Il labirinto delle regioni italiane
che tiene in ostaggio l’Italia
Il virus ha fatto scoppiare le tante contraddizioni politiche e istituzionali del nostro Paese, che si trova in balia dei presidenti regionali e delle loro pretese. È in atto una mutazione sociale che ha fatto saltare i fragili paletti del regionalismo italiano, immaginato come applicazione del principio di sussidiarietà e poi trasformato in una balcanizzazione di competenze e poteri
Il labirinto
ha accompagnato l’uomo assumendo di volta in volta le sembianze della
persecuzione, dell’intolleranza, dell’inquisizione, dei manicomi, dei gulag
stalinisti, dei campi di concentramento nazisti, degli sterminati campi
profughi che costellano il mondo globalizzato. Sempre istituzione totale,
sempre funestato dalla grande menzogna – arbeit macht frei –
di un paradiso prossimo venturo come nel libro Asylums del sociologo canadese
Erwin Goffman del 1961, ripubblicato nel 2001 con la prefazione di Franco
Basaglia e Franca Ongaro. Un breviario cult, coevo di tanti
altri che hanno formato una generazione. Nascosto in non so più quale ripiano
della biblioteca, ne ricordo ancora la copertina bipartita orizzontalmente nei
colori del blu e del bianco.
Il tema ha
attraversato le epoche della Storia, ha ispirato la letteratura da Ovidio a
Dante Alighieri a Gabriele D’Annunzio, da Jorge Luis Borges a Friedrich
Durrenmatt, da Italo Calvino di cui ho scritto in più occasioni e da Pier Paolo Pasolini a
Mircea Eliade, a Umberto Eco; è stato modello per l’architettura ed i decori
delle grandi cattedrali gotiche da Ravenna a Chartres, da Colonia a Telemark;
per le arti visive da Pablo Picasso, a Jason Pollock, da Mirò a Escher; per il
cinema, a partire dal Gabinetto del Dottor Calligaris che compie cento anni e
poi Shining, Harry Potter, il Labirinto del Fauno, Il Nome della Rosa e mille
altri horror/fantasy movies dai padri più o meno illustri.
Psicoanalisi junghiana ed arte topiaria ne hanno indagato i significati ed
arricchito menti, palazzi della memoria e giardini segreti che poi sarebbero la
stessa cosa, almeno secondo il Doctor Hannibal Lecter. Il simbolo più iconico
dell’era digitale, il Qrcode, né è la rappresentazione più recente
e avvera antiche profezie ctonie.
Il labirinto
tuttavia non è solo disperazione e follia poiché contiene anche la promessa di
una via d’uscita il cui prezzo è altissimo e produce una selezione spietata tra
quanti lo attraversano. Una sfida all’intelligenza umana che può, se capace, di
sconfiggere le astuzie del suo mitico costruttore, come accade, già nel mito,
attraverso l’intervento di Arianna che, come tutte le donne, tiene in mano la
vita di Teseo, maschio spaccone che, altrimenti, sarebbe rimasto a far
compagnia per sempre al cadavere del mostro in attesa, almeno secondo il
bibliotecario di Buenos Aires, di essere liberato dal proprio destino: «Lo
crederesti Arianna – disse Teseo – il Minotauro non si é quasi difeso».
Labirintica
è la burocrazia de Il Castello di Franz Kafka ma anche la memoria di Marcel
Proust che percorre i sentieri intricati della Recherche e vi
si perde magnificamente perché il dedalo è anche il mondo della menzogna, delle
piste false, dei mille tranelli che oggi chiamiamo fakenews; la
vertigine vi regna sovrana.
Labirintica
è la società complessa dove la verità è un mito e in cui si sopravvive solo
attraverso la mediazione tra culture, sentimenti, costumi, fede e ragione e
che, in assenza dei necessari anticorpi, spesso travolge anche ciò che si
riteneva valore irrinunciabile.
Intricati e
infidi sono infine i sentieri dei “nidi di ragno” della politica dei giorni
nostri popolata da minotauri di diversa natura e statura che spesso però
nascondono i propri piedi d’argilla urlando e imprecando o ricorrendo a
seduzioni e blandizie non meno inquietanti. Forse, in fondo, come ogni serial
killer che si rispetti, coltivano inconsciamente il desiderio di essere
scoperti e neutralizzati.
Il labirinto
italiano è in questi giorni sotto gli occhi di tutti. Un microscopico virus è
bastato a far scoppiare le tante contraddizioni politiche ed istituzionali di
un Paese che, per la verità, lineare non è mai stato come ben scrivevano Dante
Alighieri nel ben noto accostamento al lupanare, Niccolò Guicciardini nel
Proemio alla Storia d’Italia e Giacomo Leopardi «O Patria mia vedo le mura e
gli archi e le colonne, i simulacri e l’erme torri degli avi nostri ma la
gloria non vedo, non vedo il lauro… Chi la ridusse a tale? E questo è peggio
che di catene ha carche ambe le braccia; si che sparte le chiome e senza velo
siede in terra negletta e sconsolata» e via poetando nella lirica civile
All’Italia, pubblicata quasi duecento anni fa.
Sarà per
questo che i nostri partners del nord Europa che di dubbi si intendono perché
ne appresero da Cartesio, a cui ciò costò una polmonite fatale nella fredda
Stoccolma di esattamente di trecentosettanta anni or sono? Adorano il nostro
stile di vita, come tutti amiamo fare almeno una volta nella vita, un giro
sulla ruota del Prater o provare un brivido nel tunnel dell’orrore di Madame
Tussauds o nell’ottovolante di Legoland, ma non ci stimano e non
acquisterebbero mai una nostra automobile, né nuova né, tanto meno, usata. Per
loro il labirinto italiano è inconcepibile.
Come baroni
rampanti e (vis)conti dimezzati si aggrappano a precarie liane con cui ci
sbalzano da una promessa di eterna cuccagna a ben più risicate speranze cui
abbocchiamo volentieri mentre il Paese brucia. Ieri la sconfitta della povertà,
le vacanze estive con tanto di bonus farlocco, oggi il Natale agitato come una
carota che compensi il bastone, domani il vaccino anti Covid 19 che ci di farà
assistere ad una nuova versione dell’assalto al Forno delle Grucce.
A complicare
un DNA già bizzarro, sembra contribuire ora una nuova mutazione sociale che fa
saltare i fragili paletti dell’impianto istituzionale e sta trasformando alcune
opportunità contenute nel regionalismo italiano, raggiunto oltre trent’anni
dopo il varo della Costituzione, immaginato come applicazione del principio di
sussidiarietà e poi trasformato in una balcanizzazione di competenze e poteri,
complice anche l’insano desiderio del centro sinistra di inseguire la Lega di
Bossi e di Maroni, dovuta alla modifica del Titolo V della Carta nel
2001.
Un’Italia
non più desta ma addormentata nella presa d’atto della divisione socio
economica del Paese in tre parti fortemente differenziate, si avventurò in una
sorta di coitus interreptus da cui, nonostante ciò, nacquero
omuncoli, immediatamente autonominatisi “governatori”. Come se già non fosse
bastata l’anomalia delle regioni a Statuto speciale, frutto di un compromesso
penoso per contenere il separatismo siciliano, l’emarginazione sarda e le
pulsioni centrifughe di Friuli, Val d’Aosta e Trentino Alto Adige, descritte
non male da Lilli Gruber nel libro Inganno, tre ragazze, il Sud Tirolo in
fiamme e i misteri della guerra fredda, pubblicato nel 2018 da Rizzoli.
Nel
frattempo gli omuncoli si sono creduti statisti, hanno cominciato a discettare
sui massimi sistemi e ad allevare precarie classi dirigenti, spesso sciolte da
criteri costituzionali in merito ad assunzioni, incarichi, responsabilità. Fine
dello stato unitario non sostituito da quel federalismo che ebbe in Gianfranco
Miglio un discusso quanto competente e sincero apostolo messo da parte dalla
corte di Ponte di Legno nel 1994.
Venti nuovi
minotauri sono apparsi nel labirintico impianto istituzionale italiano pronti a
divorare risorse, a distruggere il Sistema Sanitario Nazionale e in molti casi
ad accentuare il divario storico della penisola in cui frattanto si aboliva la
Cassa per il Mezzogiorno, fomite di mille sprechi, senza sostituirla con nuovi
e più moderni strumenti perequativi. Si apriva in compenso il concilio
diabolico della Conferenza Stato Regioni, palcoscenico su cui si confrontano
stato centrale e presidenti delle regioni e dove, al confronto, la cacofonia
delle lingue seguito al crollo della Torre di Babele, suona come un’armonia
mozartiana.
Nel paese
delle mille amnistie politiche che tanto hanno influito in passato anche sulla
mancata defascistizzazione del Paese, nessun risponderà mai di quel crimine
istituzionale e l’autore continuerà a sorridere sotto i baffi, contemplando il
disastro che ne è conseguito non perché l’intento fosse errato quanto perché
inaffidabili e in mala fede erano i padrini di battesimo e ben nota la
tradizione italiana di partorire riforme deformi, in quanto monche e
incompiute, ma di grande impatto sulla vita dei cittadini.
La lista è
lunga e dà vertigini che è meglio non incrementare in questa fase ma di cui
occorrerà tener conto quando e se un giorno diventeremo un “paese normale.”
Vasto programma cui nessuno sembra essere disposto a porre mano con la dovuta e
necessaria capacità di visione, grande assente da oltre mezzo secolo nella
politica italiana.
Di emergenza
in emergenza si procede nei tortuosi meandri del labirinto, ostinandosi a
percorrere percorsi già battuti, avvitandosi in polemiche e recriminazioni che
allontanano dall’uscita di cui non si intravede alcun timido bagliore. Eppure
non mancherebbero le risorse di pensiero, di competenze, di innovazione sempre
più residue, visto che le più recenti le abbiamo da tempo regalate ad altri
paesi vicini o lontanissimi. Proprio come nel labirinto di Minosse dove ogni
anno venivano inviate sette fanciulle e sette fanciulli ateniesi, perché
fossero pasto per il Minotauro.
Il paradosso
del labirinto minoico è frutto di accoppiamenti inusuali. Il luogo è infatti
costruito da Dedalo e dal figlio Icaro per contenervi il mostro generato
dall’adulterio consumato tra Pasifae, moglie lubrìca del re di Creta e un toro
sottratto da Minosse al sacrificio promesso a Poseidone. L’amplesso contro
natura era stato reso possibile dal medesimo Dedalo che aveva costruito per
l’ardente Pasifae un’armatura in forma di vacca che inducesse il toro truffato
a fare comunque il proprio dovere.
Ed è qui che
le analogie con la labirintica situazione della situazione politica dei nostri
giorni si aprono in un ventaglio come quello dipinto da Edouard Manet nel 1872
e conservato nel Museo d’Orsay, dietro cui la donna ritratta, probabilmente una
prostituta, nasconde vergognosamente il proprio volto e non occorre disturbare
Massimo Recalcati per coglierne gli elementi simbolici.
Asterione,
con testa di toro e corpo umano, nasce dunque dall’unione innaturale tra una
forza sana e vitale, almeno in origine, quale quella del toro e la perversa e
lubrica passione di Pasifae che impone il proprio potere regale a Dedalo il
quale, illecitamente pronubo, acconsente, tradendo così il proprio sovrano, due
volte becco a questo punto. A tempo debito Minosse si vendicherà rinchiudendolo
nel labirinto insieme al figlio Icaro. Ne usciranno volando, ma questa è
un’altra storia.
Lascio al
lettore di assegnare in tale gioco delle parti i ruoli che preferisce, tuttavia
resta il fatto che dall’unione nasce un soggetto ibrido che sfida la natura
(non a caso tale termine deriva dal greco Hybris che vuol dire
peccato,tracotanza, trasgressione); come tale vivrà ma sarà sterile, come
accade per il più mite mulo o per il cugino bardotto. Sui rischi etici
dell’ibridazione, primo tra tutti quello tra l’uomo e la macchina, il dibattito
è in corso. Ne ho scritto e ne scriverò, ma non qui e non ora.
Per
ristabilire l’equilibrio naturale, l’omeostasi, occorre come sempre un
antagonista pronto a sacrificare, se necessario, la propria esistenza. Nel mito
tale ruolo è rivestito da Teseo il cui nome deriva da thesmos che
dal greco si traduce “istituzione”. Determinato ad interrompere il massacro
annuale dei propri quattordici giovani compatrioti ateniesi, si offre
volontario tra di essi, con l’intento di uccidere il mostro. Sarebbe destinato
a fallire, se non per mano del Minotauro quanto per l’impossibilità di uscire
del labirinto, ma sarà salvato dalla saggia Arianna, una delle figlie della
coppia Pasifae-Minosse, dunque sorellastra del Minotauro, che, innamoratasi
dell’eroe, gli offre il fatidico filo seguendo a ritroso il quale, egli potrà
salvarsi, dopo aver ucciso il mostro, metafora della degenerazione del
Potere.
L’istituzione
guidata dalla razionalità avrà dato senso al coraggio guascone e sarà riuscita
a prevalere sull’istinto belluino, ristabilendo l’ordine naturale. Tuttavia il
disordine è sempre in agguato e l’ingrato Teseo, abbandonata Arianna,
dimenticherà di issare la vela bianca convenuta come segnale per il padre in
trepida attesa che, disperato, si lancerà in mare da una rupe, libra di carne
umana dovuta a Poseidone defraudato del toro che gli spettava. Tutto si tiene
nell’equilibrio spietato del mito. Teseo diventerà re di Atene e leggendario
fondatore della democrazia, proprio in quanto rigeneratosi nel labirinto,
sopprimendo il frutto avvelenato del potere assoluto ed acquisendo gli anticorpi
di sentimento e ragione in pari ed equilibrata misura di cui ho scritto martedì scorso.
C’è stato un
tempo in cui ai bambini si narravano “I miti degli dei e degli eroi” contenuti
in un poderoso volume da cui nonni saggi traevano gli episodi più adatti a
fornire sin dalla più tenera età le chiavi per comprendere il mondo
occidentale, come, con altri miti, suppongo avvenisse in altre società più
lontane. Ne ebbero giovamento anche quando, per diversa inclinazione o per
superficialità, non frequentarono successivamente il liceo classico dove quei
racconti infantili sarebbero divenuti radici possenti di una cultura personale
di base, immune da pifferai, illusionisti e giocolieri. Finti tesei,
improbabili arianne, veri minosse e plausibili pasifae si aggirano nell’Italia
di oggi, perduti nel labirinto della pandemia italiana dai colori
miracolosamente cangianti. Per essi nessun filo salvifico, nessuna speranza di
imboccare il percorso verso l’uscita, soltanto, ad ogni svolta, la concreta
possibilità di incontrare il minotauro che vive, a loro insaputa, dentro di
essi.
Nel 1960 il
filosofo ebreo, premio Nobel 1981 per la letteratura, Elias Canetti, pubblicava
per Adelphi, con la prefazione del compianto amico e maestro Furio Jesi, il
libro Massa e Potere, frutto del trauma giovanile vissuto nel 1922 durante le
manifestazioni seguite all’uccisione da parte dei Freikorps di
estrema destra, una sorta di proud guys di cento anni fa, di
Walther Rhatenau, ministro degli esteri della Repubblica di Weimar al tramonto.
L’opera è un vero e proprio compendio del labirinto costruito dal potere perché
la massa vi smarrisca il senso comune, si nutra di paura, vi perda senno e
dignità; un non luogo dove ogni resistenza è sopita, ogni volontà annullata e
si è pronti ad “amare” perfino il carceriere, colti da una tragica sindrome di
Stoccolma, perché l’incubo finisca. Nonostante l’imponenza del testo e le
infinite citazioni e note a margine, andrebbe riscoperto e proposto alle nuove
generazioni che, a frotte ben più affollate delle schiere dei giovanetti
ateniesi, nel labirinto rischiano di entrare ogni giorno, senza rendersene
conto.
A settembre
ci ha lasciato Franco Maria Ricci, l’editore visionario, mecenate, esteta della
bellezza, cultore della spiritualità delle cose, inventore del più grande
labirinto del mondo realizzato a Fontenellato in provincia di Parma. Nell’intervista rilasciata a Gianmarco Aimi ebbe a
dire «Il labirinto è un percorso dell’anima, un perdersi per ritrovarsi, oggi
l’idea di smarrirci genera timore ed angoscia. Il percorso all’interno del mio
labirinto dovrebbe invece servire a ritrovare la serenità, il silenzio, se
stessi».
Due visioni
apparentemente opposte ma animate l’una dalla religiosità ebraica fondata sul
concetto di popolo e della sua aspirazione all’esodo dalla schiavitù e
alla liberazione e l’altra dalla dimensione contemplativa della fede
cristiana, entrambe radici irrinunciabile dell’identità di Europa, scelta da
Zeus trasformatosi in toro non per lussuria ma per amore e madre di
Minosse. Per tale uguale ma opposta spinta generativa, nessun minotauro
potrà mai minacciarla, finché saprà trarre dal mito originario che la
unifica il significato più profondo del proprio destino e trovare il filo che
restituisce alla vita e alla libertà.
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