si possono sfidare
La guerra in Ucraina ai ragazzi fa più paura del Covid. Li “inscatola” nel terrore e nella solitudine. Che senza maestri non si trasforma in risorsa, ma in trappola.
- Di Roberto Ceccarelli
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“Non sono mai stato tanto attaccato alla vita”. È
l’appassionata conclusione di “Veglia”, poesia di Ungaretti. La leggo con i
miei studenti in questi giorni di una guerra mai per loro così vicina. Non lo
faccio tanto per confortarli con un lieto fine, ma per captare in me e in loro,
in dialogo con il poeta, ogni più piccola vibrazione dell’umano, una minuscola
eco del cuore che ci permetta di accertare l’esistenza del desiderio d’infinito
anche tra le macerie del momento presente.
Leggo anche “Dannazione”, sempre di Ungaretti, dove il
paradosso si fa ancora più esplosivo. In essa si parla del desiderio di Dio di
chi è “inscatolato” (è di un mio studente) come cosa tra cose mortali: “perché
bramo Dio?”.
Tutti i miei studenti si sentono misteriosamente
attratti da questi versi finali così spiazzanti, che pro-vocano, chiamano
fuori. Qualcuno se ne difende con una delle armi di cui abbiamo dotato molti
dei nostri giovani: lo scetticismo. E magari cerca di smorzarne l’urto,
arrampicandosi su improbabili analisi geopolitiche. In entrambi i casi, però,
sia che si rimanga stupiti sia che si tenti la fuga intellettualistica, la
reazione indica che la provocazione è arrivata: come si può amare la vita,
“bramare” addirittura Dio – un puro nome ormai, ma a cui, pur confusamente,
molti ragazzi associano ancora un’idea di bene, di perfezione, di pace – se
tutto intorno sembra morte? Chi è questo essere umano che sperimenta in sé la
sete d’infinito e insieme l’agghiacciante sentimento della fine? Se lo chiedono
i ragazzi; me lo domando anch’io con loro perché accuso la stessa vertigine.
Ma dopo il primo impatto la riflessione fa fatica a
svilupparsi, perché c’è tanta paura nei miei studenti, ormai denunciata
apertamente ai compagni senza remore di essere derisi. E la paura fa
letteralmente scandalo, ostacola il cammino della conoscenza. È un senso di
smarrimento e ansia che prende allo stomaco e disabilita la ragione. Non a caso
l’aggettivo più usato nei dialoghi in classe a proposito della guerra è
“assurda”, cioè stonata, un “discorde accento” non riducibile agli scadenti
schemi logici tipo causa-effetto ai quali noi adulti li abbiamo abituati in
famiglia e a scuola per interpretare comodamente il mondo e attutire l’urto del
reale. E hanno ragione, non ci sta proprio la guerra nella misura del loro già
conosciuto. Come non riesco io stesso a comprenderla. Insieme, siamo davanti al
mistero del nostro essere. Questa, forse, è la scuola, o dovrebbe.
La guerra ai ragazzi fa più paura che il Covid. Il
virus è un nemico terribile sì, ma percepito come “esterno”, una catastrofe
naturale davvero imprevedibile e spaventosa, ma non imputabile, almeno
direttamente, all’uomo. La guerra è tutta responsabilità nostra invece, frutto
amaro della nostra libertà, nasce dalle nostre mani insanguinate. Essa rende
palese ai ragazzi quel mysterium iniquitatis che non si vorrebbe mai ammettere,
per cui desideriamo tutti la pace perché è un bene, ma facciamo la guerra che è
il male. Perché l’uomo vuol tanto male a sé e ai suoi simili? E, soprattutto,
“chi mi libererà da questo male” se siamo proprio noi a farlo?
Ecco, questo è il punto infiammato che può veramente
generare terrore nei ragazzi, oggi più che in passato: la consapevolezza, già
implicita nella domanda, che la soluzione non può venire dall’uomo, dagli
altri, dai miei genitori, dai miei amici, dalla mia ragazza, dalla scuola,
dalla scienza (come poteva sembrare con il virus), dal potere eccetera. Non
basta tutto questo a togliere dal mondo il male generato dall’uomo. Sono toppe
su un vestito vecchio.
I giovani, che non sono affatto insensibili come
spesso si crede, lo avvertono bene. Anche perché, per molti di loro la guerra
non è che lo sviluppo mostruoso e su larga scala di una violenza magari non
sempre fisica ma già ampiamente sperimentata, subita – o esercitata anche –
proprio da e con chi gli è più prossimo. In fondo, la guerra, non è che
l’ennesima dimostrazione dell’inganno di cui si sentono spesso vittime: essere
stati messi al mondo da soli a sopravvivere.
Eppure, la coscienza della propria solitudine di
fronte al male che la spaventosa potenza della guerra può generare
nell’esperienza, non è di per sé negativa, anzi, può essere l’inizio di un
cammino al vero.
Scriveva don Giussani in Tracce di esperienza
cristiana: “il senso di impotenza accompagna ogni seria esperienza di umanità.
È questo senso dell’impotenza che genera la solitudine. La solitudine vera non
è data dal fatto di essere soli fisicamente, quanto dalla scoperta che un
nostro fondamentale problema non può trovare risposta in noi o negli altri”. Ma
don Giussani, grande esperto di umanità, aggiunge che proprio la solitudine ci
apre all’attesa, alla compagnia con gli altri: “uno che scopra veramente e viva
l’esperienza della impotenza e della solitudine, non sta solo. Soltanto, anzi,
chi ha l’esperienza della profonda impotenza umana e quindi della personale
solitudine, si sente vicino agli altri, si stringe facilmente a loro, come
gente smarrita senza rifugio in una bufera, e il suo grido lo sente come grido
di tutti, e la sua ansia e la sua attesa sente ansia e attesa di tutti”.
Penso che il grandioso movimento di solidarietà a
favore dei rifugiati dalla guerra, documenti ampiamente la verità della
riflessione di don Giussani. Il riconoscimento del comune bisogno è il vero
generatore di un’amicizia che cerca la pace.
Ora, il problema è che i giovani non vedono intorno a
sé molti adulti che, amandoli, li aiutano ad accogliere il meraviglioso, ma
drammatico, paradosso della loro esistenza come punto di partenza di un cammino
alla felicità. Senza degli adulti disposti a riconoscere e ascoltare il grido
spesso silenzioso e multiforme dei giovani, per accoglierlo senza giudizio e
implicarsi in un’amicizia con loro, la solitudine – nel senso detto sopra –
quella che i ragazzi sperimentano di fronti ai mali e alle prove piccole e
grandi dell’esistenza, diventa una trappola paurosa e non una risorsa.
Quindi, come ha giustamente scritto su queste pagine
Luca Ceriani c’è bisogno “che i ragazzi incontrino dei “maestri” che gli
mostrino come stare al mondo”.
Aggiungerei che anche i grandi oggi hanno quasi tutti
lo stesso identico problema dei loro figli e, se sono anche insegnanti, dei
loro studenti: mancano di maestri. E siccome non si diventa “maestri” se non se
ne incontrano altri, anche gli adulti hanno tante paure, tra le più grandi
quella di non saper educare i propri figli.
Questo lo posso dire non sulla base di analisi sociologiche, ma per l’esperienza fatta in tanti anni di dialogo con genitori e colleghi a scuola, dai quali emerge chiaro la sete non di discorsi, ma di una compagnia adulta.
Nella mia vita ho incontrato per grazia tanti maestri
e continuo ad imbattermi – non solo fisicamente, ma anche attraverso le loro
opere – in questi tipi umani eccezionali di cui, man mano che vado avanti negli
anni, paradossalmente ho sempre più bisogno.
Se dovessi indicarne i tratti comuni, direi che sono
innanzitutto persone che non temono la loro solitudine ma se ne avvantaggiano,
ciascuno secondo il proprio temperamento, come forza per cercare amici con cui
entrare sempre più nella realtà e perciò generano compagnia. Sono uomini e donne
che non mi lasciano mai tranquillo, punzecchiandomi con le domande che emergono
dalla loro esperienza e con le quali stanno facendo un lavoro di paragone che
non ritengono mai concluso. Sono gente dal pensiero incompiuto, direbbe papa
Francesco, “che cercano un “di più”, e così contagiano questo atteggiamento”
(Discorso al mondo della scuola, 2014), mettono in movimento chi li incontra.
Maestro per me è chi vive il reale fino in fondo e
rischia con le sue domande. A conti fatti, penso che il mio lavoro sia molto
semplice, piccolo forse, ma decisivo: fare conoscere questi “maestri” a chi,
grande o piccolo che sia, mi trovo attorno, soprattutto in queste ore.
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