e solidarietà di ogni
cristiano"
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di
JOSE’ TOLENTINO DE MENDOCA *
I tempi liturgici forti
sono entrati così profondamente nell’orbita della cosiddetta “religione
secolarizzata”, dove l’espressione commerciale con il suo potere consolatorio
diventa sempre più preponderante, che quasi ne viene omessa la componente
religiosa. Tuttavia, più che dichiarare una guerra tra cattedrali e centri
commerciali, solo per prendere due rappresentanti del contrasto, è importante
riconoscere la necessità di una riflessione sull’odierno fenomeno di “bricolage
del religioso”, che non necessariamente va letto come sottrazione. Eppure, per
i cristiani rimane un problema il fatto che la celebrazione della fede stia
diventando culturalmente clandestina, che non dica più nulla alla città, come
si trattasse di una questione extra muros. È vero che si potrebbe interpretare
questa crescente indifferenza come una restituzione di libertà ai riti
cristiani, i quali, senza interferenze esterne e senza il rumore del mondo,
potrebbero forse essere celebrati con ritrovata integrità.
Per il cristianesimo,
però, anche quando vissuto come esperienza spirituale di piccole comunità, il
mondo non è mai un rumore: il mondo rimane una dimora dove trovare posto.
Dimora provvisoria, è vero, ma per i cristiani lo è nella stessa misura in cui
essa lo è per tutti gli altri esseri umani sulla terra. E non è mai superfluo
insistere sul fatto che il patrimonio delle religioni ha molto da rivelare alla
cultura contemporanea su ciò che essa stessa, sempre più anonimamente,
trasporta. Per la cultura, ignorare il religioso significa ignorare sé stessa.
Per questo non sarà mai Venerdì Santo solo nelle chiese. Ogni volta che si
celebra la morte di Gesù, essa avviene nel mondo e riguarda il mondo. Dio va
incontro a tutti. La croce ci insegna la solidarietà estrema di Dio e mostra
fino a che punto egli è disposto a spingersi.
Uno dei caratteri più
radicali del cristianesimo è l’aver disattivato le forme religiose di
sostituzione. Se pensiamo agli altari dell’antichità pre-cristiana, essi sono
ricolmi di sacrifici e olocausti, ed erano regolati da un potente sistema
rituale che garantiva che quegli animali immolati sostituissero i loro
offerenti, ne tenessero il posto, adempissero nell’immolazione il voto che gli
umani avevano fatto.
Per capire la radicalità
del cambiamento cristiano in proposito, una mappa preziosa è il testo della
Lettera agli Ebrei. Questo scritto, da collocarsi probabilmente in un periodo
precedente all’anno 70 del I secolo, è l’unico luogo del Nuovo Testamento che
attribuisce a Cristo i titoli di «sommo sacerdote» e di «mediatore della nuova
alleanza». L’autore rilegge l’azione di Gesù confrontandola con due
significativi momenti del passato: il patto dell’alleanza che Mosè stabilì sul
monte Sinai, e la cerimonia annuale che nel grande Giorno dell’Espiazione il
sommo sacerdote svolgeva nel tempio. Al Sinai, Mosè ratificò l’alleanza
aspergendo l’assemblea del popolo con il sangue delle vittime sacrificali e
spiegando: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi...»
(Es 24,8). E, in modo simile, il Giorno dell’Espiazione, dopo aver sacrificato
le vittime animali, il sommo sacerdote entrava da solo nel santuario,
raggiungeva il luogo chiamato «Santo dei Santi», e lo aspergeva con il sangue,
operando così la purificazione dai peccati del popolo (Lv 16).
La visione della Lettera
agli Ebrei va in un’altra linea, in quanto dichiara: «È impossibile che il
sangue di tori e di capri elimini i peccati» (Eb 10,4). Riconosce così
l’inefficacia dei sacrifici di sostituzione per poter accedere a Dio. L’autore,
infatti, mette in bocca a Gesù queste parole: «Tu non hai voluto né sacrificio
né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né
sacrifici per il peccato. Allora ho detto: “Ecco, io vengo – poiché di me sta
scritto nel rotolo del libro – per fare, o Dio, la tua volontà”» (Eb 10,5-7).
Cristo diventa «il sommo sacerdote dei beni futuri» non con il sangue di capri
e vitelli, ma con l’offerta di sé stesso, «l’offerta del corpo di Gesù Cristo,
una volta per sempre» (Eb 10,10).
Per questo è importante
ricordare che la condanna a morte di quel profeta chiamato Gesù di Nazaret, la
cui esecuzione su una croce apparve come un fatto rigorosamente profano, un
evento di banale cronaca penale, di nessun’altra rilevanza, era in realtà il
momento definitivo in cui la realtà dell’amore, il radicale dono di sé
dell’amore autentico, dissolveva il sistema della sostituzione. È il motivo per
cui il Vangelo di Matteo scrive che, quando Gesù spirò appeso a una croce, «il
velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra tremò, le rocce
si spezzarono» (Mt 27,51). L’umanità di Gesù, il modo in cui egli visse la sua
umanità, diventa il vero tempio. Così come il vero culto diventa quello
esistenziale.
Come ha incisivamente
osservato il filosofo René Girard, Gesù svuota il paradigma della religione
sacrificale, la logica di violenza contenuta nelle contese mimetiche, come pure
il meccanismo dell’attribuzione arbitraria della responsabilità all’altro, che
serve solo a sopprimerlo dalla nostra vita (il meccanismo del capro
espiatorio). Sulla croce queste logiche s’infrangono. Cristo offre sé stesso,
porge l’altra guancia, fa trionfare il perdono invece della vendetta.
La croce di Cristo
esprime in modo scandalosamente nuovo lo spazio di Dio nel mondo. È una chiave
ermeneutica differente per l’interpretazione del divino. Dio non rimane a
distanza, indifferente al mondo e alle sue convulsioni. La confisca
dell’esistenza è la condizione abbracciata in prima persona da Colui che è
stato appeso alla croce. Così, nessun dolore, nessun pianto, nessuna paura,
nessun confinamento gli sono indifferenti. Le questioni che questo Venerdì
Santo solleva non sono, dunque, minoritarie e complicate questioni religiose
che riguardino soltanto i cristiani. Sono un dibattito necessario sul
significato dell’umano e su quello che ci salva.
Ciò detto, bisogna
aggiungere che entrare in una chiesa il Venerdì Santo è un’esperienza che può
solo lasciare attoniti. Guardiamo il tabernacolo, ed è aperto e vuoto, come
fosse stato spogliato. L’altare non ha tovaglia né ornamenti: solo la nuda
pietra. Se cerchiamo una croce, non la troviamo: è stata rimossa, o nascosta
allo sguardo da un velo. Siamo lì come fossimo in un qualche luogo sperduto,
frugando tra il silenzio e le macerie. Ci troviamo in una situazione parallela
a quella descritta nel Vangelo di Giovanni quando i messaggeri vestiti di
bianco chiedono alla Maddalena: «“Donna, perché piangi?”. Rispose loro: “Hanno
portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto”» (Gv 20,13).
È vero che troppe volte
il cristianesimo (il nostro, per lo meno) corre il rischio dell’eccesso: troppe
parole, accumuli di simboli e di ritualismi... Il giorno del Venerdì Santo è
l’opposto: avviene una drammatica riduzione. Lo spazio religioso si svuota fino
all’osso; diventa semplicemente anonimo; nulla lo distingue da qualsiasi altro
luogo desolato sulla terra. La liturgia che si celebra in quest’occasione
inizia con un silenzio rigoroso, e quando i presbiteri arrivano nella zona
dell’altare si prostrano a terra, giacendovi a lungo, come inanimati, mimando
con il proprio corpo l’abbandono che tutta la comunità è chiamata a
sperimentare. Che fitto enigma è questo? Dove ci porta questo procedere
incerto, questa celebrazione così spoglia, questo radicale denudamento? L’unica
risposta è: ci porta al nocciolo ardente dei misteri cristiani, che in verità
sono puro scandalo, stordimento e follia, poiché i cristiani credono in un
Messia crocifisso, in un Salvatore che salva non attraverso la forza, ma
attraverso l’impotenza. È ciò che san Paolo esplicita nella Prima Lettera ai
Corinzi: «Noi annunciamo Cristo crocifisso: scandalo… e stoltezza» (1Cor 1,22).
Davvero il cristianesimo
opera una coraggiosa inversione di paradigma: mentre la religiosità naturale
porta l’uomo a cercare un Dio potente in aiuto alla sua vulnerabilità, il
cristianesimo rinvia continuamente l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio.
In questo caso, la fede cos’è? La fede è prendere parte alla sofferenza di Dio
nel mondo, abbracciando e prendendosi cura di ognuno che soffre, facendosi
carico solidariamente della responsabilità di questa storia, credendo che nel
mistero pasquale essa diventa stagione e promessa della storia della salvezza.
*Cardinale Prefetto del
Dicastero della Cultura ed Educazione
Fonte: Avvenire
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