Fra società, letteratura e filosofia lo storico Markschies analizza i motivi che portarono la fede in Gesù ad affermarsi nel mondo romano
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di ROBERTO RIGHETTO
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Il teologo e critico
letterario belga Charles Moeller in un saggio divenuto un classico, Saggezza
greca e paradosso cristiano (1948), scriveva che «l’Antichità è un grido
verso il Dio di misericordia, verso un mondo divino che sia razionale ed
equilibrato». Dalla grande epica alla tragedia e alla filosofia, tutta la
civiltà classica, greca e romana, può essere vista come una ricerca di ponti da
lanciare fra la misera condizione umana e un cielo che si vuole più benigno e
magnanimo, non così simile agli uomini come quello degli dei che prima del
cristianesimo si pensava governassero il mondo.
A sua volta il
patrologo francese Gustave Bardy, nel libro La conversione al
cristianesimo nei primi secoli (1947), si è chiesto perché il mondo
classico ha accettato una religione nuova dopo averla a lungo perseguitata.
Studiando il concetto di conversione nel mondo pagano, rilevava come sia stato
profondamente estraneo alla mentalità antica. Il formalismo delle religioni
pagane escludeva in gran parte coinvolgimenti totali da parte dei fedeli e
persino le religioni misteriche, che si affermarono poco prima e a volte
contemporaneamente al culto cristiano, puntavano più sull’emozione che sulla
pietà interiore. In ogni caso, non si produsse mai in campo religioso quella trasformazione
spirituale e quel capovolgimento della mente - la metanoia - in cui consiste la
conversione. Un solo caso viene riscontrato nella letteratura ed è raccontato
nelle Metamorfosi di Apuleio: il protagonista Lucio si
converte al culto di Iside dopo essere stato trasformato in un asino. Discorso
diverso in campo filosofico, dove figure come Pitagora, Socrate, Diogene il
Cinico, Epicuro, Epitteto e Marco Aurelio legarono il loro pensiero alla
vita, cercando di farne un tutt’uno. Venendo alle conversioni al cristianesimo,
Bardy individua tre cause principali: la liberazione dalla fatalità, dal
peccato e dalla paura della morte. E aggiunge un elemento di novità non solo
intellettuale: la vita condotta secondo la regola dell’amore verso il prossimo
e la solidarietà verso tutti, di cui erano capaci i primi cristiani, furono una
delle molle che determinarono la conversione del mondo antico. Alla stessa
stregua pare pensarla Christoph Markschies, che insegna Storia della Chiesa
antica all’università Humboldt di Berlino, nel suo ultimo volume uscito in
Italia da Claudiana col titolo Il cristianesimo antico (pagine
286, euro 29).
Lo studioso protestante riesamina acutamente tutte le varie ipotesi che gli studiosi, sia a livello storico che teologico, hanno avanzato per spiegare per quali motivi il cristianesimo si è affermato nell’antichità vincendo la concorrenza di radicati culti pagani e anche delle religioni misteriche, spesso provenienti dall’Oriente. Pur condividendo l’opinione prevalente che non si può individuare una sola causa precisa, Markschies contraddice il pensiero di Paul Veyne che, nella prefazione a una monografia del 1983 di Peter Brown, affermò che nessuno storico può spiegare il trionfo del cristianesimo nell’impero romano a meno che «non sia un parolaio». Così egli mette insieme una catena di cause, individuandone ben sette. Innanzitutto nega che la sopravvivenza, l’ascesa e la vittoria della nuova fede fosse dovuta semplicemente alla decadenza culturale, religiosa e politica dell’impero. E smentisce anche la «variante vulgar-marxista di tale dichiarazione », secondo la quale l’impoverimento economico delle masse avrebbe generato un’epoca di instabilità con la ricerca di un nuovo ancoraggio etico e spirituale.
Fra i motivi veri c’è
in primis la forza spirituale dei nuovi credenti, ben rappresentata dai
martiri. In secondo luogo, la nuova religione si rivolgeva a tutti, non solo a
un’élite, e questo suo messaggio giunse con grande rapidità alle persone
semplici: «Il cristianesimo faceva dipendere la redenzione non da una
particolare preparazione filosofica, da un’eccellente perfezione etica
o da riti rigorosamente segreti, e quindi si rivolgeva a persone di scarsa
o quasi nessuna cultura senza alcuna precondizione. Conferì a tali persone un
significato, un valore infinito nient’affatto scontato per loro nella società».
Ma quella che poteva essere considerata come la religione dei semplici – per il
filosofo neoplatonico Celso i cristiani facevano presa fra la gente incolta e
ingenua – a poco a poco penetrò anche nel ceto intellettuale. Grazie all’opera
di Padri apologisti come Giustino, Origene e Tertulliano. E pure in campo etico
il cristianesimo contribuì a semplificare i discorsi complicati del mondo
antico ponendo alcune verità, come il rispetto della vita di donne e bambini,
sino ad allora impensate.
Ma il vero motore
della conversione, come accennato, era la carità: l’accoglienza e condivisione
verso tutti, dai poveri alle vedove, era un fatto perlopiù inusuale – anche se
non del tutto assente, come rileva Markschies – e stupiva il mondo pagano.
L’imperatore Giuliano l’Apostata era sconcertato per la straordinaria opera di
solidarietà messa in atto dai cristiani. Poi va aggiunto un elemento personale,
teologico e spirituale, ed è quello che suggeriva Bardy, vale a dire la
liberazione dal peccato e dalla paura della morte. Infine, un fattore
complessivo, quasi da filosofia della storia: il cristianesimo ridiede al mondo
romano «il senso di unità» perduto dall’impero, come ha notato il sociologo Max
Weber. Per tutta questa serie di cause, esso fu capace di farsi unico e vero
interprete della paideia classica – per richiamare uno studio fondamentale di
Werner Jaeger –, smontando le accuse di antirazionalismo e costruendo quella
civiltà che fondendo eredità greco-romana e humus ebraico-cristiano diede vita
all’Occidente.
Christoph Markschies, Il
cristianesimo antico, Claudiana. Pagine 286. Euro 29 ,00
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