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giovedì 25 gennaio 2024

SINGOLARISMO e ODIO SOCIALE


 «Questa è la stagione dell’odio sociale

 Comunità a rischio, serve un pensiero»

“Oggi il povero non è visto semplicemente con sentimenti di indifferenza e ostilità. È percepito come altro da sé e ciò porta a compiere azioni contro i fragili”

INTERVISTA A STEFANO ZAMAGNI

-         di DIEGO MOTTA

 

Non è più paura, non è nemmeno disprezzo del povero. «Sta accadendo molto peggio: siamo ormai in presenza di odio sociale». Nel 2019, Stefano Zamagni non aveva esitato a parlare con Avvenire di «aporofobia»: erano i tempi dell’offensiva contro il Terzo settore, della criminalizzazione della solidarietà voluta anche a livello istituzionale. Cinque anni dopo, l’intellettuale bolognese che ha guidato la Pontificia accademia delle scienze sociali, ricostruisce lo scenario attuale in modo ancora più diretto, guardando all’Italia e all’Europa. «Oggi il povero non è visto semplicemente con sentimenti di indifferenza e ostilità. È percepito come altro da sé da una parte dell’opinione pubblica e questo porta a compiere azioni contro la persona fragile». Sullo sfondo c’è la violenza gratuita contro gli ultimi, siano essi migranti, disabili, senza dimora, detenuti: la cronaca è piena, quotidianamente, di fatti che rimandano al desiderio di supremazia di pochi prepotenti verso i più deboli, di persone escluse o nascoste, di dimenticati che rivendicano il diritto ad esistere, mentre il dibattito pubblico tende a relegare tutto questo nelle periferie, esistenziali e mediatiche. Così, nei bassifondi della nostra scala sociale, si avverte avanzare un senso di disumanità che preoccupa per le conseguenze possibili.

 Professor Zamagni, si moltiplicano gli “invisibili”. Eppure si fa finta di non vedere o, peggio, si cerca di negare qualsiasi emergenza sociale per non creare allarme nell’opinione pubblica. Perché questa ostilità verso il povero?

 Siamo abituati a parlare di povertà come di un fenomeno legato al reddito, ma la povertà è anche emarginazione, indifferenza. Con l’aporofobia eravamo al disprezzo degli indigenti, adesso siamo all’odio sociale, un fenomeno mai visto prima a queste latitudini. Odio e violenza hanno un’origine comune e questo spiega ciò che sta succedendo in questa epoca storica. L’odio sociale ha un inizio, 30 anni fa, quando in America nasce anche nel mondo universitario una corrente di pensiero che poi approderà in Europa e nel nostro Paese: si tratta del singolarismo.

 L’altra faccia dell’individualismo.

 Il singolarismo è l’estremizzazione dell’individualismo, che nasce invece molto tempo prima, all’epoca dell’Il-luminismo. In quella fase storica, l’individuo almeno era parte della comunità, aveva un’appartenenza. Il singolarismo recide proprio questo tipo di legame: adesso ognuno si pensa come un unicuum e, in quanto tale, deve differenziarsi. L’atteggiamento aporofobico è stata una prima conseguenza della diffusione del singolarismo, che prevede l’espulsione e l’annullamento dell’altro.

 Se l’individualismo è stato superato, allora adesso diventa a rischio anche la comunità.

 Esatto. Di questo passo dovremo fare i conti con la scomparsa della comunità, che è già in atto. È la seconda secolarizzazione: nella prima, la società e il mondo andavano avanti come se Dio non esistesse. In questa seconda secolarizzazione, che stiamo vivendo, la vita pubblica procede come se a essere assente fosse l’idea stessa di comunità. Così si spiega ad esempio il calo di partecipazione alla democrazia e ai suoi riti, a partire dalle elezioni: chi va a votare oggi, se non gli anziani, che si sono formati nella stagione in cui il singolarismo non c’era?

 Ma una società che tende a escludere fino ad annullare la dimensione comunitaria, non è condannata a incattivirsi?

 Certo. Oggi, non a caso, c’è molta meno felicità pubblica: una volta si mangiava meno ma si era più felici. Se si taglia il cordone ombelicale con la comunità, l’essere umano sarà sempre più solo. Negli Stati Uniti, il 52% della popolazione soffre di solitudine. Ma è una solitudine esistenziale, che si accompagna all’aumento delle disuguaglianze sociali. Detto questo, io resto ostinatamente ottimista.

 Perché?

 Perché la persona umana nasce per la felicità. Bisogna tornare a rileggersi il capitolo 5 della “Fratelli tutti”, per immaginare la miglior politica. Papa Francesco ha intuito prima e meglio di tutti che bisogna tornare a pensare. Noi tutti, anche il Terzo settore, nella dimensione sociale abbiamo posto più enfasi sull’azione che sul pensiero. La prospettiva va capovolta e tanti non credenti l’hanno capito, paradossalmente. Sono proprio loro a riconoscere che la Chiesa cattolica è l’unico soggetto in grado di indicare una di via d’uscita, a patto che si aumenti però il tasso di produzione del pensiero. La Parola viene dal pensiero ed è necessario, anche nel mondo cattolico, investire di più nelle occasioni capaci di generare “pensiero pensante” e non “pensiero calcolante”.

 È ancora convinto che la società civile sia più avanti della politica?

 Sì, a patto che si esca una volta per tutte dal dibattito fuorviante incentrato sul bipolarismo Stato-mercato e si riconosca il ruolo del Terzo settore. Attenzione, la mancanza di una dimensione comunitaria fa male anche al mondo del volontariato e della cooperazione, però i segnali positivi non mancano: penso all’Economy of Francesco, al recente elogio del modello di economia civile arrivato da parte di Sergio Mattarella. Serve fiducia e il mondo cattolico in questo senso ha molte carte da giocare.

«L’individualismo è stato superato dal singolarismo: il prossimo va annullato o espulso» «L’antidoto all’aumento di disuguaglianze e solitudini?

Rileggiamo il capitolo 5 della “Fratelli tutti”»

 

www.avvenire.it


 

venerdì 25 marzo 2022

BELLICISMO o PACIFISMO ?


 UNA VIA 

PER COSTRUIRE LA PACE

 Quale il nesso tra quanto sta tragicamente accadendo in Ucraina e l’istanza pacifista? Che fare, nelle attuali condizioni, se si vuole essere pacificatori?

 -         Di Stefano Zamagni

-          Il pacifismo tradizionale del XX secolo – noto come pacifismo di testimonianza – oggi non è in grado, da solo, di far avanzare la causa della pace. Esso continuerà ad essere un’opzione della coscienza individuale, degna della massima tutela giuridica e della più ampia considerazione sociale; ma il mantenimento della pace in terra esige, nelle attuali condizioni storiche, molto di più. E ciò per due ragioni fondamentali. La prima è esterna al pacifismo: sono mutate sia le cause sia la natura della guerra, come ben si sa. Giovanni Paolo II è stato fra i primi a comprendere questo fatto. Nel suo primo Angelus del 2002, il Papa disse: “Forze negative, guidate da interessi perversi, mirano a fare del mondo un teatro di guerra” (corsivo aggiunto). Parole inquietanti che sanno non solo di profezia, ma soprattutto di atto d’accusa politica. La guerra continua a rimanere un’opzione possibile nelle agende politiche. Con il che il destino economico e sociale dei singoli paesi e popoli continua ad essere ignorato e trattato strumentalmente.

La seconda ragione riguarda, invece, lo stesso pacifismo di testimonianza, il quale è oggi afflitto da una sorta di paradosso: da una parte, ha bisogno della guerra per rivendicare la pace; dall’altra, reagisce molto tiepidamente (fino ad ignorarle) a quella miriade di conflitti che coinvolgono popoli “marginali”, ma che sono poi quelli che preparano la via alla guerra guerreggiata. La guerra in sé non viene chiamata in causa, ma vengono denunciate le singole guerre, di cui si va alla ricerca delle cause “locali”. Come ha scritto M. Albertini (1984), il pacifismo di testimonianza coltiva “il sogno di eliminare la guerra senza distruggere il mondo della guerra”. E un primo intervento in tale direzione è quello di rivedere radicalmente le regole del mercato globale delle armi. (La Russia è il secondo esportatore al mondo di armamenti, dopo gli USA. Il trattato sul commercio di armi convenzionali, mentre è stato ratificato dalla UE, non è stato firmato da USA, Russia e Cina. Ancora più preoccupante è la mancata revisione del trattato di non proliferazione nucleare). Ecco perché è urgente muovere passi veloci verso un nuovo pacifismo, quello che chiamo istituzionale ed il cui slogan potrebbe essere: se vuoi la pace prepara istituzioni di pace (vale a dire, “si vis pacem, para civitatem”).

Cosa vuol dire essere costruttori di pace (“Beati gli operatori di pace” Mt.5,9) nelle odierne condizioni storiche? Significa prendere finalmente sul serio la proposizione della Populorum Progressio (1967) secondo cui “lo sviluppo è il nuovo della pace”. Tre sono le tesi che valgono a conferire a tale affermazione tutta la sua forza profetica. Primo, la pace è possibile, dato che la guerra è un evento e non già uno stato di cose. Il che significa che la guerra è un’emergenza transitoria, per quanto lunga possa essere, non una condizione permanente della società degli umani. E dunque non hanno ragione i “realisti politici” secondo cui nell’arena internazionale conta solo la forza e il calcolo degli interessi in gioco, dal momento che la guerra sarebbe comunque inevitabile, stante l’icastica affermazione hobbesiana dell’homo homini lupus. La seconda tesi afferma che la pace però va costruita, posto che essa non è qualcosa che spontaneamente si realizza a prescindere dalla volontà degli uomini. In un libro di grande rilevanza – e proprio per questo mai citato – di Q. Wright (A study of war, 1942) si legge che “mai due democrazie si sono fatte la guerra”. E’ proprio così, come la storia ci conferma. Se dunque si vuole veramente la pace, quanto occorre fare è di operare per estendere ovunque la cultura e la prassi del principio democratico.

La terza tesi, infine, afferma che la pace è frutto di opere tese a creare istituzioni, (cioè regole del gioco), di pace: quelle che appunto mirano a realizzare uno sviluppo umano integrale. (Sempre tenendo a mente che la pace va costruita con mezzi di pace).  Quali istituzioni di pace meritano nelle condizioni odierne, attenzione primaria? Primo, rendere credibile il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti mediante la predisposizione di strumenti efficaci di difesa dell’aggredito. Secondo, dare vita ad una Agenzia (indipendente) Internazionale per la Gestione degli Aiuti (AIGA), alla quale affluiscano le risorse rese disponibili dal “dividendo della pace” e da altre fonti e, che, in forza del principio di sussidiarietà (circolare), operi in quanto ente grant-making. (Se solo il 10% della spesa militare globale, pari a circa 1700 miliardi di dollari all’anno, venisse dirottata su AIGA, nell’arco di un decennio le attuali diseguaglianze strutturali potrebbero venire sanate). Terzo, si tratta di rivedere, in modo trasformazionale, l’assetto delle istituzioni politico-giuridiche nate a Bretton Woods nel 1944 (FMI, OMS, Banca Mondiale, WTO), divenute ormai obsolete. Al tempo stesso, operare per far nascere due altre istituzioni, dotate dei medesimi poteri di quelle già esistenti: un’Organizzazione Mondiale delle Migrazioni (OMM) e un’Organizzazione Mondiale dell’Ambiente (OMA). Infine, è urgente far decollare un piano di pre-distribuzione e di redistribuzione del reddito a livello globale per arrestare l’endemico aumento delle diseguaglianze sociali tra paesi e tra gruppi sociali.

È bene che si sappia che quanto sopra è tecnicamente possibile sotto tutti i profili. Piuttosto quel che manca è la volontà di agire in tale direzione. Assai opportunamente il card. Pietro Parolin ha scritto: “Purtroppo, bisogna riconoscere che non siamo stati capaci di costruire, dopo la caduta del Muro di Berlino, un nuovo sistema di convivenza tra le Nazioni, che andasse al di là delle alleanze militari o delle convenienze economiche. La guerra in corso in Ucraina rende evidente questa sconfitta”. (“Vatican News”, 11 marzo 2022). Se la catastrofe ucraina servisse a farci comprendere la portata delle gravi vulnerabilità dell’attuale ordine internazionale e a spingerci ad agire di conseguenza, come la Fratelli tutti ci sollecita a fare, potremo dire che questa immane tragedia a qualcosa di buono è servita. Il che apre alla speranza, la quale non riguarda solo il futuro, ma anche il presente, perché abbiamo bisogno di sapere che le nostre opere, oltre ad una destinazione finale, hanno un senso e un valore anche qui e ora.

 www.vita.it

 

giovedì 9 aprile 2020

IL MONDO CHE VERRA'

Aspettando il dopo-virus

Sulle pagine dell'Osservatore Romano l'intervista al presidente della Pontificia accademia delle Scienze Sociali sul dopo coronavirus, che includerà "nemici" importanti, a partire dal neoliberismo, ma anche e soprattutto un'epoca migliore


di Marco Bellizi

Nel “nuovo mondo” del dopovirus il nemico numero uno sarà il liberismo. E insieme ad esso, almeno in Italia, la burocrazia, l'ostinazione nel rifiutare il principio di sussidiarietà, la resistenza alle opportunità che la tecnologia ha dimostrato di poter fornire. Nonostante questo compito impegnativo all'orizzonte, secondo Stefano Zamagni, economista, presidente della Pontificia accademia delle Scienze Sociali, il futuro comunque sarà migliore del passato. L'Europa, per esempio, sarà più forte e i sovranismi, nell'immediato, saranno costretti ad arretrare. Perché tutto questo accada, però, occorrono iniziative tempestive, coraggiose e lungimiranti. In Italia, per esempio, servirebbe un think tank, un gruppo di esperti  politicamente indipendenti e  desiderosi di dare una mano al loro paese, in grado di elaborare nel termine di poche settimane un vasto progetto con cui ripartire, quando si avvierà finalmente la famosa “fase 2”.
Professor Zamagni, prima di tutto mi permetta una domanda ineludibile: lei è favorevole alla riapertura in Italia, in tempi brevi, delle attività produttive, anche correndo qualche rischio, o preferisce attendere il via libera degli scienziati?
R. - Il punto è delicato e richiede una risposta articolata. Circola uno studio recente realizzato da un team di esperti dell'Università di Alicante, istituzione piuttosto attendibile, secondo il quale in Italia e in Spagna il 24 aprile sarà  la data di un deciso cambio di rotta, in positivo, dell'epidemia. Se questo è vero  ha un senso riaprire. Altri studi però mostrano scenari diversi. Ci sono pareri discordanti anche a livello scientifico: questo va detto. I police makers, i governanti, sono costretti a basarsi su questi dati, che non sono concordi. Purtroppo, negli anni passati, quando era possibile farlo, gli istituti scientifici non sono stati messi nella condizione di effettuare studi che adesso sarebbero preziosi. Bisogna dire con chiarezza, però, che non si muore solo di virus: se entro due mesi la situazione non si risolvesse si potrebbe cominciare  a morire anche per denutrizione, per cattiva alimentazione, per insufficiente assistenza sanitaria. I modi per riaprire gradualmente ci sono. Occorre iniziare con le attività che producono valore aggiunto: le partite di calcio, tanto per intendersi, non sono fra queste.  Fino ad ora, durante questa crisi, abbiamo solo redistribuito valore, senza produrlo. E' chiaro che così non possiamo reggere. E qui devo dire che le autorità italiane non hanno mostrato di voler valorizzare i tanti organismi del cosiddetto “terzo settore” che potrebbero fare un mondo di bene. Ho sottoscritto, assieme ad altri, un appello per avviare il servizio civile universale. Ci sono 80000 giovani che in base agli ultimi bandi sono pronti a lavorare gratuitamente per un anno. Lo stesso vale per molte fondazioni sanitarie. Sarebbe un vero e proprio esercito pronto a scendere in campo. Parliamo di circa 360 mila organizzazioni. Il problema è che ci sono alcuni settori che sono contrari al principio di sussidiarietà. C'è troppo dogmatismo e poca cultura. Prendiamo il tema della fragilità e della vulnerabilità, di cui si parla molto in questi giorni. Sfugge una distinzione fra queste due categorie. Noi in questi giorni siamo intervenuti a favore dei più fragili, di chi si trova in condizione di bisogno. Ed era giusto farlo. Ma la vulnerabilità è la condizione di chi, con una percentuale di probabilità superiore al 50 per cento, entro un determinato lasso di tempo potrebbe trovarsi fra quelli che oggi vengono  definiti fragili.
In questi giorni abbiamo sentito molti pareri, anche diversi, in merito agli effetti che il lockdown avrà sull'economia italiana e su quella mondiale. Si può dire ormai, almeno a grandi linee, quali saranno le principali emergenze che si dovranno affrontare nell'immediato?
R. - In primo luogo bisogna passare dal Welfare State alla Welfare Society: ammettere anzitutto che la salute non è un bene privato ma pubblico. Questo virus ce lo sta dimostrando chiaramente: se io mi ammalo finisco con il fare ammalare anche gli altri. Diventa un problema comune. Poi occorre passare dal modello  della cosiddetta “alternanza scuola-lavoro” alla “convergenza scuola-lavoro”, perchè i due mondi non sono alternativi. Nei progetti educativi bisogna introdurre il termine “conazione” (conoscenza e azione). Il sapere va usato in senso trasformativo. Oggi le imprese hanno fame di conoscenza eppure non riescono a impiegare chi la possiede. Naturalmente ciò comporta riscrivere l'architettura filosofica che è alla base della scuola. E' lo stesso concetto attorno al quale ruota il progetto educativo che il Papa ha inteso promuovere e che verrà rilanciato nei prossimi mesi. Un altro punto fondamentale è quello della deburocratizzazione. Nessuno ha l'onestà di dire che la burocrazia c'è per colpa di tutti i partiti politici, e sottolineo tutti,  che l'hanno creata a colpi di leggi a partire dagli anni '80 del secolo scorso in poi (il miracolo economico precedente si è potuto verificare proprio in assenza di questo genere di ostacoli). La burocrazia la si tiene in vita in virtù di quella che viene definita la rentseeking: non è altro che uno strumento per mantenere o estrarre rendita. Ecco, bisogna far partire una lotta senza quartiere contro le posizioni di rendita che si annidano nella burocrazia. Anche perché per mantenere il burocrate, per giustificare il suo stipendio, l'unico modo è fargli produrre carte su carte, in un processo autorigenerativo. Altro punto fondamentale è quello del tasso di imprenditorialità, che in Italia è calato molto: muoiono molte più imprese di quante ne nascano, e quando dicono “muoiono” mi riferisco anche a quelle che passano di mano ad aziende francesi o tedesche pur mantenendo il marchio formalmente invariato. C'è differenza fra imprenditorialità e managerialità. In Italia ci sono tanti bravissimi manager, abbiamo ottime e numerose business school. Il problema è che mentre il manager ha bisogno di tecnica, l'imprenditore ha bisogno di cultura, di alta cultura. E qui le nostre università hanno delle colpe, sfido chiunque a dimostrare il contrario. Infine c'è la questione della “tassazione promozionale”, quella che gli inglesi definiscono Optimal taxation theory: le tasse le deve pagare soprattutto chi ha rendita, non chi produce valore. Se questo facesse parte di un programma elettorale scommetto che la gente lo voterebbe in massa. Mi piacerebbe sapere cosa hanno da dire su questo punto i grandi fautori della meritocrazia...Se si fosse realmente meritocratici si dovrebbe essere d’accordo. Ma bisogna intervenire subito. Serve un think tank composto da esperti indipendenti, liberi da vincoli partitici, che  abbiano a cuore le sorti del paese e che nel termine di tre mesi siano in grado di elaborare un progetto.
Cosa ci ha insegnato, ci sta insegnando, questa pandemia, sotto il profilo dei rapporti economici e sociali?
R. - La lezione principale è che il modello liberista è il nemico numero uno. Fino a qualche tempo fa c'era chi ancora inneggiava al neoliberismo. O chi confondeva il globalismo con la globalizzazione, quando naturalmente si tratta di cose molte diverse. È sempre il vecchio concetto caro ad Adam Smith, secondo cui la marea quando si alza solleva tanto le imbarcazioni grandi quanto quelle piccole, la teoria secondo la quale in economia c'è sempre una mano invisibile che aggiusta  tutte le cose. C'è voluto il Papa con la Evangelii Gaudium a fare presente che non è così. Oggi chi ancora sostiene le posizioni neoliberiste o è un incompetente o lo fa in cattiva fede. La pandemia di questi giorni somiglia tanto  alla “distruzione creatrice” di cui parlava Joseph Schumpeter  nel 1912, quella che viene considerata la componente fisiologica del capitalismo, la cui ontologia ruota attorno appunto al principio darwiniano  del far morire per ricreare. Secondo l'economista austriaco, non c'è niente che si può fare per evitarlo. Il problema è che dalla dimensione economica questo principio si è spostato a livello sociale. E i più poveri, i più fragili, sono quelli che pagano. Lo vediamo in questi giorni, anche a livello sanitario, con la drammatica scelta di chi curare. Questo meccanismo va domato: la dimensione del creare deve prevalere su quella distruttiva, in modo che la prima possa compensare gli effetti della seconda. Ma sono certo che questo accadrà, perchè la gente sta aprendo gli occhi. Vede, bisogna distinguere sempre fra capitalismo ed economia di mercato. Dire che bisogna accettare il primo per salvare il secondo è una grande falsità. Dovremmo cambiare anche i libri di economia in uso all'università, che finora hanno insegnato questo. Poi naturalmente occorre continuare a lavorare anche sull'eccessiva finanziarizzazione dell'economia, che del resto è già entrata in crisi da tempo...
Didattica a distanza, smart working, telelavoro, ecommerce: meno tempo sprecato, meno inquinamento, maggiore efficienza. Sarà davvero questa l'eredità positiva che il virus lascerà al mondo o fatalmente si tornerà indietro?
R. - Se non fosse accaduto quello che è accaduto ci sarebbero voluti anni per convincerci ad andare in questa direzione. Ora, se non altro, possiamo dire che se dopo l'emergenza un'azienda non si adatta allo smartworking o al telelavoro la colpa è solo sua: la tecnologia, come si è visto, c'è e funziona senza particolari problemi. Purtroppo anche qui è ben presente la mentalità di cui si parlava prima, quella della rendita di posizione, del timore di usare criteri di valutazione diversi. Una trasformazione del genere farà cambiare anche i meccanismi di contrattazione collettiva e le relazioni industriali. Anche il mondo sindacale potrebbe venirne rinvigorito, a patto che i suoi esponenti ne siano all'altezza. Si dovrà essere pagati non in base al tempo di lavoro, ma in base ai progetti, imparare a valutare l'outcome, non l'output, il risultato finale, non il mero prodotto quotidiano.
Al momento comunque rimangono alcune note dolenti. O quanto meno alcune criticità. A suo parere come si sta comportando l'Europa? E' davvero a un bivio, come osservano in molti? Come ne uscirà?
R. - Ne uscirà rafforzata. Anche i paesi più ricchi della comunità si renderanno conto che occorre riscrivere i trattati, da quello di Maastricht a quello di Dublino. Di fronte a situazioni come quelle che stiamo vivendo, occorre prendere coscienza che non ci si può fermare all'unione monetaria ma occorre andare avanti. Torna anche qui il concetto di vulnerabilità: a un certo punto l'Europa si è sentita forte, meno fragile. Ma rimane al momento estremamente vulnerabile. Credo però, come già sta accadendo in questi giorni,  che gli antieuropeisti e i sovranisti, inevitabilmente, verranno messi a tacere. Almeno per qualche tempo.  I nazionalisti pretendono di essere interpreti del bene della nazione e degli interessi del popolo. La realtà ci dice invece che la salvezza è nella cooperazione.
Questo a livello europeo. In scala mondiale alcuni dei paesi più influenti o emergenti  sono guidati però da leader che nel passato si sono dimostrati un po' refrattari all'idea della cooperazione...
R.- In effetti, a livello mondiale sono un po' meno ottimista. La colpa anche qui è tutta occidentale. Siamo noi che abbiamo permesso che certi stati diventassero dei giganti economici, potenti ma fondati su linee di sviluppo così lontane da quelle proprie delle nostre democrazie e soprattutto così noncuranti dei diritti umani...Bisogna cambiare registro. E per  questo occorre un'Europa forte. Le potenzialità per primeggiare ci sono, ci sarebbero tutte. Eppure continuiamo ad azzannarci fra noi, a insistere su politiche di austerità che tra l'altro non hanno alcun vantaggio scientificamente fondato.
Quanto l'economia civile, l'economia verde, la microeconomia possono realmente costituire un'occasione concreta di sviluppo?
R. - L'economia civile è un paradigma teorico che viene rifiutato forse anche perché nasce in ambienti cattolici. Le sue caratteristiche sono semplici: non esclude nessuno dal mercato; afferma che il fine dell'agire economico è il bene comune, non il bene totale; afferma che l'ordine sociale è il frutto dell'interazione fra stato, mercato e società civile; non accetta il principio del “Noma”, dei Non-overlapping magisteria (la teoria secondo qui scienza e religione avrebbero aree di indagine diverse e non sovrapponibili, ndr). Quest'ultima è una teoria antica. Se ne può trovare origine sin dal  1829, quando Richard  Whatley, arcivescovo anglicano e professore di economia a Oxford, affermava che l'economia è una scienza neutrale che deve essere separata dall'etica e dalla politica. Un concetto antico ma assolutamente inaccettabile.
Chi a suo parere può assumere la leadership nel guidare questi processi innovativi?
R.- Questo è un falso problema. È l'uso che dà il metodo, secondo l'epistemologia: è una delle poche affermazioni di Kant sulle quali sono d'accordo. Prima di cercare il leader devi creare le coscienze. A quel punto il leader verrà fuori. Bisogna che la gente cambi, come dire, il mindset. Fece lo stesso anche Gesù, in fondo, affidandosi agli analfabeti, Pietro per primo, ed esortandoli ad andare in giro a convincere gli altri. Quando nelle persone inietti il desiderio del cambiamento, si è già a buon punto.




martedì 25 gennaio 2011

LA VIRTU' DEL SAPERE OZIARE

“Il lavoro nobilita l’uomo, rendendolo libero”. E’ questa la vera rivoluzione che la regola di San Benedetto, Ora et labora, mise in atto sovvertendo l’antica e scontata differenza classista tra otium e negotium. Quando il primo era prerogativa della nobiltà e il secondo dannato e amaro destino per gli umili o schiavi. Una rivoluzione dal respiro lungo, che ha accompagnato nel corso dei secoli la riscoperta dell’otium quale attività nobile del pensiero, nella contemplazione della verità, delle arti e della bellezza in genere. Rendendo primaria, già nel XV secolo, la necessità a praticarlo e coltivarlo. E che oggi fa dire al professor Stefano Zamagni, docente di Economia Politica all’Università di Bologna, presidente dell’Agenzia nazionale per le Onlus, nonché consulente economico di Benedetto XVI: “Che i tempi sono maturi per vivere il negotium in funzione dell’otium“. In pratica, vivere l’otium come il fine e il negotium come lo strumento per perseguirlo....

Leggi: Le virtù dell'economia dell'ozio

Come educare noi stessi e i nostri alunni al sano ozio?