La realtà materiale delle cose va riconquistata.
E il mondo digitale va capito e affrontato
(LaPresse)
- di Alessandro Artini
La scuola in presenza non comporta
solamente una didattica più appropriata e più proficua per gli apprendimenti,
ma molto altro. Certamente essa rappresenta il contesto più efficace per la
socializzazione, che sappiamo attuarsi nello spazio della prossimalità. La
socializzazione (che riguarda i comportamenti, i valori, gli orientamenti e che
è diversa dal semplice “fare amicizia”) è un ingrediente essenziale per la
crescita degli alunni, ma è anche indispensabile per gli apprendimenti, perché
si impara meglio con gli altri, scambiandosi conoscenze e dubbi, sostenendosi
reciprocamente per gli eventuali errori.
Tuttavia, c’è un aspetto, che spesso
viene trascurato. La scuola è anche il luogo delle cose, seppur disadorne,
essenziali e talvolta malconce, e delle suppellettili che accompagnano la vita
degli alunni e costeggiano le loro biografie. Non importa se le aule non sono
moderne e confortevoli (certamente è indispensabile che siano sicure, se non
belle), ma ciò che conta è che il “clima” delle scuole alimenti il tepore delle
anime, così da favorire l’accendersi della passione per la conoscenza. Quel
“clima”, che si qualifica come organizzativo, si nutre anche delle cose
presenti nelle aule, che costruiscono la familiarità degli alunni con gli
ambienti scolastici.
Già, le cose… Ma che importanza possono
avere esse per gli alunni? Io, che sono andato a scuola intorno alla metà
dell’altro secolo, ricordo ancora il banco di legno a due posti, nel quale ho
trascorso gli anni del liceo con lo stesso compagno di classe. Ricordo, seppur
con qualche trepidazione, la lavagna, sulla quale avvenivano le interrogazioni.
Ebbene, penso che anche per i nostri ragazzi ci sia bisogno della realtà
materiale delle cose, diverse da quelle della loro cameretta o della cucina,
dove per mesi si è svolta la Dad.
Ma le cose, osserva il filosofo coreano
Byung-Chul Han, di formazione tedesca, hanno smesso di vivere nel nostro mondo
reale. Anziché quello delle cose, noi oggi viviamo il mondo digitale di Google
e dei cloud, che prelevano i dati della nostra vita e ce li ammanniscono sotto veste di informazioni. Queste ultime, poi, ci investono quotidianamente con dei
flussi potenti e ininterrotti, al punto che le nostre vite ne vengono
influenzate fortemente.
Ormai a causa di questa infomania, le
nostre energie libidiche hanno abbandonato il mondo delle cose per riversarsi
sul mondo delle non-cose. Infatti, le cose, filtrate dal cellulare e dai
processi d’informatizzazione, non sono più tali, perché sono diventate
informatori che ci sorvegliano e ci influenzano (infomi). Sono diventate
non-cose, elargitrici di informazioni atte a guidare la nostra vita e – come
suggerisce Shoshana Zuboff – la controllano, estraendo ricchezza dai dati che
noi volenterosamente cediamo (Internet of things) alle grandi aziende che
gestiscono i social. Rispetto alle informazioni, non ne abbiamo più il
possesso, ma, eventualmente, l’accesso. Così entriamo nella rete e dolcemente
ne subiamo gli algoritmi. E l’eros, che nutre la passione per il sapere, si
stempera in una blanda affettività, che è quella degli smartphone.
Mentre le cose sono distanti da noi e
per questo ce ne dobbiamo appropriare, il telefonino annulla la distanza di
queste ultime e, tra le nostre mani, annacqua e blandisce lo stupore del reale,
gestito con la digitazione. Mentre il possesso connota il modo profondo con cui
gli uomini entrano in rapporto con le cose, che nella loro materialità sono
oppositive e per questo stimolano il senso umano di appropriazione, le non-cose
non si oppongono, ma suasivamente dilagano nella nostra vita. Tuttavia, senza
la corporeità oppositiva delle prime gli uomini perdono il comune senso della
realtà; il mondo delle seconde sopraffà il reale, i fatti e
perfino la biologia, conducendoci in un’altra realtà, densa di informazioni, ma
sfuggente e nebulosa.
Lo smartphone è paradigmatico, poiché
annulla la distanza dal mondo, mostrandone ingannevolmente la prossimità. Tra
le nostre mani.
Questi – dal punto di vista di
Byung-Chul Han – sono i mutamenti del mondo della vita (Umbrüche
der Lebenswelt, come suggerisce il titolo), che riguardano noi tutti, ma
particolarmente gli adolescenti, sempre più connessi alla rete ma sempre più
soli, secondo lo psichiatra Manfred Spitzer. Una folla solitaria, per usare una
celebre immagine sociologica. Certamente il ripristino della vita autentica
deve attraversare il territorio del frastuono delle informazioni per approdare
al silenzio. È nel contatto con le cose, che si attua il recupero di una nuova
relazionalità e identità. Tutto ciò spiega l’esigenza di un ritorno alla scuola
in presenza. Spiega altresì le ragioni di validità di un’esperienza come quella dell’alternanza
scuola-lavoro, nel corso della quale i giovani apprendono l’uso
lavorativo delle cose.
Tuttavia, la legittima critica al mondo
digitale non può prescindere da una serie di distinguo,
dacché l’esigenza di un recupero dello zoccolo duro del reale non può porre
sullo stesso piano esperienze mediatizzate diverse. Un conto sono quelle che
Bauman definiva come comunità-gruccia, create nella rete, ad esempio, attorno
alle celebrities; ben altro è la partecipazione, seppur filtrata
dalla televisione, a un evento come l’attuale guerra in Ucraina.
Non tutte le esperienze mediate hanno pari valore e i sentimenti che proviamo
per quella vicenda, che sono di paura, di commozione e di solidarietà, assumono
la veste di una “quasi interazione”, carica di dignità e autenticità.
Qualsiasi percorso finalizzato alla
crescita (e al superamento delle difficoltà adolescenziali che, secondo lo
psicologo americano Philip Zimbardo, sono particolarmente evidenti nei maschi)
non può prescindere da questa distinzione, perché, nella postmodernità, accade
che la più parte delle nostre esperienze sia di questo tipo, mentre si riduce
il “faccia a faccia”, che ha caratterizzato l’interazione umana nei secoli.
Molte conversazioni, al cellulare o in chat, avvengono simultaneamente, sebbene
gli interlocutori siano spazialmente lontani. John B. Thompson osserva che l’avvento delle
telecomunicazioni ormai ha prodotto lo sganciamento di spazio e tempo. La
simultaneità, infatti, è despazializzata.
Questo è quello che accade anche con la
Dad, che appartiene a pieno titolo all’esperienza
postmoderna.
Certamente la didattica a distanza deve
essere regolata, sicuramente ridimensionata, ma non rimossa. Adesso, che
siamo tutti in presenza e non vi sono rischi di fraintendimenti, potremmo anche
parlarne. Sempre che il ministero intenda promuovere un tale dibattito.
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