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lunedì 28 dicembre 2020

PANDEMIA. I RAGAZZI E LA LORO FRAGILITA'

Medicina solidale, pandemia: molti i ragazzi lasciati soli con le loro fragilità

Capire quali sono i disagi e i timori nati a causa della pandemia e dal lungo isolamento in casa con cui si sono trovati a fare i conti tanti bambini e adolescenti. Questo il filo conduttore del webinar “I Minori e le tutele ai tempi del Covid. Ansie, paure, violenze e devianze del mondo giovanile recluso in casa”

                            -         Marina Tomarro -


I lunghi lockdown imposti dall’emergenza sanitaria del Covid, hanno cambiato la vita di tutti. Soprattutto per i bambini e i ragazzi, sono mutate radicalmente le abitudini quotidiane. La scuola è diventata on line, i compagni di classe, i professori e le maestre visti quasi sempre solo attraverso uno schermo, le attività extrascolastiche, le attività fisiche, la palestra, la danza, la musica e il teatro sono state interrotte, portando spesso i piccoli e i più grandi ad un pericoloso isolamento. Il webinar “I Minori e le tutele ai tempi del Covid. Ansie, paure, violenze e devianze del mondo giovanile recluso in casa” promosso dalle associazioni Medicina Solidale e Dorean Dote e dall’osservatorio sui minori “Fonte d’Ismaele”, vuole fare un punto proprio su queste problematiche nate con l’arrivo della pandemia. L’incontro potrà essere seguito attraverso la pagina Fb dell’associazione Medicina Solidale.

La scuola: un luogo sicuro per i piccoli

“Venendo meno la scuola – spiega Lucia Ercoli, Responsabile Sanitaria dell'Istituto di Medicina Solidale Onlus – è mancato uno dei pilastri più importanti per l'accoglienza e l'accompagnamento delle nuove generazioni. La scuola infatti, spesso si ritrova anche a supplire la funzione educativa della famiglia, che in questi anni è stata oggetto di una serie di trasformazioni sociali e culturali che ne ha estremamente indebolito l'assetto costitutivo. La scuola spesso si è trovata a svolgere anche la funzione educativa per i bambini più vulnerabili, per quelli che non hanno alternativa e a volte non hanno neanche una casa. Questo, naturalmente, ha creato un vuoto. E per i bambini, ogni giorno può essere decisivo per quello che sarà il loro futuro. Ogni giorno sottratto è un pezzo di vita che viene a meno”.

La fragilità della famiglia oggi

Eppure, proprio la famiglia avrebbe dovuto rappresentare il supporto principale per questi bambini e adolescenti. Anche Papa Francesco, ha spesso invitato le famiglie a riscoprire questi momenti in cui si deve stare di più in casa, come un tempo prezioso per conoscersi meglio. “Oggi - aveva sottolineato il Pontefice nell’omelia della messa del mattino a Santa Marta lo scorso 21 marzo -  vorrei ricordare le famiglie che non possono uscire di casa. Forse l’unico orizzonte che hanno è il balcone. E lì dentro, la famiglia, con i bambini, i ragazzi, i genitori… Perché sappiano trovare il modo di comunicare bene tra loro, di costruire rapporti di amore nella famiglia, e sappiano vincere le angosce di questo tempo insieme, in famiglia. Preghiamo per la pace delle famiglie oggi, in questa crisi, e per la creatività”. Ma non sempre purtroppo è andata così. “La famiglia - continua Lucia Ercoli -  è un istituto che è stato fortemente minacciato e compromesso e non solo sul piano delle risorse. Anche sul piano culturale e antropologico, è stato tutto sovvertito e sui ragazzi ha avuto un’influenza molto negativa”. 

Saper ascoltare senza giudicare

È quindi necessario un cambiamento che parta dai più grandi, in modo che diventino guide sicure per sostenere le nuove generazioni a superare i traumi lasciati da questo lungo periodo di cambiamenti. “Per aiutare i ragazzi – sottolinea la responsabile sanitaria – gli adulti devono cominciare a ritornare con la memoria a quando avevano quell'età, ricordare che cosa è stata la loro infanzia, cosa è stata l'adolescenza, recuperarne le emozioni, le paure, i sentimenti, e con occhi nuovi guardare i figli, o gli alunni facendo un passo indietro e dando loro lo spazio per potersi raccontare e rivelare per quello che sono, ascoltandoli senza pregiudizi”.

 

Vatican News

 

 


mercoledì 11 novembre 2020

IL MORBO E LA SUA URGENZA FILOSOFICA

    «Quando il lockdown sarà diventato clausura non imposta ma scelta consapevole, allora del sospetto di trame occulte non sapremo più che farcene, ne rideremo come di don Ferrante...» 

Ogni pandemia modifica società e storia. Occorre riflettere sul Covid e la sua diffusione. Solo assumere ciascuno le proprie responsabilità, a tutti i livelli, consente di costruire futuro

 -          di SERGIO GIVONE

      

Ad accomunare l’attuale Covid–19 alle molte pestilenze della storia è un fatto del tutto evidente: ancora una volta abbiamo a che fare con una epidemia che tende inevitabilmente a evolvere in pandemia. Questa è la natura del morbo, che infatti si trasmette per contagio e ci espone gli uni agli altri in un mondo dove tutto è relazione. Per cui la vittima è a suo modo carnefice, l’infettato è anche portatore dell’infezione. Detto ciò, un’ulteriore osservazione s’impone, ed è che i fenomeni pandemici hanno sempre comportato autentiche svolte e rivoluzioni nei modi di essere, negli atteggiamenti e negli stili di vita.

Se la cosiddetta peste di Giustiniano (541–542) annuncia la fine dell’Impero Romano e inaugura il Medioevo, la peste nera del 1348–1350 fa da incubatrice del passaggio all’Evo Moderno. Saranno pure ingenue o addirittura risibili le litanie circa la necessità di cambiare registro a seguito della peste; ma se è vero che l’essere umano resta sempre uguale a se stesso, e non c’è catastrofe che possa farlo più responsabile o quanto meno più accorto, è anche vero che dopo la peste, qualsiasi peste, sia quella descritta da Tucidide sia quelle di cui ci hanno raccontato Boccaccio o Defoe o Manzoni, niente è più come prima.

Chiediamoci dunque che cosa la pandemia, nella sua manifestazione più recente e tuttora in corso, abbia da dirci sia rispetto al nostro passato sia rispetto al nostro presente e al nostro futuro. E quindi: non solo come affrontarla con misure efficaci, ma prima ancora come pensarla adeguatamente. Ciò appare tanto più necessario e urgente, quanto più la pandemia, a ogni suo irrompere nel mondo umano come se provenisse da un altro mondo, sembra avere questa caratteristica: coglierci impreparati, lasciarci senza parole, umiliare qualsiasi pretesa di invulnerabilità. Per averne la conferma basterà riandare a opere eminenti dedicate al tema dalla letteratura negli ultimi cent’anni: da Il morbo scarlatto di Jack London a La peste di Camus fino al recente La strada di McCarthy.

Al primo manifestarsi della forma in cui la peste si è presentata ai nostri giorni, cioè il coronavirus, qualcuno ha evocato, quasi fossero strumenti non solo di comprensione del fenomeno, ma anche di liberazione dai suoi effetti perniciosi, categorie filosofiche che appartenevano a quella philosophia naturalis un tempo abbracciante sia la teoria politica sia la medicina e che oggi sono state rimesse in circolazione dalla biopolitica. Vengono da qui quelle che appaiono vere e proprie pratiche salvifiche: tra le quali, in particolare, lo “stato di eccezione” (cioè la sospensione di alcune libertà fondamentali dell’individuo, da cui il lockdown) e l’“immunità di gregge”. Espedienti che si sono rivelati fin da subito un grande equivoco, ma che hanno dato luogo a un dibattito assai curioso e a tratti surreale.

Tanto lo stato di eccezione quanto l’immunità di gregge appartengono a una filosofia diciamo pure destinale, una filosofia della necessità (e non della libertà) che predica l’abbandono al destino. Secondo una prospettiva del genere avremmo a che fare – questo in sostanza è il ragionamento – con un’epidemia che non può non diventare pandemia e che perciò può essere sconfitta solo per esaurimento della sua carica virale. E quindi una cosa vale l’altra: sia la pena mortificante della reclusione di massa sia il vitalismo idiota della sfida al virus sono in funzione del decorso della malattia. Sembrano due strategie opposte, ma così non è. In entrambi i casi l’idea è che per fermare l’infezione sia necessario lasciarla sfogare. Certo, un conto è che ciò avvenga in una situazione di promiscuità dal sapore vagamente libertino e un conto è che lo stesso risultato sia ottenuto previo obbligo di clausura, distanziamento sociale e separazione.

Tuttavia la concezione di fondo è sostanzialmente identica e rimanda appunto a una filosofia dove i comportamenti sono dettati dal potere centrale e non assunti liberamente, responsabilmente: una filosofia della necessità, appunto. Necessità è quella che soggiace sia alla clausura dello stato di eccezione (dove la libertà è sacrificata sull’altare della protezione totale) sia all’anarchia dell’immunizzazione perseguita attraverso una sorta di autosacrificio (dove a immolarsi è colui che infettandosi pretende di salvare se stesso e gli altri). In un caso come nell’altro si resta all’interno di una logica sacrificale.

Purtroppo, né lo stato di eccezione né l’immunità di gregge funzionano, come si è visto fin da subito per quel che riguarda l’immunità di gregge e come si sta constatando ora con la seconda ondata del contagio per quel che riguarda lo stato di eccezione. L’immunità di gregge non funziona semplicemente perché i suoi costi sono troppi alti. Il che vale per i costi sociali e ancor più per i costi morali. Senza contare che mettere a repentaglio la propria vita per salvarla non sembra essere una grande idea. A sua volta lo stato di eccezione non funziona in quanto questa misura comporta una specie di eterogenesi dei fini. Perseguendo la protezione dei cittadini attraverso metodi coercitivi, questa strategia di contenimento induce inevitabilmente a trasgressioni inconsulte e raggiunge esiti di segno contrario.

Né dell’una né dell’altra si può dire che siano di per sé cattive teorie. E neppure che siano buone teorie, però male applicate. Semplicemente, sono teorie che non hanno presa sul fenomeno in questione, perché non sono in grado di spiegarlo, di comprenderlo. Stiamo parlando del Covid, della pandemia di cui facciamo attualmente esperienza, della peste del nostro tempo. Che sarà pure un destino. Il nostro destino, però. Cioè tale da doversene assumere la responsabilità, pena un esiziale farsi succubi di esso.

È proprio la tragica realtà di questo virus a farcelo capire, se vogliamo capire. Il virus non è caduto dal cielo. E neppure ci è stato mandato in punizione dei nostri peccati. Ma indubbiamente si è sviluppato là dove il processo di violenta antropizzazione del mondo mostra il suo lato perverso e ci chiama in causa, inchiodandoci alle nostre responsabilità. Ecco, dunque, la parola–chiave: responsabilità, responsabilità per il destino, che poi significa responsabilità nei confronti di tutti gli altri e del luogo da tutti condiviso, la terra (alla quale siamo affidati e che ci è stata affidata). Possiamo dimenticarcene nel momento in cui si tratta di affrontare la pandemia? E magari illuderci di risolvere il problema a colpi di diktat anonimi, invece che farci carico responsabilmente dei nostri comportamenti?

Cominceremo a vedere un po’ di luce in fondo al tunnel magari quando il lockdown sarà diventato clausura non imposta, scelta consapevole. Allora della filosofia del sospetto (sospetto che il Covid nasconda trame occulte e quanto meno un intento liberticida da parte di misteriose forze antidemocratiche) non sapremo più che farcene. Ne sorrideremo come oggi sorridiamo di don Ferrante e del suo prendersela con le stelle.

 www.avvenire.it

martedì 7 luglio 2020

IL SOLE ADDOSSO E IL SOLE NEL CUORE PER RITORNARE A VIVERE


Luce e calura estiva respingono il Covid 
e richiamano noi 
ex reclusi sfiniti

di MARINA CORRADI

«Abbiamo incrociato i dati dell’irraggiamento solare in 246 Paesi del mondo tra il 15 gennaio e il 30 maggio e quelli della prevalenza di infezione da Sars-CoV-2 diffusi dall’Oms. C’è una relazione quasi perfetta tra i due dati: al crescere dell’irraggiamento solare diminuisce il numero di nuovi contagi». La ricerca di cui Enrico Negrotti ha riferito su 'Avvenire' di domenica 28 giugno è firmata da Università degli Studi di Milano, Irccs Fondazione Don Gnocchi, Istituto nazionale di astrofisica e Istituto nazionale dei tumori. Il Sole, la forza del Sole contro il virus della pandemia globale. Una di quelle notizie che allargano un po’ il cuore.
Il Sole dunque agisce e incide nel gran teatro dell’epidemia. Ne basta poco, dicono gli scienziati: «Basta una tenue dose di Uv-C, pari a 3,4 millijoule per centimetro quadro, per inattivare completamente il virus, anche alle dosi più alte. (...) Poi abbiamo ripetuto l’esperimento con gli Uv-A e gli Uv-B, che al contrario degli Uv-C raggiungono la Terra, e il risultato è stato lo stesso».
Non so quanto sia un millijoule di Sole, e credo non lo sappia il 99,9 per cento degli italiani. Tuttavia in quell’ultimo caldissimo week end di giugno, e mentre entriamo nel primo e altrettanto afoso fine settimana di luglio, in tanti abbiamo avuto la sensazione che le centinaia di migliaia di persone pronte a correre al mare o in montagna, su treni affollati, o affrontando in auto code di ore, stiano come rispondendo a un istintivo segnale, dopo mesi passati chiusi in casa. Il Sole altissimo, allo zenit, del solstizio d’estate, la vampata del caldo africano, la luce di interminabili tramonti, sembrano convocare una moltitudine di italiani a un non scritto appuntamento: con l’estate, col grande Sole del Mediterraneo. 
Sfiniti da mesi immobili fra quattro mura, stanchi, forse, anche di avere paura, ora che il nemico sembra indebolito, in quanti non hanno rinunciato al desiderio di vedere il mare, di sentire il Sole bruciare sulla pelle o colmare l’aria tersa delle cime alpine. Tanti sono stati quelli che hanno risposto all’appuntamento con l’estate che certi viaggi sono stati odissee. 
Eppure li stiamo vedendo, finalmente sulla riva, pallidi di un lunghissimo inverno: chiassosi, disordinati e – è vero – anche non rispettosi del decretato distanziamento. Ma felici: come bambini. Bambini che ritrovano una gioia che credevano perduta: il mare c’è ancora, il Sole del mezzogiorno di giugno e di luglio ancora picchia come un fabbro su un’incudine, e, alzando gli occhi, non si riesce a sostenerne la luce. Non sai quanto è un millijoule di Sole, ma te lo senti addosso quel fiato benefico, quel fuoco che indora il grano, e piega i rami degli alberi sotto il peso dei frutti maturi.
Quel primo week end d’estate del 2020 e, ora, questo secondo son quasi un’inconscia transumanza. Con lo smartphone in mano e il navigatore in auto a guidarci, ma convocati dal Sole: come un’umanità antica, migrante verso il caldo e la luce. E certo, assai pochi si tengono regolarmente distanziati, e dalle auto dei più giovani viene un’assordante musica da discoteca, e l’assalto ha avuto e ancora ha qualcosa di sguaiato; e sembra quasi che molta Italia abbia solo voglia di dimenticarsi del Covid. Eppure, tra questi bagnanti sulle spiagge ci sono anche i medici e gli infermieri che vedevamo, in tv, bardati di tute da astronauti, combattere l’epidemia senza fermarsi, da mattina a sera. Ci sono alcuni che nella strage della Bergamasca o del Lodigiano hanno perso un padre, o un nonno. Ci sono certamente quelli che nelle albe ancora buie di marzo formavano interminabili code davanti ai supermercati. E c’è chi guida le ambulanze, o porta viveri ai poveri e ai disoccupati.
Ci sono, nella folla esplosa sulle strade e sulle spiagge, quelli che faticosamente hanno tenuto per mesi i bambini prigionieri in casa. Ed eccoli, finalmente al mare. I bambini liberati corrono come leoncelli, scavano, costruiscono castelli, o affrontano per la prima volta le onde in braccio alla mamma. E come ridono quando l’acqua li accarezza, come tendono le mani a quella sostanza trasparente, azzurra, volendola stringere, afferrare. E tu che li stai a guardare hai proprio tutto, nel cuore: le corsie di quel certo ospedale, i camion carichi di bare a Bergamo, le sirene d’ambulanza laceranti il silenzio di una Milano immobile. Sai di oltre trentamila morti, ne hai memoria, eppure pensi che è dovere dei vivi, vivere. Che, fossi morta tu, vorresti che i tuoi figli riprendessero a vivere. E a portare i loro bambini al mare, felici sotto a questo eterno Sole che torna, e risana e rinvigorisce. Quanti millijoules annientano il nemico? Non lo sappiamo, ma ancestralmente conosciamo il bene di questa luce fedele e feconda. E la inseguiamo come si cerca una sorgente limpida, dopo un livido inverno di dolore e di morte. 
Abbracciamo il Sole, allora, e dal suo calore lasciamoci abbracciare. E proviamo a essere saggi quanto basta per poter continuare a farlo.






sabato 9 maggio 2020

UN DILEMMA: SALUTE O ECONOMIA?

In tempi di coronavirus, e soprattutto adesso che in molti Paesi, tra cui l’Italia, comincia la cosiddetta “fase 2”, è frequente sentir proporre l’alternativa tra la necessità di far ripartire l’economia e quella di garantire la tutela del diritto fondamentale delle persone, che è quello alla salute e alla vita.

-  di Giuseppe Savagnone  -  

Due possibili strategie
A questo proposito, fin dall’inizio, erano possibili due strategie  per affrontare la pandemia. Una, adottata dalla Cina e, poco dopo, dall’Italia – seguita successivamente dalla Spagna e via via dagli altri Paesi europei – incentrata sul contenimento del contagio e quindi sul confinamento della popolazione: il cosiddetto lockdown, con la conseguente chiusura delle attività commerciali e produttive, allo scopo di impedire la trasmissione del virus.
L’altra, teorizzata dal premier inglese Boris Johnson – che poi però l’ha rinnegata – e dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump – il quale continua ancora oggi a riproporla –, consiste nel lasciare che la vita della collettività continui il suo corso normale, accettando di pagare il prezzo di un certo numero di vittime e puntando sulla cosiddetta “immunità di gregge”, che alla lunga rende il virus meno pericoloso.
La svolta tardiva del Regno Unito
Quest’ultima posizione non partiva affatto da una sottovalutazione del pericolo. Ha fatto il giro di tutti i mass media del mondo la drammatica previsione del premier britannico: «Molte famiglie perderanno i loro cari». Ma si reputava questo costo accettabile. Finché uno studio dell’Imperial College non ha segnalato, numeri alla mano, la sua insostenibile drammaticità, costringendo Johnson a cambiare linea, prima di ammalarsi lui stesso gravemente. Quando però ormai le conseguenze del mancato lockdown erano irreparabili: oggi il Regno Unito, pur avendo subìto l’impatto della pandemia due settimane dopo l’Italia, è il primo Paese d’Europa per numero di decessi.
Le resistenze di Trump al lockdown
Analogo, per certi versi, ma ancora più ondivago, il percorso di Trump. Il presidente americano ha a lungo ignorato le pressanti richieste del team di scienziati e medici guidato dal virologo Anthony Fauci e solo con un mese di ritardo ha accettato a malincuore che venissero prese misure di contenimento, diversificate peraltro da Stato a Stato, e senza nascondere la sua simpatia per gli americani che contestavano in piazza il lockdown.
Fino alla recente dichiarazione, seguita alle notizie sulle pesantissime perdite dell’economia, con cui ha annunziato che «l’America deve ripartire dopo i lockdown per il coronavirus anche se ci saranno dei morti». E morti ce ne sono davvero tanti, negli Stati Uniti, dove il numero di casi di coronavirus ha superato quota 1,2 milioni, mentre i decessi si avvicinano rapidamente alla cifra dei 100.000, a un ritmo di oltre 2000 al giorno.
Il dibattito in Italia
In questo scenario internazionale si situa anche il dibattito in corso in Italia, dove i sindacati, nella cosiddetta “fase 1”, si sono battuti strenuamente per una chiusura totale delle fabbriche, per scongiurare il pericolo che gli operai pagassero sulla propria pelle la mancata interruzione della macchina produttiva. Adesso, all’inizio della “fase 2”, sono invece in primo piano le tensioni fra governo e Confindustria e governo e regioni, sulla ripartenza o meno delle attività commerciali e produttive, con i virologi e i medici che insistono sulla prudenza e i gestori di industrie, negozi e servizi che, sostenuti dai governatori regionali, chiedono a gran voce di poter riaprire.
Economia vs vita delle persone?
Siamo dunque davvero davanti alla scelta tra una linea che privilegia la vita delle persone, tutelando la loro salute, anche a costo di gravissime perdite economiche, e una che, in nome delle esigenze dell’economia, è disposta a sacrificarle?
A mettere in discussione, però, questo modo – forse un po’ troppo semplicistico – di porre il problema, c’è la considerazione, inconfutabile, che la difesa della vita e della dignità degli esseri umani esige anche il buon funzionamento dell’economia, in particolare del lavoro. Ora, è un dato di fatto che milioni di persone in tutto il mondo sono state precipitate, dal lockdown e dal conseguente blocco delle attività economiche, in una condizione drammatica di indigenza.
Sembra dunque più appropriato constatare che siamo davanti a una di quelle situazioni in cui due valori – entrambi fondamentali per la persona umana – entrano in conflitto, rendendo in ogni caso traumatica la scelta.
Non siamo tutti nella stessa barca
Ma in realtà la questione è ancora più complessa. Perché, a guardare più attentamente ciò che sta accadendo, nel mondo e in Italia, si scopre che dietro i termini comunemente usati per indicare questo conflitto – salute, lavoro – il coronavirus ha fatto emergere una galassia estremamente variegata di situazioni molto differenti.
È stato rilevato giustamente, a questo proposito, che la confortante espressione usata da papa Francesco nel suo discorso del 27 marzo, con riferimento alla tempesta sedata – «siamo tutti nella stessa barca» –, è vera per certi versi, ma per altri non risponde alla reale situazione delle nostre società. Siamo nella stessa tempesta, ma non nella stessa barca.
Il costo del mancato lockdown per gli anziani…
A evidenziarlo è il fatto che il prezzo da pagare, rinunziando al lockdown per proteggere l’economia, non è equamente distribuito. Innanzi tutto fra le generazioni. Le vittime della pandemia sono in larga maggioranza persone anziane – nelle sole  case di riposo, secondo l’Oms, costituiscono, nel mondo circa la metà! I «cari» a cui pensava Johnson, prima di essere colpito lui stesso, erano probabilmente i nonni.
La scelta del primato dell’economia acquista in questa luce, al di là delle intenzioni di chi la propone, il sinistro significato di una liquidazione della fascia meno produttiva, per età e disabilità, della popolazione.
…e per tutti i marginali
Ma non è solo una questione generazionale. Le statistiche dicono che nei Paesi più colpiti dal coronavirus – gli Stati Uniti e l’Inghilterra – sono di gran lunga più esposti alla morte per coronavirus le persone di colore. Così in America i più colpiti sono di gran lunga gli afro-americani. Quanto al Regno Unito, è recentissima la segnalazione del quotidiano «The Guardian» secondo cui le persone di colore hanno probabilità di morire per il coronavirus quattro volte superiori alle persone bianche.
Il mancato lockdown per difendere l’economia, dunque, non è pagato da tutti nello stesso modo. Quali che possano essere gli altri fattori discriminanti, coloro che lo pagano sono quelli che la stessa economia rende marginali. Ma a questo punto il servizio alle persone rischia di capovolgersi nella difesa dell’interesse del sistema.
Il diverso costo del lockdown
Ma anche il lockdown, dove è stato attuato con maggiore coerenza, come in Italia, non è stato affatto egualitario. C’è chi ha potuto viverlo nella sicurezza  di condizioni economiche ampiamente consolidate, e chi, invece, si è visto interrompere l’attività da cui traeva di che vivere. Senza parlare di quanti, specialmente al Sud, “si arrangiavano” lavorando “in nero”…
E le sue ricadute umane sono state molto diverso per chi è restato chiuso nella propria villa o in uno spazioso appartamento, e per quelli – secondo l’Istat, oltre un quarto degli italiani! – che l’hanno dovuto gestire all’interno di case anguste e sovraffollate. (Si è scoperto, a questo proposito, che le abitazioni, nel nostro Paese, in media misurano 81 metri quadrati, meno dei 95 del Giappone e dei 97 della Spagna, o dei 109 della Germania e dei 112 della Francia). E se la salute è, secondo la famosa definizione dell’Oms, non solo l’assenza di malattie, ma «il pieno benessere fisico, psichico e sociale delle persone», anche questo è una minaccia alla salute, questa volta provocata proprio dal lockdown.
Il vero problema: quale economia e quale salute?
Qui il problema del lockdown non è, allora, il conflitto tra economia e salute, bensì a quale economia e a quale salute le persone abbiano diritto. Abbiamo visto che entrambe, in realtà, possono appellarsi ai diritti delle persone. Ma il coronavirus è piombato a scoperchiare – nelle nostre progredite società – una situazione diffusa di profonde disuguaglianze che vanificano il senso di questo appello.
L’economia che si vuole tutelare, invocando l’apertura delle attività produttive e commerciali, si svolgeva già prima in un contesto culturale e sociale che ora rende inevitabile che siano i più deboli a pagare con le loro vite la sopravvivenza della macchina produttiva. Ma anche la salute, che ora si cerca di difendere arroccandosi nella chiusura, è in ultima istanza quella dei privilegiati che non sono frustrati e esasperati dalla disoccupazione e dal confinamento in spazi angusti. Se lavoro e salute sono in contrasto, allora, non è perché una delle due sia dalla parte della dignità della persona, ma perché, allo stato attuale, non lo sono nessuna delle due.
La colpa non è del coronavirus. Esso sta solo facendo emergere, acuendole, le ferite nel cuore delle nostre società. E il pericolo più grande è forse quello di credere che l’importante sia lasciarcelo alle spalle, per dimenticare queste ferite e tornare ad essere come eravamo prima.