Nel Nuovo Testamento c’è un’evidente reticenza nel trattare di Giuseppe di Nazaret, marito di Maria e padre di Gesù…”.
La riflessione del biblista frate Alberto Maggi
- di Alberto Maggi
L’ebraico Yôsep (Giuseppe), è un nome augurale per chi desidera una famiglia numerosa; infatti, significa “il Signore aggiunga” (al bambino nato), tanti altri ancora. Nome popolare nella Bibbia, è portato da personaggi illustri della storia d’Israele, dal figlio di Giacobbe e Rachele, venduto come schiavo dai suoi fratelli per gelosia, ma divenuto poi governatore d’Egitto (Gen 37-42), al marito di Maria; quel che li accomuna è che entrambi, in situazioni drammatiche, sono stati i salvatori della loro famiglia.
Nel Nuovo Testamento c’è però un’evidente reticenza nel
trattare di Giuseppe di Nazaret, marito di Maria e padre di Gesù. Sia nelle
lettere di Paolo sia degli altri autori del Nuovo Testamento non si fa alcun
accenno a Giuseppe, ma quel che sorprende è il ruolo marginale che
sembrano dargli anche gli evangelisti.
Nel vangelo considerato più antico, quello di Marco, non
c’è alcun riferimento a lui, e Gesù è ricordato solo come “il figlio di Maria”;
vengono nominati i fratelli Giacomo, Ioses, Giuda e Simone, e anche le sue
sorelle (Mc 6,3), ma non c’è alcun cenno al padre. Anche nel vangelo di
Giovanni si parla della madre di Gesù (Gv 2,1; 19,25) e dei suoi
fratelli (Gv 7,3-10), ma non si trova alcun indizio su Giuseppe. È solo nei
vangeli di Luca, e in particolare di Matteo, che gli
evangelisti, in modi diversi, trattano questa singolare figura della
quale stranamente non riportano neanche una parola, e del cui mestiere si parla
solo in relazione a Gesù, conosciuto come “il figlio del falegname” (Mt
13,55).
La scarsità di notizie riguardo a Giuseppe nei vangeli, ha fatto sì che la
Chiesa e la tradizione abbiano attinto abbondantemente dai testi
apocrifi, in modo particolare dal Protovangelo di Giacomo, di poco
posteriore ai vangeli. È in questo testo che Giuseppe viene presentato già come
anziano (“Ho figli e sono vecchio, mentre lei è una ragazza” (9,2), mentre
nell’apocrifo “Storia di Giuseppe Falegname” si legge che era vedovo con ben
sei figli (quattro maschi e due femmine), quando si sposò con la dodicenne
Maria di Nazaret. E quando Giuseppe morì, a ben centoundici anni (15,1), Gesù e
Maria erano presenti al suo capezzale insieme a tutti i suoi figli e
figlie. Queste notizie indussero la tradizione cristiana a presentare
Giuseppe come una persona molto avanti con gli anni e, in modo
particolare dal quindicesimo secolo, il consolidarsi del culto a San
Giuseppe, portò a raffigurarlo sempre più come un anziano che sembrava più
il nonno che il padre di Gesù, forse per rendere così più sicura la verginità
della Madonna, e generazioni di bambini hanno imparato la dolce filastrocca
dedicata a “San Giuseppe vecchierello…”.
In realtà, con ogni probabilità, il marito di Maria era un giovane,
in quanto la tradizione ebraica fissava il matrimonio per il
maschio al diciottesimo anno (“I diciotto anni sono l’età
giusta per il matrimonio” Pirkè Avot, 5,23), e per la femmina
al dodicesimo.
La Chiesa presenta Giuseppe come padre “putativo” (dal
latino puto, creduto tale) di Gesù, secondo quanto scrive Luca
nel suo vangelo (“era figlio, come si credeva [lat. putabatur], di
Giuseppe”, Lc 3,23). Se Luca parla di Giuseppe come padre di Gesù (Lc 4,22),
Matteo, nonostante sia l’evangelista che più mette in risalto la sua figura
provvidenziale per la santa famiglia, lo esclude in maniera radicale
dal concepimento del figlio. Infatti, nella genealogia con la quale Matteo
apre la sua narrazione, elencando gli antenati di Gesù, per trentanove volte,
partendo da Abramo, presenta un uomo che genera un maschio (“Abramo generò
Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda…”, Mt 1,1), una
successione di padre in figlio che attraversa la storia d’Israele da Abramo a
Davide e Salomone fino a Giuseppe. Ma giunto al trentanovesimo “generò”
(“Giacobbe generò Giuseppe”, Mt 1,16), anziché proseguire come il ritmo e la
coerenza vorrebbero con “Giuseppe generò Gesù”, la trasmissione di vita
iniziata con Abramo di padre in figlio s’interrompe bruscamente. Matteo infatti
scrive che “Giacobbe generò Giuseppe, il marito di Maria, dalla quale è stato
generato Gesù chiamato Cristo” (Mt 1,16), estromettendo Giuseppe dalla
generazione del figlio. Nella cultura ebraica non esisteva il termine genitori ma
solo un padre e una madre, con compiti differenti.
Mentre il padre è colui che genera, la madre si limita a partorire il figlio
(Is 45,10). Matteo, infrangendo questa cultura e questa tradizione, presenta
una donna dalla quale fu generato il figlio, adoperando lo
stesso verbo (gr. ghennaô) che ha usato per tutte le generazioni
precedenti, facendo così intravedere un’azione particolare di Dio. Il
Cristo non è figlio di Giuseppe, ma “Figlio di Dio” (Mt 27,54),
generato dallo Spirito, la stessa energia divina che nel racconto della
creazione aleggiava sulle acque (Gen 1,1-2).
Giuseppe viene presentato da Matteo come “giusto”, qualifica che non indica
soltanto la condotta morale dell’individuo, ma la sua piena fedeltà
alla Legge di Mosè, come Elisabetta e Zaccaria, i genitori di Giovanni, che
“erano giusti davanti a Dio” in quanto “osservavano irreprensibili tutte le
leggi e le prescrizioni del Signore”, Lc 1,6). Quando Giuseppe scopre
che Maria, prima che iniziassero la convivenza, è incinta, sa che come “giusto”
il suo dovere è di denunciare la sposa infedele e farla lapidare, così come
comanda la Legge divina (Dt 22,20-21). Ma Giuseppe non lo fa. Tra la fedeltà
alla Legge e l’amore per la sposa, vince la misericordia, e Giuseppe cerca una
via di uscita che salvi Maria (“decise di licenziarla in segreto”, Mt 1,19).
Nel Protovangelo di Giacomo, la drammatica scelta di Giuseppe viene ben
raffigurata da questo suo dilaniante dialogo interiore: “Se nasconderò il suo
errore, mi troverò a combattere con la Legge del Signore” (14,1).
Giuseppe non osserva la Legge, e questa incrinatura nel fronte
dell’obbedienza al comando divino è sufficiente allo Spirito non solo per
inserirsi nella sua vita e assicurarlo a prendere Maria come moglie (Mt 1,20) e
salvarla da morte sicura, ma lo rende capace di percepire nella sua esistenza
la presenza del “Dio misericordioso” (Dt 4,31). Giuseppe è il giusto, l’uomo
che non parla ma fa, al contrario degli scribi e farisei che “dicono ma non
fanno” (Mt 23,3). Egli è per l’evangelista il primo di quei “misericordiosi”
che Gesù proclamerà beati “perché troveranno misericordia” (Mt 5,7), e di quei
“puri di cuore” proclamati beati “perché vedranno Dio” (Mt 5,7.8), ovvero
faranno una costante esperienza della presenza del “Signore misericordioso”
(Sir 48,20) nella loro vita. È questo che ha permesso a Giuseppe di essere
sempre guidato da Dio stesso (l’ “Angelo del Signore”), che per tre volte,
cifra che nel simbolismo numerico ebraico indica la totalità, gli indicherà che
fare (Mt 1,20; 2,13.19).
Ripetendo le gesta del primo Giuseppe della Bibbia (Gen 45-46), il
falegname di Nazaret salva la sua famiglia dalle trame omicide di re Erode
portandola in Egitto, per poi tornare nella più lontana ma sicura Galilea.
Accogliendo come suo il figlio di Maria, Giuseppe lo legittima agli occhi del
popolo, e il bambino, a cui ha posto il nome Gesù (l’ebraico Yehsȗà,
“Il Signore salva”), sperimenta, ancora prima della protezione del Padre
celeste, il padre terreno come il suo salvatore.
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