PER COSTRUIRE LA PACE
Quale il nesso tra quanto sta tragicamente accadendo in Ucraina e l’istanza pacifista? Che fare, nelle attuali condizioni, se si vuole essere pacificatori?
- Di Stefano Zamagni
- Il pacifismo tradizionale del XX secolo – noto come pacifismo di testimonianza – oggi non è in grado, da solo, di far avanzare la causa della pace. Esso continuerà ad essere un’opzione della coscienza individuale, degna della massima tutela giuridica e della più ampia considerazione sociale; ma il mantenimento della pace in terra esige, nelle attuali condizioni storiche, molto di più. E ciò per due ragioni fondamentali. La prima è esterna al pacifismo: sono mutate sia le cause sia la natura della guerra, come ben si sa. Giovanni Paolo II è stato fra i primi a comprendere questo fatto. Nel suo primo Angelus del 2002, il Papa disse: “Forze negative, guidate da interessi perversi, mirano a fare del mondo un teatro di guerra” (corsivo aggiunto). Parole inquietanti che sanno non solo di profezia, ma soprattutto di atto d’accusa politica. La guerra continua a rimanere un’opzione possibile nelle agende politiche. Con il che il destino economico e sociale dei singoli paesi e popoli continua ad essere ignorato e trattato strumentalmente.
La seconda ragione riguarda, invece, lo stesso
pacifismo di testimonianza, il quale è oggi afflitto da una sorta di paradosso:
da una parte, ha bisogno della guerra per rivendicare la pace; dall’altra,
reagisce molto tiepidamente (fino ad ignorarle) a quella miriade di conflitti
che coinvolgono popoli “marginali”, ma che sono poi quelli che preparano la via
alla guerra guerreggiata. La guerra in sé non viene chiamata in causa, ma
vengono denunciate le singole guerre, di cui si va alla ricerca delle cause
“locali”. Come ha scritto M. Albertini (1984), il pacifismo di testimonianza
coltiva “il sogno di eliminare la guerra senza distruggere il mondo della
guerra”. E un primo intervento in tale direzione è quello di rivedere
radicalmente le regole del mercato globale delle armi. (La Russia è il secondo
esportatore al mondo di armamenti, dopo gli USA. Il trattato sul commercio di
armi convenzionali, mentre è stato ratificato dalla UE, non è stato firmato da
USA, Russia e Cina. Ancora più preoccupante è la mancata revisione del trattato
di non proliferazione nucleare). Ecco perché è urgente muovere passi veloci
verso un nuovo pacifismo, quello che chiamo istituzionale ed il cui slogan
potrebbe essere: se vuoi la pace prepara istituzioni di pace (vale a dire, “si
vis pacem, para civitatem”).
Cosa vuol dire essere costruttori di pace (“Beati gli
operatori di pace” Mt.5,9) nelle odierne condizioni storiche? Significa
prendere finalmente sul serio la proposizione della Populorum Progressio
(1967) secondo cui “lo sviluppo è il nuovo della pace”. Tre sono le tesi che
valgono a conferire a tale affermazione tutta la sua forza profetica. Primo, la
pace è possibile, dato che la guerra è un evento e non già uno stato di cose.
Il che significa che la guerra è un’emergenza transitoria, per quanto lunga
possa essere, non una condizione permanente della società degli umani. E dunque
non hanno ragione i “realisti politici” secondo cui nell’arena internazionale
conta solo la forza e il calcolo degli interessi in gioco, dal momento che la
guerra sarebbe comunque inevitabile, stante l’icastica affermazione hobbesiana
dell’homo homini lupus. La seconda tesi afferma che la pace però va costruita,
posto che essa non è qualcosa che spontaneamente si realizza a prescindere
dalla volontà degli uomini. In un libro di grande rilevanza – e proprio per questo
mai citato – di Q. Wright (A study of war, 1942) si legge che “mai due
democrazie si sono fatte la guerra”. E’ proprio così, come la storia ci
conferma. Se dunque si vuole veramente la pace, quanto occorre fare è di
operare per estendere ovunque la cultura e la prassi del principio democratico.
La terza tesi, infine, afferma che la pace è frutto di
opere tese a creare istituzioni, (cioè regole del gioco), di pace: quelle che
appunto mirano a realizzare uno sviluppo umano integrale. (Sempre tenendo a
mente che la pace va costruita con mezzi di pace). Quali istituzioni di pace meritano nelle
condizioni odierne, attenzione primaria? Primo, rendere credibile il ripudio
della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti mediante la
predisposizione di strumenti efficaci di difesa dell’aggredito. Secondo, dare
vita ad una Agenzia (indipendente) Internazionale per la Gestione degli Aiuti
(AIGA), alla quale affluiscano le risorse rese disponibili dal “dividendo della
pace” e da altre fonti e, che, in forza del principio di sussidiarietà
(circolare), operi in quanto ente grant-making. (Se solo il 10% della spesa
militare globale, pari a circa 1700 miliardi di dollari all’anno, venisse
dirottata su AIGA, nell’arco di un decennio le attuali diseguaglianze strutturali
potrebbero venire sanate). Terzo, si tratta di rivedere, in modo
trasformazionale, l’assetto delle istituzioni politico-giuridiche nate a
Bretton Woods nel 1944 (FMI, OMS, Banca Mondiale, WTO), divenute ormai
obsolete. Al tempo stesso, operare per far nascere due altre istituzioni,
dotate dei medesimi poteri di quelle già esistenti: un’Organizzazione Mondiale
delle Migrazioni (OMM) e un’Organizzazione Mondiale dell’Ambiente (OMA).
Infine, è urgente far decollare un piano di pre-distribuzione e di redistribuzione
del reddito a livello globale per arrestare l’endemico aumento delle
diseguaglianze sociali tra paesi e tra gruppi sociali.
È bene che si sappia che quanto sopra è tecnicamente
possibile sotto tutti i profili. Piuttosto quel che manca è la volontà di agire
in tale direzione. Assai opportunamente il card. Pietro Parolin ha scritto:
“Purtroppo, bisogna riconoscere che non siamo stati capaci di costruire, dopo
la caduta del Muro di Berlino, un nuovo sistema di convivenza tra le Nazioni,
che andasse al di là delle alleanze militari o delle convenienze economiche. La
guerra in corso in Ucraina rende evidente questa sconfitta”. (“Vatican News”,
11 marzo 2022). Se la catastrofe ucraina servisse a farci comprendere la
portata delle gravi vulnerabilità dell’attuale ordine internazionale e a
spingerci ad agire di conseguenza, come la Fratelli tutti ci sollecita a fare,
potremo dire che questa immane tragedia a qualcosa di buono è servita. Il che
apre alla speranza, la quale non riguarda solo il futuro, ma anche il presente,
perché abbiamo bisogno di sapere che le nostre opere, oltre ad una destinazione
finale, hanno un senso e un valore anche qui e ora.
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