- di GIGIO RANCILIO
Abbiamo un nuovo nemico. Anche se di fatto non è così nuovo. Ma andiamo con ordine. E partiamo da un dato. Soltanto quattro anni fa, secondo un rapporto di Infosfera, l’82% degli italiani non sapeva riconoscere una fake news, cioè una notizia deliberatamente falsa, costruita per infangare un nemico o a scopo di propaganda.
Oggi, secondo l’indagine «Media e fake news» che Ipsos
ha realizzato per Idmo, «il 73% degli intervistati ritiene di essere in grado
di distinguere un fatto reale da una bufala». Se così fosse, la percentuale
delle persone ingannate, sarebbe crollata dall’82% al 27%. Il 55% in meno.
Quest’ultimo studio contiene però anche un altro dato,
forse più importante. Dopo avere affermato «di saper smascherare una bufala»,
alla domanda su quanti sono gli italiani che sanno riconoscere una fake news,
la risposta degli intervistati è che appena il 35% è capace di farlo.
Differenze così importanti si spiegano col fatto che
un conto è ciò di cui siamo convinti (per la serie: io alle bufale non ci
casco, sono gli altri quelli che ci credono) e un altro il nostro reale comportamento
online (caschiamo nelle bufale molto di più di quello che crediamo). Spesso non
lo facciamo apposta. Sono i cosiddetti bias cognitivi che ci ingannano e ci
fanno sbagliare.
C’è poi un altro dato: in questi anni anche la disinformazione ha fatto passi da gigante. Non si usano più notizie completamente false, ma «distorsioni e mezze verità mischiate a frammenti di resoconti autorevoli di eventi reali». Al punto che il nostro nuovo nemico (eccoci al punto iniziale) non è il falso ma il verosimile. Molto più difficile da smascherare. Tanto più se conferma un nostro pregiudizio. Da tempo i neuroscienziati hanno scoperto che uno dei bias che più ci ostacola nel percorso vero la verità è il cosiddetto «bias di conferma». In pratica senza che ce ne accorgiamo diamo molto più credito alle informazioni che confermano una nostra idea o un nostro pregiudizio, mentre tendiamo a non vedere o addirittura rimuoviamo tutto ciò che mette in crisi le nostre idee.
Non è finita. Se da una parte, uno studio condotto da
Merten in 36 Paesi, ha scoperto che «circa un quinto degli utenti dei social
media ha smesso di seguire o ha bloccato account di utenti o pagine di
organizzazioni a causa di ciò che avevano pubblicato», la pur grande
preoccupazione comune per la diffusione delle fake news (ne ha paura quasi il
70% degli utenti social) non ci ha messo al riparo da alcuni comportamenti
sbagliati (che facciamo senza accorgercene).
Per esempio, un recente studio apparso sul «The
Journal of Communication», intitolato «Social influences on the spread of
misinformation on social media» (Influenze sociali sulla diffusione della
disinformazione sui social media») ha dimostrato che non tutti i nostri amici
social hanno la stessa probabilità di essere bloccati o silenziati da noi a
causa delle falsità che pubblicano. E non solo perché ciò che pubblicano in
fondo non è così grave, ma soprattutto perché «li sentiamo più affini a noi e
più vicini politicamente».
Banalizzo un po’. È come quando qualcuno commette un
errore: con chi ci è più vicino (figli, amici, parenti) siamo più garantisti e
tolleranti di quanto non lo siamo con chi non conosciamo o addirittura con chi
percepiamo come una minaccia o un nemico. Per questo se un nostro amico che
sentiamo affine posta sui social «una bugia» tendiamo a lasciar correre.
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