- di Massimo
Recalcati
Manca
in Italia una legge sul fine vita. Non è solo un vuoto legislativo, ma
soprattutto un’assenza colpevole della politica ad intraprendere una battaglia
finalmente decisa e risolutiva su questo tema.
Non
fu così per la legge sul divorzio né per quella sull’aborto per le quali, com’è
noto, una ampia mobilitazione delle forze progressiste del nostro paese rese
possibile l’acquisizione di quei diritti.
Sul
tema del fine vita, invece, un silenzio increscioso. Solo le Associazioni, come
quella che porta il nome di Luca Coscioni, o l’intraprendenza coraggiosa di
singoli come Marco Cappato, provano in tutti i modi ad allertare il
legislatore. Ma non sarebbe compito della politica, nella sua accezione più
nobile, porre con forza il problema della tutela della dignità del fine vita in
una agenda dei diritti che riguardi finalmente, come accadde anche per il
divorzio e per l’aborto, la vita civile di un intero paese e non quello di
alcune minoranze (con la precisazione ovvia che una democrazia si valuta
soprattutto da come tutela i diritti delle minoranze)?
Freud
aveva affermato, di fronte allo scoppio della prima guerra mondiale, che gli
esseri umani si tengono lontani dalla morte, operando una sorta di rimozione
collettiva inconscia. Accade come se la dignità della vita alla sua fine
dovesse restare fuori discorso, impronunciabile, senza parole possibili, senza
spazio di dibattito pubblico, in un tempo maniacale, come il nostro, che
vorrebbe, appunto, cancellare la morte dal suo orizzonte. Perché preoccuparsi
della fine della vita, di coloro che sono caduti nell’incubo di una malattia
incurabile, nello strazio della sofferenza senza speranza, nell’atrocità della
mutilazione, nell’immobilità forzata, nell’umiliazione di una vita ridotta a
non essere altro che una dolorosa sopravvivenza? Eppure, nella forma umana
della vita, la morte non è, come diceva Heidegger, semplicemente l’ultima nota
della melodia dell’esistenza, ma una “imminenza sovrastante” che ci accompagna
sin dal primo respiro. Essa non è semplicemente qualcosa che attende la vita
dal di fuori, ma il nostro destino più proprio. È, dunque, questo destino a
renderci profondamente umani. Non dovremmo provare allora, a partire da questo
comune destino, a ripensare laicamente la dimensione della fratellanza? Di
fronte ad una sofferenza che non conosce possibilità di trattamento, ad una
vita mantenuta viva dalle macchine della scienza, ridotta ad un respiro senza
desiderio, non siamo chiamati ad un movimento collettivo di solidarietà che non
significa solo assicurare le cure anche quando le possibilità terapeutiche sono
esaurite, ma donare, a chi lo chiede consapevolmente, il sollievo della morte?
All’origine
dello Stato moderno, Hobbes aveva teorizzato che a fondamento della vita civile
vi fosse la paura della morte, la necessità di proteggersi dalla guerra di
tutti contro tutti. Se lo stato di natura è quello dell’homo homini lupus,
il potere del Leviatano interviene contenendo questa spinta, arginando con la
forza del diritto la violenza che spinge gli uni contro gli altri. In primo
piano è qui la paura della morte che è all’origine della pulsione securitaria
che istituisce la comunità umana come difesa dalla minaccia della violenza: la
cessione di una quota di libertà individuale avviene in cambio della protezione
della vita. Ma non dovremmo invece pensare in tutt’altro modo il nostro
rapporto collettivo con la morte? Non tanto come paura dell’uno nei confronti
dell’altro, ma come principio di una più profonda solidarietà umana, nel
riconoscersi fratelli che condividono lo stesso destino mortale.
Come
se dovessimo sostituire il Leviatano di Hobbes con il grido di Giobbe, il quale
incontra nella sua vita il dramma della caduta e della perdita,
dell’ingiustizia atroce della sofferenza. Perché andrebbe ricordato che
purtroppo non esiste affatto diritto alla salute, ma solo diritto alla cura.
Nessun
diritto può, infatti, garantire la vita in salute perché il male non può essere
governato in modo integrale e la morte non può essere evitata. Ma proprio per
questa ragione prendersi cura dovrebbe essere l’atteggiamento fondamentale
dell’umano nei confronti del fratello. Siamo tutti uguali di fronte alla
signoria della morte, ma esistono limiti nella sopportazione della sofferenza
che non possono rispondere a criteri universali.
Prendersi
cura significa considerare questo fatto basilare: di fronte ad un dolore senza
speranza e di fronte ad una vita resa disumana dalla malattia, ciascuno ha il
diritto di riconoscere il limite sin dove spingere la sua capacità di
resistenza, ciascuno ha diritto a riconoscere la propria resa come salvaguardia
della sua dignità.
Alzogliocchiversoilcielo- Repubblica
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