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venerdì 11 marzo 2022

BUONI, BELLI, GLOBALIZZATI

La pace è uno stile

 che sorge dal cuore


Non è più il tempo di una fede acritica nel progresso. Ce lo dice la guerra, lo hanno detto gli ultimi due secoli e questi primi decenni di millennio lo confermano: affinché il mondo che verrà sia davvero auspicabile è necessario, insieme, l’evolvere nel bene dell’uomo interiore Riflessione sul filo della Quaresima.  Il nostro incedere verso un futuro migliore, in cui essere “buoni, belli e globalizzati”, impatta sui drammi che la natura e la storia di volta in volta ripropongono uguali

«La polvere, il sangue, le mosche, l’odore / per strada e fra i campi la gente che muore / e tu, tu la chiami guerra e non sai che cos’è / e tu, tu la chiami guerra e non ti chiedi perché» (F. De André, “Terzo intermezzo”, dall’album Tutti morimmo a stento, 1968). Abbiamo iniziato la santa Quaresima (mercoledì 2 marzo nel rito romano, domenica 6 in quello ambrosiano) col suggestivo rito delle ceneri. A ciascuno di noi, mentre il celebrante ci cospargeva il capo di cenere, veniva ricordato: Memento homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris, «Ricordati uomo che sei polvere e in polvere ritornerai». La cenere del culto si è posta come segno di fronte alla polvere e alla cenere che le immagini televisive hanno proiettato sui nostri schermi nei reportage dall’Ucraina. Case distrutte, famiglie lacerate e divise, persone massacrate, la chiamiamo guerra e non ci chiediamo perché e vorremmo non conoscerla né sperimentarla.

Non ancora abbiamo dimenticato la fila di camion militari coi morti a causa del Covid e le numerose persone che ci hanno lasciato per la pandemia. Essa, come la guerra, rivolge il suo monito a noi mortali, ricordandoci il nostro essere polvere e cenere. Abbiamo fatto di tutto per uscirne: l’impegno degli addetti alla sanità, la febbrile e feconda attività di ricerca, la scelta di accettare il vaccino onde arginare l’ondata di dolore e di morte e cercare di sconfiggerla. Ma, proprio mentre cominciavamo a tirare un sospiro di sollievo, ecco di nuovo lo stesso monito da una catastrofe che non è naturale, ma decisa e perseguita dalla volontà umana. Come ha detto papa Francesco nell’Angelus della I domenica di Quaresima: non chiamiamola con l’eufemismo «operazione militare», si chiama «guerra», con tutto il tragico che tale parola significa e racchiude. Alla pietas dei camion militari del bergamasco è subentrata la violenza dei cingolati e dei meccanismi di morte nei cieli e per le strade dell’Ucraina.

L’immane potenza del negativo

Di fronte all’irrompere di quella che G. F. W. Hegel chiamava l’«immane potenza del negativo» non abbiamo a che fare soltanto con la condizione umana e la sua caducità, ma con lo stesso essere dell’uomo, che si scopre fragile, mortale, finito, ma in questa autocoscienza della morte sta anche la sua grandezza. Miseria e nobiltà: «un tutto davanti al nulla, un nulla di fronte al tutto» (Blaise Pascal). Questa «corda tesa fra l’angelo e la bestia» (ancora Pascal), con tutta la sua paradossale esistenza, l’uomo, è chiamata alla lotta, al conflitto, alla guerra, ma contro la bestia che è in lui stesso e che lo spinge a compiere azioni efferate e violente verso gli altri. Uno dei sensi del percorso quaresimale risiede proprio nella lotta contro il peccato che alberga in noi, onde sconfiggere le bestie che tendiamo a essere.

Ma di più, insieme alla coscienza della nostra radicale infermità e mortalità, dovremmo imparare da questi veri e propri “segni dei tempi” a relativizzare il mito dei tempi moderni: l’idea di progresso, alla luce dell’insegnamento della dialettica dell’Illuminismo, di un acuto pensatore come Gennaro Sasso ( Tramonto di un mito. L’idea di “progresso” fra Ottocento e Novecento, il Mulino, Bologna 1984) e di papa Benedetto XVI, nell’enciclica Spe Salvi (2007): «Già nel XIX secolo - scriveva il Papa - esisteva una critica alla fede nel progresso. Nel XX secolo, Theodor W. Adorno ha formulato la problematicità della fede nel progresso in modo drastico: il progresso, visto da vicino, sarebbe il progresso dalla fionda alla megabomba. Ora, questo è, di fatto, un lato del progresso che non si deve mascherare.

L’ambiguità del progresso

Detto altrimenti: si rende evidente l’ambiguità del progresso. Senza dubbio, esso offre nuove possibilità per il bene, ma apre anche possibilità abissali di male, possibilità che prima non esistevano. Noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto, un progresso terribile nel male. Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore (cf Ef 3,16; 2Cor 4,16), allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo» (corsivo mio). Le vicende umane non seguono un andamento lineare per il quale il futuro è sempre necessariamente migliore del presente e del passato: così pensava l’uomo moderno, nel suo incedere «col bel ramo di palma in mano», secondo i primi versi del poema di F. Schiller Die Künster, ai quali Franz Rosenzweig, nella sua Urzelle opponeva proprio la figura dell’«io polvere e cenere», che si erge dai relitti del mondo moderno, rivendicando la propria radicale «unicità». A sorprendere il pensatore ebreo non è tanto il fatto che quest’uomo post-moderno faccia ancora filosofia, ma che egli sia ancora qui e ora, urlando la propria paura di fronte alla sofferenza e alla morte: Individuum ineffabile triumphans. E questo perché, parafrasando John Donne, ogni morte di uomo ci diminuisce, in quanto partecipiamo dell’umanità e la campana a morto suona sempre per ciascuno di noi.

Un futuro migliore

Il nostro incedere verso un futuro migliore, nel quale avremmo dovuto essere tutti “buoni, belli e globalizzati”, laddove negli anni ‘60 desideravamo essere tutti “buoni, belli e comuni-sti”, viene bruscamente interrotto dalle tragedie che la natura e la storia di volta in volta ripropongono. Trovare il coraggio di uscirne e superarle spetta alla nostra capacità di conoscenza e al nostro orientamento al bene: scienza ed etica, prospettive alle quali la fede in particolare cristiana deve guidarci. Perché non imparare la lezione della pandemia, che abbiamo affrontato e contrastato con la nostra preghiera, la nostra solidarietà, il nostro impegno nella ricerca e nel servizio verso i più fragili e non porre immediatamente fine a questa assurda (il papa l’ha definita «folle») guerra? No! La guerra non è, come voleva Hegel, l’«astuzia della ragione», ma la sua pazzia e se di astuzia si tratta, è quella del serpente che da sempre rema contro l’alleanza fra Dio e l’umanità e fra noi dividendoci diabolicamente gli uni dagli altri.

Ci è stato anche detto che la pace nasce dentro ciascuno di noi. Certamente la denuncia delle ingiustizie (e le guerre sono sempre e comunque ingiuste) deve essere perseguita profeticamente e in Russia molti lo hanno fatto e lo stanno facendo anche a costo della loro libertà, ma essa va accompagnata dalla fatica quaresimale del lavoro su noi stessi e dalla vigilanza anche sul nostro linguaggio e sul nostro stile, che sia da “operatori di pace”, ossia secondo il Vangelo.

www.avvenire.it

 

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