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giovedì 22 febbraio 2024

EDUCARE ALLA SPERANZA


LA PERFEZIONE 

E' 

NEMICA DEL BENE

 

L’esperienza in un quartiere “difficile” aiuta a comprendere come dovremmo immergerci nella realtà, senza alcun timore.

Così un prete di periferia ci insegna che la perfezione è nemica del bene: Don Giorgio mi ha fatto capire che lavorare con i poveri è una grande sfida e che bisogna convivere con molti limiti. Così deve essere anche per i docenti, che non devono mai arrendersi

 

-         di MARCO ERBA

 Da diversi anni, grazie anche a Papa Francesco, si è tornati a parlare di periferie come luoghi da cui ripartire in quanto predilette dal Vangelo. Più che situazioni di predilezione, lo confesso, mentre guidavo verso la casa di don Giorgio notai molte difficoltà, che mi inquietarono parecchio. Don Giorgio è un prete di periferia per vocazione. Ha sempre svolto il suo ministero nei quartieri più difficili di una grande città. Lo avevo conosciuto quasi per caso, lui mi aveva invitato a cena e quella sera stavo andando per la prima volta nel suo quartiere. Tra i palazzoni c’era un gruppo nutrito di ragazzi ubriachi appollaiato sulle panchine vicino a un’area cani, che infastidiva pesantemente i passanti. Più avanti, i venditori di mimose (era l’8 marzo) commerciavano fianco a fianco con gli spacciatori, senza che nessuno intervenisse. 

Erano situazioni inconsuete per me, che da sempre vivo in un Comune benestante e che non ho mai lavorato in scuole di estrema frontiera. P archeggiai l’auto, suonai il citofono. Don Giorgio mi aprì, sorridente. Don Giorgio è una persona estremamente accogliente. Ha la passione della cucina: quella sera servì per cena a me e a una comune amica, anche lei ospite da lui, piatti prelibati: risotto giallo con ossobuco e una strepitosa torta fatta in casa. Parlammo a lungo di molte cose. Gli chiesi della periferia, di com’era essere prete lì. Mi raccontò del suo ministero sempre sul campo, della sua casa sempre aperta, degli orari che spesso saltavano, perché i bisogni impellenti di chi è davvero in difficoltà non si possono programmare in un’agenda. Parlammo dei poveri: mi colpì molto il suo punto di vista. Io, da esterno a quel mondo, da un lato ne ero impaurito, dall’altro tendevo a idealizzarlo. 

Don Giorgio fu estremamente concreto: disse che lavorare coi poveri era una grande sfida, che la povertà culturale e quella sociale andavano spesso di pari passo, che bisognava convivere con molti limiti, che non si doveva pensare a chissà quali cambiamenti repentini e miracolosi, né ci si doveva sentire eroi per essere impegnati lì. Però disse anche, senza nessuna retorica, che quei quartieri potevano essere un terreno fertile, che si creavano relazioni dirette e autentiche, senza alcuna finzione, che chi era in difficoltà era capace talvolta di profondissima riconoscenza e che potevano sbocciare cammini di autentico riscatto.

 Oltre alle parole di don Giorgio, mi colpirono tantissimo i suoi coinquilini. Il primo in cui mi imbattei fu un gioviale gatto bianco e arancione che aveva l’encefalite: camminava tutto storto, sbagliava mira quando doveva saltare sul divano e sbatteva contro i cuscini. “L’ho trovato così, non posso mandarlo via” commentò don Giorgio. Il secondo coinquilino era un cagnolone nero a pelo lungo, che mi fece mille feste non appena entrai in casa. Mi chinai e lo accarezzai: mi lasciò fare, compiaciuto: “Meno male che gli sei simpatico: altri non vengono accolti così bene, anzi” commentò don Giorgio. Rabbrividii: meno male, già. Scoprii che il cagnolone era un randagio di cui nessuno si curava, raccattato durante un viaggio all’estero da don Giorgio, al quale il cane si era avvicinato. Erano diventati subito amici: don Giorgio lo aveva fatto salire in macchina e lo aveva portato in Italia. Pensavo che le sorprese fossero finite: mi sbagliavo. Mentre ci sedevamo a tavola, la porta di casa si aprì ed entro un giovane coi capelli corti, la carnagione scura e una voce profonda e melodiosa. Parlava perfettamente l’Italiano, ma capii subito che era di origini straniere: quando ci stringemmo la mano e ci presentammo, il suo nome me lo confermò. La sua storia era incredibile. Era cresciuto in una zona di guerra. Entrambi i suoi genitori non c’erano più. Aveva vissuto senza punti fermi, aveva commesso errori, compiuto azioni dannose per sé e per gli altri.

Poi i cammini di don Giorgio e di quel giovane si erano incrociati. Don Giorgio l’aveva accolto in casa, si era preso cura di lui, era diventato un punto di riferimento fondamentale. Gli aveva dato fiducia: aveva colto la scintilla di bellezza che c’era in lui e le aveva dato spazio. Gli aveva donato un’altra occasione, credendo in ciò che quel giovane avrebbe potuto fare, senza restare inchiodato al suo passato. Q uel giovane aveva ritrovato la strada, prima smarrita a causa del dolore. Il dolore era rimasto, ma non gli aveva impedito di andare avanti. La fiducia incondizionata di don Giorgio, una fiducia a perdere, aveva permesso a quel giovane di compiere passi avanti, uno dopo l’altro, prendendo un ritmo sempre più spedito. Lo si vedeva dal suo sguardo, segnato dalle ferite, ma anche pieno di una luce potente, di una indistruttibile forza.

 « Aspetta», mi disse il giovane, « voglio farti vedere una cosa». Tornò con un volume rilegato. Era la sua tesi di laurea in Scienze dell’educazione, nella quale parlava anche di un pezzo della sua storia. Scoprii che quel giovane faceva l’educatore in periferia. Incontrava molti ragazzi difficili e riusciva a intercettarli: li capiva, era sulla loro stessa lunghezza d’onda: il suo vissuto complicato gli permetteva di entrare in sintonia con loro e di accompagnarli. Il suo dolore era diventato un ponte verso di loro, uno strumento di condivisione. Le sue ferite erano fiorite per altri. Don Giorgio gli aveva dato fiducia e gli aveva permesso di salvarsi: ora quel giovane dava fiducia ad altri e permetteva loro di salvarsi. T ornando a casa alla fine di quella incredibile serata pensai che, davvero, la periferia poteva essere un luogo prediletto. Prediletto con tutti i suoi limiti, proprio per i suoi limiti, che mostrano la tenacia della vita e come il futuro, comunque, possa riuscire a farsi strada. La grande tentazione di chi educa è l’ideale di perfezione che troppo spesso abbiamo in testa. Vorremmo studenti impegnati e diligenti, classi silenziose e partecipi, scuole pulite e ordinate, adulti dialoganti e disponibili. Ma le cose non vanno mai così, e allora ci lamentiamo.

 La lamentela prolungata però spinge ad alimentare quell’ideale di perfezione irraggiungibile di cui diventiamo dipendenti, ci toglie forza, ci fa credere che tanto tutto sia inutile. Finiamo così con il non vedere la ricchezza che c’è per rimpiangere una perfezione che non esiste. Per questo la periferia è un luogo prediletto: perché ci costringe, volenti o nolenti, a immergerci nella realtà così com’è, a contaminarci positivamente con essa, a sporcarci le mani per scovare le perle nel fango. La periferia ci mette duramente alla prova, ma riaccende la voglia di futuro, togliendo dal nostro orizzonte i mondi perfetti che sono solo miraggi fuorvianti nella nostra testa. L a periferia è salutare e riguarda tutti. Quel giorno mi resi conto di molte periferie che sono dentro e fuori di me, nei miei atteggiamenti e nelle persone o situazioni che incontro. Le vidi distintamente: nella nuova luce di don Giorgio e della sua strana famiglia, almeno per quella sera, mi parvero opportunità straordinarie, sfide avvincenti. Perché la salvezza è proprio lì: in un quartiere difficile, in una casa dove un prete dal cuore grande, un ragazzo che ha trasformato il dolore in dono, un gatto con l’encefalite e un cane randagio vivono insieme, in un equilibrio strano, ma armonioso.

La salvezza non sta nei nostri ideali astratti, ma abita nelle nostre splendide imperfezioni.

 *Insegnante e scrittore

 www.avvenire.it

 

 

 

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