La pace è uno stile
che sorge dal cuore
Non è più il tempo di una fede acritica
nel progresso. Ce lo dice la guerra, lo hanno detto gli ultimi due secoli e
questi primi decenni di millennio lo confermano: affinché il mondo che verrà
sia davvero auspicabile è necessario, insieme, l’evolvere nel bene dell’uomo
interiore Riflessione sul filo della Quaresima. Il nostro incedere verso
un futuro migliore, in cui essere “buoni, belli e globalizzati”, impatta sui
drammi che la natura e la storia di volta in volta ripropongono uguali
«La polvere, il sangue, le mosche, l’odore / per strada e fra i campi la gente che muore / e tu, tu la chiami guerra e non sai che cos’è / e tu, tu la chiami guerra e non ti chiedi perché» (F. De André, “Terzo intermezzo”, dall’album Tutti morimmo a stento, 1968). Abbiamo iniziato la santa Quaresima (mercoledì 2 marzo nel rito romano, domenica 6 in quello ambrosiano) col suggestivo rito delle ceneri. A ciascuno di noi, mentre il celebrante ci cospargeva il capo di cenere, veniva ricordato: Memento homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris, «Ricordati uomo che sei polvere e in polvere ritornerai». La cenere del culto si è posta come segno di fronte alla polvere e alla cenere che le immagini televisive hanno proiettato sui nostri schermi nei reportage dall’Ucraina. Case distrutte, famiglie lacerate e divise, persone massacrate, la chiamiamo guerra e non ci chiediamo perché e vorremmo non conoscerla né sperimentarla.
Di fronte all’irrompere di quella che G.
F. W. Hegel chiamava l’«immane potenza del negativo» non
abbiamo a che fare soltanto con la condizione umana e la sua
caducità, ma con lo stesso essere dell’uomo, che si scopre
fragile, mortale, finito, ma in questa autocoscienza della morte
sta anche la sua grandezza. Miseria e nobiltà: «un tutto
davanti al nulla, un nulla di fronte al tutto» (Blaise Pascal).
Questa «corda tesa fra l’angelo e la bestia» (ancora
Pascal), con tutta la sua paradossale esistenza, l’uomo,
è chiamata alla lotta, al conflitto, alla guerra, ma contro la bestia
che è in lui stesso e che lo spinge a compiere azioni efferate e violente
verso gli altri. Uno dei sensi del percorso quaresimale risiede proprio nella
lotta contro il peccato che alberga in noi, onde sconfiggere le bestie che
tendiamo a essere.
L’ambiguità del progresso
Detto altrimenti: si rende evidente
l’ambiguità del progresso. Senza dubbio, esso offre nuove possibilità per il
bene, ma apre anche possibilità abissali di male, possibilità che prima non
esistevano. Noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani
sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto, un progresso terribile nel
male. Se al
progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica
dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore (cf Ef 3,16; 2Cor 4,16), allora
esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo» (corsivo
mio). Le vicende umane non seguono un andamento lineare per il quale il
futuro è sempre necessariamente migliore del presente e del passato: così
pensava l’uomo moderno, nel suo incedere «col bel ramo di palma in mano»,
secondo i primi versi del poema di F. Schiller Die Künster, ai quali Franz
Rosenzweig, nella sua Urzelle opponeva proprio
la figura dell’«io polvere e cenere», che si erge dai relitti del mondo
moderno, rivendicando la propria radicale «unicità». A sorprendere il pensatore
ebreo non è tanto il fatto che quest’uomo post-moderno faccia ancora filosofia,
ma che egli sia ancora qui e ora, urlando la propria paura di fronte alla
sofferenza e alla morte: Individuum ineffabile triumphans. E questo perché,
parafrasando John Donne, ogni morte di uomo ci diminuisce, in quanto
partecipiamo dell’umanità e la campana a morto suona sempre per ciascuno di
noi.
Un futuro migliore
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