Ogni pandemia modifica società e storia. Occorre riflettere sul Covid e la sua diffusione. Solo assumere ciascuno le proprie responsabilità, a tutti i livelli, consente di costruire futuro
Ad accomunare
l’attuale Covid–19 alle molte pestilenze della storia è un fatto del tutto
evidente: ancora una volta abbiamo a che fare con una epidemia che tende
inevitabilmente a evolvere in pandemia. Questa è la natura del morbo, che
infatti si trasmette per contagio e ci espone gli uni agli altri in un mondo
dove tutto è relazione. Per cui la vittima è a suo modo carnefice, l’infettato
è anche portatore dell’infezione. Detto ciò, un’ulteriore osservazione
s’impone, ed è che i fenomeni pandemici hanno sempre comportato autentiche
svolte e rivoluzioni nei modi di essere, negli atteggiamenti e negli stili di
vita.
Se la
cosiddetta peste di Giustiniano (541–542) annuncia la fine dell’Impero Romano e
inaugura il Medioevo, la peste nera del 1348–1350 fa da incubatrice del
passaggio all’Evo Moderno. Saranno pure ingenue o addirittura risibili le
litanie circa la necessità di cambiare registro a seguito della peste; ma se è
vero che l’essere umano resta sempre uguale a se stesso, e non c’è catastrofe
che possa farlo più responsabile o quanto meno più accorto, è anche vero che
dopo la peste, qualsiasi peste, sia quella descritta da Tucidide sia quelle di
cui ci hanno raccontato Boccaccio o Defoe o Manzoni, niente è più come prima.
Chiediamoci
dunque che cosa la pandemia, nella sua manifestazione più recente e tuttora in
corso, abbia da dirci sia rispetto al nostro passato sia rispetto al nostro
presente e al nostro futuro. E quindi: non solo come affrontarla con misure
efficaci, ma prima ancora come pensarla adeguatamente. Ciò appare tanto più
necessario e urgente, quanto più la pandemia, a ogni suo irrompere nel mondo
umano come se provenisse da un altro mondo, sembra avere questa caratteristica:
coglierci impreparati, lasciarci senza parole, umiliare qualsiasi pretesa di
invulnerabilità. Per averne la conferma basterà riandare a opere eminenti
dedicate al tema dalla letteratura negli ultimi cent’anni: da Il morbo
scarlatto di Jack London a La peste di Camus fino al
recente La strada di McCarthy.
Al primo
manifestarsi della forma in cui la peste si è presentata ai nostri giorni, cioè
il coronavirus, qualcuno ha evocato, quasi fossero strumenti non solo di
comprensione del fenomeno, ma anche di liberazione dai suoi effetti perniciosi,
categorie filosofiche che appartenevano a quella philosophia naturalis un
tempo abbracciante sia la teoria politica sia la medicina e che oggi sono state
rimesse in circolazione dalla biopolitica. Vengono da qui quelle che appaiono
vere e proprie pratiche salvifiche: tra le quali, in particolare, lo “stato di
eccezione” (cioè la sospensione di alcune libertà fondamentali dell’individuo,
da cui il lockdown) e l’“immunità di gregge”. Espedienti che si sono rivelati
fin da subito un grande equivoco, ma che hanno dato luogo a un dibattito assai curioso
e a tratti surreale.
Tanto lo stato
di eccezione quanto l’immunità di gregge appartengono a una filosofia diciamo
pure destinale, una filosofia della necessità (e non della libertà) che predica
l’abbandono al destino. Secondo una prospettiva del genere avremmo a che fare –
questo in sostanza è il ragionamento – con un’epidemia che non può non
diventare pandemia e che perciò può essere sconfitta solo per esaurimento della
sua carica virale. E quindi una cosa vale l’altra: sia la pena mortificante della
reclusione di massa sia il vitalismo idiota della sfida al virus sono in
funzione del decorso della malattia. Sembrano due strategie opposte, ma così
non è. In entrambi i casi l’idea è che per fermare l’infezione sia necessario
lasciarla sfogare. Certo, un conto è che ciò avvenga in una situazione
di promiscuità dal sapore vagamente libertino e un conto è che lo stesso
risultato sia ottenuto previo obbligo di clausura, distanziamento sociale e
separazione.
Tuttavia la
concezione di fondo è sostanzialmente identica e rimanda appunto a una
filosofia dove i comportamenti sono dettati dal potere centrale e non
assunti liberamente, responsabilmente: una filosofia della necessità, appunto.
Necessità è quella che soggiace sia alla clausura dello stato di eccezione
(dove la libertà è sacrificata sull’altare della protezione totale) sia
all’anarchia dell’immunizzazione perseguita attraverso una sorta di
autosacrificio (dove a immolarsi è colui che infettandosi pretende di salvare
se stesso e gli altri). In un caso come nell’altro si resta all’interno di una
logica sacrificale.
Purtroppo, né
lo stato di eccezione né l’immunità di gregge funzionano, come si è visto fin
da subito per quel che riguarda l’immunità di gregge e come si sta constatando
ora con la seconda ondata del contagio per quel che riguarda lo stato di
eccezione. L’immunità di gregge non funziona semplicemente perché i suoi costi
sono troppi alti. Il che vale per i costi sociali e ancor più per i costi
morali. Senza contare che mettere a repentaglio la propria vita per salvarla
non sembra essere una grande idea. A sua volta lo stato di eccezione non
funziona in quanto questa misura comporta una specie di eterogenesi dei fini.
Perseguendo la protezione dei cittadini attraverso metodi coercitivi, questa strategia
di contenimento induce inevitabilmente a trasgressioni inconsulte e raggiunge
esiti di segno contrario.
Né dell’una né
dell’altra si può dire che siano di per sé cattive teorie. E neppure che siano
buone teorie, però male applicate. Semplicemente, sono teorie che non hanno
presa sul fenomeno in questione, perché non sono in grado di spiegarlo, di
comprenderlo. Stiamo parlando del Covid, della pandemia di cui facciamo
attualmente esperienza, della peste del nostro tempo. Che sarà pure un destino.
Il nostro destino, però. Cioè tale da doversene assumere la responsabilità,
pena un esiziale farsi succubi di esso.
È proprio la
tragica realtà di questo virus a farcelo capire, se vogliamo capire. Il virus
non è caduto dal cielo. E neppure ci è stato mandato in punizione dei nostri
peccati. Ma indubbiamente si è sviluppato là dove il processo di violenta
antropizzazione del mondo mostra il suo lato perverso e ci chiama in causa,
inchiodandoci alle nostre responsabilità. Ecco, dunque, la parola–chiave:
responsabilità, responsabilità per il destino, che poi significa responsabilità
nei confronti di tutti gli altri e del luogo da tutti condiviso, la terra (alla
quale siamo affidati e che ci è stata affidata). Possiamo dimenticarcene nel
momento in cui si tratta di affrontare la pandemia? E magari illuderci di
risolvere il problema a colpi di diktat anonimi, invece che farci carico
responsabilmente dei nostri comportamenti?
Cominceremo a
vedere un po’ di luce in fondo al tunnel magari quando il lockdown sarà diventato
clausura non imposta, scelta consapevole. Allora della filosofia del sospetto
(sospetto che il Covid nasconda trame occulte e quanto meno un intento
liberticida da parte di misteriose forze antidemocratiche) non sapremo più che
farcene. Ne sorrideremo come oggi sorridiamo di don Ferrante e del suo
prendersela con le stelle.
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