Pubblichiamo, per gentile concessione dell’Ufficio per la Pastorale della
cultura della diocesi di Palermo, il testo di Giuseppe Savagnone sulla reazione
dei vescovi delle diocesi siciliane al ddl Calderoli (sulla «autonomia
differenziata» delle regioni), già approvato in Senato (23 gennaio) e ora in
discussione alla Camera. Questo articolo sarà in seguito pubblicato nella
rubrica «I chiaroscuri» che l’autore firma per il sito della Pastorale della
cultura.
- di Giuseppe Savagnone*
Ha
destato una notevole eco sulla stampa (con l’eccezione dei giornali
governativi) il comunicato stampa dello scorso 5 marzo, con il quale i vescovi
di Sicilia hanno preso posizione nei confronti del disegno di legge sulla
autonomia differenziata, attualmente in discussione alla Camera dopo
l’approvazione in Senato, il 23 gennaio scorso.
Sarebbe
riduttivo vedere in questo documento una semplice preoccupazione per gli
interessi della Sicilia. Esso va letto alla luce della grande attenzione che la
Chiesa italiana ha manifestato, alla fine del secolo scorso e nei primi anni di
questo, ai rapporti fra le diverse aree del nostro paese, e in particolare tra
Settentrione e Meridione.
Non
si può infatti dimenticare che il tema dell’autonomia delle regioni si
intreccia strettamente con quella che una volta veniva chiamata «questione
meridionale». Lo evidenzia, se non altro, il fatto che a chiedere con
insistenza la riforma sono le prospere regioni del Nord, anche se quelle del
Sud, almeno quelle governate da maggioranze di destra, Sicilia compresa, si
sono dette anch’esse favorevoli.
Lo
sfondo dottrinale
Forse
non tutti ricordano che su questa complessa problematica la Conferenza
Episcopale Italiana ha sentito l’esigenza di pronunziarsi con due ampi
documenti, Chiesa italiana e Mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà, del 1989,
e Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, del 2010, che
autorevolmente leggono la questione alla luce della dottrina sociale cattolica
e meritano perciò, soprattutto in questo momento, l’attenzione di tutti, e in
particolare dei credenti.
In
entrambi questi documenti il punto fondamentale su cui i vescovi poggiavano la
loro riflessione era che «il paese non crescerà se non insieme» e che «il bene
comune è molto di più della somma del bene delle singole parti» (Per un Paese
solidale, n.1).
Siamo
lontanissimi, però, da un cieco statalismo, che i cattolici italiani hanno
sempre strenuamente combattuto fin dal tempo del Risorgimento. Nella
Costituente sono stati loro a volere introdurre nella Costituzione repubblicana
il regionalismo. E il principio di sussidiarietà, oggi spesso invocato in sede
sia nazionale che europea, ha la sua prima matrice proprio nell’insegnamento
sociale della Chiesa. A questo proposito si ricordava, nel secondo documento
della CEI, «la sempre valida visione regionalistica di don Luigi Sturzo e di
Aldo Moro» (n. 8). Alla luce della loro storia, nessuno è meno sospetto dei
cattolici di voler misconoscere i valori e le esigenze differenziate delle
diverse regioni italiane.
Ciò
che i vescovi hanno voluto combattere, già dalla fine del secolo scorso, è
piuttosto una deriva culturale che «ha fatto crescere l’egoismo, individuale e
corporativo, un po’ in tutta l’Italia, con il rischio di tagliare fuori il
Mezzogiorno dai canali della ridistribuzione delle risorse, trasformandolo in
un collettore di voti per disegni politico-economici estranei al suo sviluppo»
(n. 5). Il silenzio calato sulla questione meridionale era ai loro occhi un
indizio inquietante dell’eclisse del senso del bene comune che si è registrata
in questi ultimi anni in Italia.
È
dunque in nome di questo bene comune e della solidarietà da esso richiesto che
la Chiesa fissava, già nel 2010, dei limiti precisi alle autonomie reginali.
Perché, se la solidarietà richiede sempre la sussidiarietà, è vero anche il
reciproco: «La prospettiva di riarticolare l’assetto del Paese in senso
federale costituirebbe una sconfitta per tutti, se il federalismo accentuasse
la distanza tra le diverse parti d’Italia». Ciò che serve, sottolineavano i
vescovi, è un «federalismo solidale», che «rafforzerebbe l’unità del Paese,
rinnovando il modo di concorrervi da parte delle diverse realtà regionali».
Secondo
la Conferenza Episcopale Italiana «un sano federalismo rappresenterebbe una
sfida per il Mezzogiorno e potrebbe risolversi a suo vantaggio», costringendo
in qualche modo gli amministratori meridionali a «rendersi direttamente
responsabili della qualità dei servizi erogati ai cittadini». Ma «l’impegno
dello Stato deve rimanere intatto (…) per evitare che si creino di fatto
diritti di cittadinanza differenziati a seconda dell’appartenenza regionale»
(n. 8).
La solidarietà nazionale compromessa
È
su questo sfondo che va letto il comunicato dei vescovi siciliani. In esso la
critica fondamentale al DDL sull’autonomia differenziata è di non tener conto
degli «squilibri strutturali ed economici fortemente presenti nel meridione e
che potrebbero portare a colpire in modo grave l’unità nazionale in favore di
preoccupanti spinte secessioniste istituzionalizzate». Invece di favorire una
sussidiarietà al servizio della solidarietà, la riforma rischia, secondo loro,
di dissolvere l’unità nazionale in nome degli interessi particolaristici di
alcune regioni.
In
questa logica, nel documento della Conferenza Episcopale sicula si sottolinea
che «la differenziazione è da considerarsi come un corollario del principio di
sussidiarietà» all’interno di un quadro nazionale unitario, e che perciò «la
dislocazione differenziata di funzioni legislative in singole Regioni non è
affatto (…) un “diritto” di alcune Regioni (o dei loro “popoli”)».
E
in questa luce si comprendono le «criticità» del ddl in esame alla Camera
segnalate nel comunicato dei vescovi. Ne sono un esempio, secondo loro, «le
modalità di finanziamento delle funzioni attribuite» alle regioni autonome,
previste agli art. 5 e 6.
Il
ddl prevede che questo finanziamento avvenga «attraverso compartecipazioni al
gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale». Ma
«la compartecipazione si collega alla produttività dei territori regionali, con
la conseguenza che territori maggiormente produttivi avrebbero introiti
maggiori di altre realtà territoriali con una produttività storicamente ridotta
e ciò trasformerebbe la differenziazione in diseguaglianza con l’evidente
rischio di colpire concretamente la coesione dei territori mettendo in grave
pericolo l’unità nazionale».
Questo
pericolo, si osserva nel comunicato, è ancora più evidente se si considera che
«nell’art 10, dedicato alle misure perequative, non v’è traccia di fondo
perequativo di solidarietà nazionale che permetta di riequilibrare le forti
disomogeneità territoriali». Su questo punto i vescovi siciliani sono molto
chiari: «Fino a che le regioni del meridione non raggiungono, con un fondo
dedicato, almeno la media della capacità fiscale nazionale per abitante non si
può affrontare per nessuna regione il tema dell’autonomia differenziata a meno
che non si preveda un fondo di solidarietà nazionale vincolato a sanare le
disparità delle capacità fiscali territoriali».
E
aggiungono: «Anche la riduzione del cosiddetto “Fondo complementare” da 4
miliardi e 400 milioni di euro, a poco più di 700 milioni di euro rappresenta
un ulteriore rischio per le regioni più povere».
Le
«criticità» relative ai LEP
Da
parte della maggioranza si insiste sempre sulla garanzia rappresentata dai LEP
(livelli essenziali delle prestazioni), che dovrebbero essere determinati prima
di procedere alla realizzazione della riforma. Ma nel comunicato dei vescovi
proprio il tema dei LEP è considerato motivo di ulteriore «criticità». Innanzi
tutto, perché nel ddl «manca un esplicito e necessario richiamo all’art. 2
Cost. fonte del dovere di solidarietà sociale in favore dei soggetti meno
abbienti, che costituirebbe un ulteriore e migliore ancoraggio costituzionale
anche a garanzia e vincolo nella determinazione dei LEP».
Inoltre,
in riferimento all’art. 3 del ddl, si fa notare che «appare poco prudente la
scelta di consentire al Governo di adottare dei decreti legislativi per la
determinazione dei LEP posto che con tale scelta il Parlamento, attraverso
delle Commissioni, potrà soltanto esprimere un parere su quanto deciso dal
Governo ed in caso di silenzio il Decreto legislativo potrà essere comunque
adottato».
Le
conseguenze per la Sicilia (e per le altre regioni di difficoltà)
È
in questo contesto più ampio, e che riguarda tutto il nostro paese, che i
vescovi siciliani guardano alle conseguenze per l’Isola del passaggio a «uno
Stato “Arlecchino”», facendo notare «che secondo degli studi fatti dalla
Ragioneria Generale dello Stato, la Sicilia perderà 1 miliardo e 300 milioni di
euro circa l’anno: un impatto disastroso per una economia già in grande
sofferenza».
Infine,
sempre per quanto riguarda la Sicilia, regione a Statuto speciale, il
comunicato fa presente che, prima di perseguire ulteriori forme di autonomia
differenziata, bisognerebbe che venisse effettivamente realizzato il dettato
dello Statuto della Regione siciliana che, all’art. 38, prevede:
«1.
Lo Stato verserà annualmente alla Regione, a titolo di solidarietà nazionale,
una somma da impiegarsi, in base ad un piano economico, nella esecuzione di
lavori pubblici. 2. Questa somma tenderà a bilanciare il minore ammontare dei
redditi di lavoro nella Regione in confronto della media nazionale. 3. Si
procederà ad una revisione quinquennale della detta assegnazione con
riferimento alle variazioni dei dati assunti per il precedente computo».
«Quindi»,
osservano i vescovi, «oltre che rilevare ciò che di critico esiste nell’attuale
riforma, la classe dirigente politica siciliana dovrebbe chiedere al governo
nazionale l’attuazione completa dello statuto e non sprecare le risorse in
dotazione».
L’ultima
frase accenna – per la verità forse troppo di passaggio e timidamente − al
grande problema che fa da contraltare alle sperequazioni della riforma e che da
sempre viene segnalato, sia a livello di CEI che di CESi, e che è quello delle
responsabilità della classe politica del Meridione e di quella siciliana in
particolare.
Già
nel documento della Conferenza Episcopale Italiana del 1989 si diceva
chiaramente: «Sono necessari, e doverosi, l’aiuto e la solidarietà dell’intera
Nazione, ma in primo luogo sono i meridionali i responsabili di ciò che il Sud
sarà nel futuro» (n. 15).
La
soluzione non può essere l’assistenzialismo. L’aiuto che il Paese può e deve
dare al Sud è di stimolarlo a trovare in se stesso le energie e le risorse per
uscire dal degrado. E ciò richiede un impegno dei cattolici per rinnovare una
classe politica meridionale che, al di là delle contrapposizioni partitiche,
risente ancora spesso di un invasivo stile clientelare, in cui affonda le sue
radici la presenza della mafia.
Ma
il rimedio a questo non è certo una dissoluzione dell’unità nazionale, che
rischia di consegnare il Sud alle sue peggiori derive.
*Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo
Nessun commento:
Posta un commento