la corsa agli armamenti
-di Giuseppe Savagnone *
La dura posizione di papa Francesco contro gli
Stati, compresa l’Italia, che, in risposta al conflitto russo ucraino, hanno
annunciato di voler spendere il 2% del Pil per l’acquisto di armi, non viene
riportata in prima pagina dalla maggior parte dei grandi quotidiani italiani,
probabilmente perché l’hanno ritenuta imbarazzante.
«Io mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo
di Stati si sono compromessi a spendere il 2 per cento del Pil per l’acquisto
di armi come risposta a questo che sta accadendo, pazzi!», ha detto il
pontefice ricevendo in udienza le partecipanti a un convegno del Centro
Femminile Italiano. «La vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni,
altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione. Parlo di un modo
diverso di governare il mondo, non facendo vedere i denti».
Un modo, ha precisato, che non sia «il frutto
della vecchia logica di potere che ancora domina la cosiddetta geopolitica» –
che è il «potere economico-tecnocratico-militare» – , in base a cui «si
continua a governare il mondo come uno “scacchiere”, dove i potenti studiano le
mosse per estendere il predominio a danno degli altri». Parole decisamente
controcorrente, rispetto alla linea della maggior parte degli Stati, incluso il
nostro.
Solo pochi giorni fa la Camera ha approvato a
larga maggioranza l’odg proposto dalla Lega che impegna il governo a portare
dall’1,5% al 2% del Pil (cioè da 25 a 38 miliardi di euro l’anno) le spese
militari entro il 2024. Parole che non corrispondono certamente ai canoni del
“politically correct”, ma, forse proprio per questo, ci costringono a porci
delle domande, in un momento in cui sembra che la corsa a «mostrare i denti»,
come dice il papa, non dia più il tempo per farsene.
Il punto di vista di Francesco si comprende meglio
alla luce di quanto ha detto, pochi giorni fa, parlando a una associazione di
volontariato che opera per combattere la sete nel mondo, soprattutto in Africa:
«Perché non unire le nostre forze e le nostre risorse per combattere insieme le
vere battaglie di civiltà: la lotta contro la fame e contro la sete, la lotta
contro le malattie e le epidemie, la lotta contro la povertà e le schiavitù di
oggi. Perché? Certe scelte non sono neutrali: destinare gran parte della spesa
alle armi, vuol dire toglierla ad altro, che significa continuare a toglierla
ancora una volta a chi manca del necessario (…). Quanto si spende per le armi:
terribile! (…). Spendere in armi, sporca l’anima, sporca il cuore, sporca
l’umanità».
Quale pacifismo?
Non si tratta, qui, di collocare tutti sullo
stesso piano, mantenendo un’assurda equidistanza tra chi scatena la guerra e
chi la subisce, perché è aggredito, come vorrebbe un certo pacifismo oggi
abbastanza diffuso. E neppure si tratta di mettere in discussione il diritto
dell’Ucraina a difendersi da un’invasione che ne minaccia la libertà e che sta
provocando al suo popolo immani sofferenze umane e spaventose distruzioni
materiali.
Non risulta che il papa, nella telefonata di
solidarietà fatta a Zelens’kyi pochi giorni fa, gli abbia chiesto di arrendersi
ai russi. Peraltro, le parole del pontefice non riguardavano neppure
l’opportunità o meno dell’invio di armi al governo ucraino, per consentirgli di
resistere – come sta facendo – a un esercito nemico numericamente superiore.
Anche l’esplicito rifiuto, da parte di Francesco, dell’idea di “guerra giusta”
– «Una guerra sempre, sempre, è la sconfitta dell’umanità. Non esistono le
guerre giuste, non esistono» – va calibrato con la sua richiesta alla comunità
internazionale di intervenire per fermare la strage di civili in Iraq e in
Siria, nel 2014: «Dove c’è un’aggressione ingiusta posso solo dire che è lecito
fermare l’aggressore ingiusto – sottolineo il verbo, dico “fermare”, non
bombardare o fare la guerra».
E ha ribadito: «fermare l’aggressione ingiusto è
lecito. Ma dobbiamo avere memoria, pure: quante volte, sotto questa scusa di
fermare l’aggressore ingiusto, le potenze si sono impadronite dei popoli e
hanno fatto una bella guerra di conquista?». Dove sembra manifestarsi
l’esigenza di un intervento, che non sia però una nuova guerra di conquista
mascherata.
In questo senso va anche la dichiarazione del
segretario di Stato, il card. Parolin, che (presumibilmente senza voler
contraddire la linea del papa), in una recentissima intervista al settimanale
cattolico spagnolo «Vida Nueva», alla domanda sulla legittimità dell’invio di
armi all’Ucraina, ha risposto: «L’uso delle armi non è mai qualcosa di
desiderabile. Tuttavia il diritto a difendere la propria vita, il proprio
popolo e il proprio Paese comporta talvolta anche il triste ricorso alle armi».
Il gioco dei potenti che porta alla guerra
Siamo comunque sul terreno delle ipotesi. In
attesa di ulteriori elementi su questo punto, bisogna confrontarsi comunque con
la critica radicale ed esplicita di papa Francesco alla guerra come metodo di
soluzione dei conflitti internazionali e alla corsa agli armamenti in atto come
inevitabile risvolto di questa impostazione.
È evidente che il destinatario ultimo di questa
contestazione è il governo russo, che ha scatenato il conflitto. Essa però si
rivolge, immediatamente, alla risposta data dal mondo occidentale a questa
provocazione, una risposta che non si è ispirata al deciso rifiuto della
guerra, ma al contrario, si sta affidando al potenziamento degli arsenali. Ed è
difficile negare che ci siano degli elementi che danno ragione a Francesco.
Perché, pur senza sminuire di una virgola la preponderante responsabilità di
Putin, neppure gli altri Paesi sono del tutto innocenti. Non lo sono, innanzi
tutto, quelli della Nato – primo fra tutti gli Stati Uniti – che hanno
ostinatamente rifiutato di dare al capo del Cremlino la garanzia che l’Ucraina
non sarebbe entrata a far parte dell’Alleanza Atlantica.
Qualcuno obietterà che questo avrebbe voluto dire
prevaricare il diritto di un Paese libero di fare le sue scelte diplomatiche e
militari. Ma quando, nel 1962 – in seguito alla fallita invasione della Baia
dei porci, avvenuta l’anno prima – , Cuba chiese all’URSS di dotarla di missili
nucleari, per difendere la propria indipendenza, e il presidente degli Stati
Uniti J. F. Kennedy pose un blocco navale per impedire l’arrivo di questi
armamenti, che riteneva una minaccia, il premier russo N. Kruscev accettò di far
tornare indietro le sue navi, dietro garanzia che il tentativo di invasione
dell’isola non si sarebbe ripetuto. Quando sono in gioco le sorti del mondo,
bisogna negoziare.
È questo che il presidente Biden non ha fatto, di
fronte alla minaccia russa pur essendo l’unico assolutamente certo che la
guerra, in mancanza di un suo impegno sulla neutralità dell’Ucraina
(equivalente alla rinunzia di Kruscev di armare di missili Cuba), sarebbe
inevitabilmente scoppiata. Perché non ha fatto nulla per impedirla? Si può
anche sostenere che Putin non avrebbe per questo rinunziato all’invasione,
spinto com’è dal sogno di ricostituire l’antico sistema di potere della Russia
sovietica. Ma l’America avrebbe fatto il possibile per evitarla. Invece non ha
mosso un dito.
Tornano alla mente le parole di Francesco sulla
politica gestita dai grandi come un grande gioco di scacchi per affermare il
proprio predominio. Magari sventolando la bandiera di grandi valori etici da
difendere… Ma neanche la linea del presidente Zelens’kyi è al riparo da
legittime perplessità. Nessuno può mettere in dubbio il suo coraggio e la sua
capacità di porsi come simbolo e portavoce, a livello internazionale, del suo
popolo
martoriato. Ma in questi suoi due anni di
presidenza è stata innegabile la sua tolleranza verso le formazioni neonaziste
di cui è espressione, per esempio, il battaglione Azov, e che hanno ampie
infiltrazioni anche nell’esercito regolare.
Come lo è stata anche la politica di repressione
delle province russofone del Donbass, secondo alcune fonti affidata proprio a
questi nazionalisti estremisti. Su tutto questo forse sarebbe stato opportuno
chiedere a Zelens’kyi di dare garanzie, già prima dello scoppio del conflitto,
ma anche dopo, invece di sostenerlo incondizionatamente, assecondando le sue
capacità di imporsi, da consumato attore, sulla scena dei parlamenti
occidentali.
Per restare al presidente ucraino, non è
rassicurante neppure la sua continua insistenza nel chiedere un sempre maggiore
impegno della Nato, inclusa una no-fly zone che, come ripetute volte si è
cercato di spiegargli, comporterebbe il serio rischio di una terza guerra
mondiale. Ma Zelens’kyi dà l’impressione di considerare questa ipotesi un
“danno collaterale” accettabile, pur di vincere la sua guerra.
Perché di vittoria ha più volte parlato, e forse
non solo per sollevare il morale dei suoi soldati, se è vero che anche alcune
sue proposte di negoziato sono state formulate mescolandole a inopportune
minacce, nei confronti della Russia, che le hanno fatte apparire piuttosto
delle provocazioni e che certamente non erano adatte a creare il clima adatto
per un incontro. Tutto questo non diminuisce di una virgola la fondamentale
responsabilità di Putin: gli errori e i limiti degli altri non possono fare
dimenticare che è lui ad aver voluto questa guerra. Né si può perdere di vista
il dramma di tre milioni di ucraini costretti alla fuga e ridotti alla
disperazione per i sogni di grandezza del dittatore russo.
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