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mercoledì 11 novembre 2020

IL MORBO E LA SUA URGENZA FILOSOFICA

    «Quando il lockdown sarà diventato clausura non imposta ma scelta consapevole, allora del sospetto di trame occulte non sapremo più che farcene, ne rideremo come di don Ferrante...» 

Ogni pandemia modifica società e storia. Occorre riflettere sul Covid e la sua diffusione. Solo assumere ciascuno le proprie responsabilità, a tutti i livelli, consente di costruire futuro

 -          di SERGIO GIVONE

      

Ad accomunare l’attuale Covid–19 alle molte pestilenze della storia è un fatto del tutto evidente: ancora una volta abbiamo a che fare con una epidemia che tende inevitabilmente a evolvere in pandemia. Questa è la natura del morbo, che infatti si trasmette per contagio e ci espone gli uni agli altri in un mondo dove tutto è relazione. Per cui la vittima è a suo modo carnefice, l’infettato è anche portatore dell’infezione. Detto ciò, un’ulteriore osservazione s’impone, ed è che i fenomeni pandemici hanno sempre comportato autentiche svolte e rivoluzioni nei modi di essere, negli atteggiamenti e negli stili di vita.

Se la cosiddetta peste di Giustiniano (541–542) annuncia la fine dell’Impero Romano e inaugura il Medioevo, la peste nera del 1348–1350 fa da incubatrice del passaggio all’Evo Moderno. Saranno pure ingenue o addirittura risibili le litanie circa la necessità di cambiare registro a seguito della peste; ma se è vero che l’essere umano resta sempre uguale a se stesso, e non c’è catastrofe che possa farlo più responsabile o quanto meno più accorto, è anche vero che dopo la peste, qualsiasi peste, sia quella descritta da Tucidide sia quelle di cui ci hanno raccontato Boccaccio o Defoe o Manzoni, niente è più come prima.

Chiediamoci dunque che cosa la pandemia, nella sua manifestazione più recente e tuttora in corso, abbia da dirci sia rispetto al nostro passato sia rispetto al nostro presente e al nostro futuro. E quindi: non solo come affrontarla con misure efficaci, ma prima ancora come pensarla adeguatamente. Ciò appare tanto più necessario e urgente, quanto più la pandemia, a ogni suo irrompere nel mondo umano come se provenisse da un altro mondo, sembra avere questa caratteristica: coglierci impreparati, lasciarci senza parole, umiliare qualsiasi pretesa di invulnerabilità. Per averne la conferma basterà riandare a opere eminenti dedicate al tema dalla letteratura negli ultimi cent’anni: da Il morbo scarlatto di Jack London a La peste di Camus fino al recente La strada di McCarthy.

Al primo manifestarsi della forma in cui la peste si è presentata ai nostri giorni, cioè il coronavirus, qualcuno ha evocato, quasi fossero strumenti non solo di comprensione del fenomeno, ma anche di liberazione dai suoi effetti perniciosi, categorie filosofiche che appartenevano a quella philosophia naturalis un tempo abbracciante sia la teoria politica sia la medicina e che oggi sono state rimesse in circolazione dalla biopolitica. Vengono da qui quelle che appaiono vere e proprie pratiche salvifiche: tra le quali, in particolare, lo “stato di eccezione” (cioè la sospensione di alcune libertà fondamentali dell’individuo, da cui il lockdown) e l’“immunità di gregge”. Espedienti che si sono rivelati fin da subito un grande equivoco, ma che hanno dato luogo a un dibattito assai curioso e a tratti surreale.

Tanto lo stato di eccezione quanto l’immunità di gregge appartengono a una filosofia diciamo pure destinale, una filosofia della necessità (e non della libertà) che predica l’abbandono al destino. Secondo una prospettiva del genere avremmo a che fare – questo in sostanza è il ragionamento – con un’epidemia che non può non diventare pandemia e che perciò può essere sconfitta solo per esaurimento della sua carica virale. E quindi una cosa vale l’altra: sia la pena mortificante della reclusione di massa sia il vitalismo idiota della sfida al virus sono in funzione del decorso della malattia. Sembrano due strategie opposte, ma così non è. In entrambi i casi l’idea è che per fermare l’infezione sia necessario lasciarla sfogare. Certo, un conto è che ciò avvenga in una situazione di promiscuità dal sapore vagamente libertino e un conto è che lo stesso risultato sia ottenuto previo obbligo di clausura, distanziamento sociale e separazione.

Tuttavia la concezione di fondo è sostanzialmente identica e rimanda appunto a una filosofia dove i comportamenti sono dettati dal potere centrale e non assunti liberamente, responsabilmente: una filosofia della necessità, appunto. Necessità è quella che soggiace sia alla clausura dello stato di eccezione (dove la libertà è sacrificata sull’altare della protezione totale) sia all’anarchia dell’immunizzazione perseguita attraverso una sorta di autosacrificio (dove a immolarsi è colui che infettandosi pretende di salvare se stesso e gli altri). In un caso come nell’altro si resta all’interno di una logica sacrificale.

Purtroppo, né lo stato di eccezione né l’immunità di gregge funzionano, come si è visto fin da subito per quel che riguarda l’immunità di gregge e come si sta constatando ora con la seconda ondata del contagio per quel che riguarda lo stato di eccezione. L’immunità di gregge non funziona semplicemente perché i suoi costi sono troppi alti. Il che vale per i costi sociali e ancor più per i costi morali. Senza contare che mettere a repentaglio la propria vita per salvarla non sembra essere una grande idea. A sua volta lo stato di eccezione non funziona in quanto questa misura comporta una specie di eterogenesi dei fini. Perseguendo la protezione dei cittadini attraverso metodi coercitivi, questa strategia di contenimento induce inevitabilmente a trasgressioni inconsulte e raggiunge esiti di segno contrario.

Né dell’una né dell’altra si può dire che siano di per sé cattive teorie. E neppure che siano buone teorie, però male applicate. Semplicemente, sono teorie che non hanno presa sul fenomeno in questione, perché non sono in grado di spiegarlo, di comprenderlo. Stiamo parlando del Covid, della pandemia di cui facciamo attualmente esperienza, della peste del nostro tempo. Che sarà pure un destino. Il nostro destino, però. Cioè tale da doversene assumere la responsabilità, pena un esiziale farsi succubi di esso.

È proprio la tragica realtà di questo virus a farcelo capire, se vogliamo capire. Il virus non è caduto dal cielo. E neppure ci è stato mandato in punizione dei nostri peccati. Ma indubbiamente si è sviluppato là dove il processo di violenta antropizzazione del mondo mostra il suo lato perverso e ci chiama in causa, inchiodandoci alle nostre responsabilità. Ecco, dunque, la parola–chiave: responsabilità, responsabilità per il destino, che poi significa responsabilità nei confronti di tutti gli altri e del luogo da tutti condiviso, la terra (alla quale siamo affidati e che ci è stata affidata). Possiamo dimenticarcene nel momento in cui si tratta di affrontare la pandemia? E magari illuderci di risolvere il problema a colpi di diktat anonimi, invece che farci carico responsabilmente dei nostri comportamenti?

Cominceremo a vedere un po’ di luce in fondo al tunnel magari quando il lockdown sarà diventato clausura non imposta, scelta consapevole. Allora della filosofia del sospetto (sospetto che il Covid nasconda trame occulte e quanto meno un intento liberticida da parte di misteriose forze antidemocratiche) non sapremo più che farcene. Ne sorrideremo come oggi sorridiamo di don Ferrante e del suo prendersela con le stelle.

 www.avvenire.it

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