfabeto
permette legature e fitti intrecci di caratteri, anche di grandi dimensioni,
tanto da poter essere adoperate come decorazioni di monumenti. Nella tradizione
giapponese, legata a una lingua non alfabetica, l’arte della scrittura (lo shod
“via, metodo della scrittura”) può essere praticata da esperti calligrafi anche
in piedi, muovendo verticalmente un lungo pennello sul foglio poggiato in
terra.
I
collegamenti sono quindi fitti e ramificati e riguardano tanto i livelli
pratici del vivere quanto le funzioni superiori. Gli studi di Hetty Roessingh e
collaboratori (University di Calgary, Canada) hanno messo in evidenza che la
scrittura corsiva a mano interagisce in modo significativo con diverse attività
cognitive: per esempio favorisce nell’infanzia testi scritti di migliore
qualità e realizzati con maggior fluidità. Benché lenta, di faticosa
acquisizione e implicante controllo costante, la scrittura corsiva a mano porta
troppi vantaggi per lasciarla scomparire. Sarà bene pensarci anche in Italia.
www.avvenire.it
Nessun commento:
Posta un commento