I contagi della seconda ondata?
Nel tempo libero, non a scuola
Bar,
ristoranti, palestre, mezzi di trasporto sembrano essere diventati più
pericolosi con la ripartenza dell’epidemia. Così anche tra le professioni. A
rischio le fasce deboli.
Uno studio
condotto sui telefoni cellulari negli Usa, e pubblicato su Nature, indica come
maggiormente responsabili della diffusione gli spazi ristretti, al chiuso e affollati. Una
ricerca in Norvegia sui lavori più colpiti: ristorazione, tassisti, guide
turistiche. Meno tra gli insegnanti
di VIVIANA DALOISO e FRANCESCO RICCARDI
È la
domanda delle domande, quella a cui riuscivamo (forse) a rispondere ai primi di
agosto, quando in Italia si contavano poco più di 300 contagi al giorno, e su
cui oggi brancoliamo totalmente nel buio: dove si prende, il Covid? La risposta
messa nero su bianco dall’Istituto superiore di sanità è più o meno questa: non
lo sappiamo. Più precisamente «continua ad aumentare il numero di casi non
riconducibili a catene di trasmissione note – recita l’ultimo monitoraggio
della Cabina di regia, su cui mercoledì si è deciso il cambio di colore di un
altro pezzo di Paese –: 74.967 questa settimana contro i 49.511 di quella
prima». P er capire di cosa stiamo parlando, in termini concreti,
serve ricordare che mediamente ogni persona intrattiene rapporti considerati a rischio
con almeno altre 10: significa che nel corso dell’ultima settimana abbiamo
avuto potenzialmente quasi un milione di persone a spasso senza la minima
percezione di essere potenziali diffusori e senza poterli intercettare. Questo
spiega bene perché, saltato completamente il sistema di tracciamento, l’unica
soluzione per raffreddare la curva sia la mitigazione del contagio attraverso
le chiusure generalizzate: non sappiamo più da dove viene e dove va il virus,
riduciamo il più possibile circolazione e contatti finché i contagi non tornano
a scendere. La strategia, intendiamoci, probabilmente funzionerà: i primi,
timidi segnali di rallentamento della curva si sono concretizzati già negli
ultimi giorni. Ma i costi delle misure adottate in termini sociali ed economici
sono, di nuovo, altissimi. E rieccoci al punto allora, alla domanda a cui una
volta usciti da questa seconda fase critica il governo e le autorità sanitarie
dovranno saper rispondere: dove si prende, il Covid? Meglio, dove gli abbiamo
permesso di circolare indisturbato e di minare tutto il vantaggio che avevamo
costruito nel corso degli ultimi sei mesi? Saperlo, ormai è chiaro, diventa
decisivo per non trovarci più nella situazione di oggi.
Risposte ne
sono state ipotizzate molte. In queste ore, per esempio, un’inchiesta della
Procura di Cagliari è tornata a mettere a tema la spinosa questione delle
discoteche aperte quest’estate in Sardegna (ma fino a dopo Ferragosto lo sono
state anche nel resto del Paese): in quel caso, non sarà difficile da
accertare, gli assembramenti indiscriminati nei locali e la circolazione dei
turisti su un territorio in buona sostanza rimasto Covid-free sono stati
decisivi per la ripartenza dell’epidemia. Col disastro in termini di vite umane
ed emergenza sanitaria che per l’isola questo ha comportato. Dal punto di vista
scientifico, tuttavia, dati sui luoghi dove il contagio corre di più in
Italia non ne abbiamo e non ne abbiamo mai avuti. È una delle lacune
lamentate più volte nel corso delle ultime settimane dai più svariati gruppi di
studio indipendenti sul Covid ed esplicitata dal presidente dell’Accademia dei
Lincei Giorgio Parisi in un articolo pubblicato alla fine di ottobre su Scienza
in rete: «Quanto influiscono sui contagi in Italia i
ristoranti, le cene in famiglia, la riunione in ufficio,
la convivenza familiare, le feste?
Quali
sono le attività più a rischio, oltre ovviamente quelle che già si
conoscono: la sanità, la preparazione dei salumi, i centri di distribuzione
postale?» si chiedeva Parisi, ricordando che l’unico monitoraggio effettuato
con precisione (ma anche qui con diversi limiti) è stato da settembre quello
sulla scuola, che per altro ha dimostrato di non essere affatto un luogo di
propagazione sostenuta dell’epidemia: 3,5% i focolai riconducibili alle classi,
e ancora ieri la ministra Azzolina lo ha ricordato con forza. «Senza dati
precisi – proseguiva Parisi – come fare a valutare gli effetti positivi o
negativi di provvedimenti come la chiusura dei centri commerciali durante il
weekend o delle scuole elementari?». O, aggiungiamo noi, dei parchi e dei
lungomare, che pure nelle ultime ore sono tornati sotto i riflettori dei media
scatenando infinite polemiche: ci si contagia al parco? Ci si contagia sul
lungomare affollato di Napoli? E sui mezzi pubblici? Un altro abisso
inesplorato, su cui pure si sono consumate infinite polemiche e recriminazioni.
Che un
tracciamento dei contagi utile alle decisioni politiche per il contenimento
dell’epidemia sia possibile lo dimostra uno studio americano pubblicato da Natureproprio in
queste ore e condotto dagli esperti della Stanford University e della
Northwestern University. Il team ha utilizzato i dati anonimi raccolti grazie
ai telefoni cellulari, per mappare i movimenti di 98 milioni di persone
provenienti da diversi quartieri delle più grandi città statunitensi.
Risultato: ristoranti, bar, caffè e palestre sono risultati i luoghi in cui il
rischio di contagio è risultato più elevato. Spazi ristretti e al chiuso,
affollati, dove pur mantenendo le distanze il virus evidentemente si propaga
facilmente. Di più: visto che nei modelli informatici costruiti per analizzare
i dati gli esperti americani hanno inserito anche le fasce reddituali
diverse della popolazione presa in esame, lo studio ha potuto osservare anche
l’evidente disparità nel rischio di infezione in base allo stato socioeconomico
degli utenti. Chi è più povero è costretto a muoversi di più e a frequentare,
per esempio, supermercati e discount più affollati, si ammala
anche più facilmente. Sulla base di tutto ciò, il team è arrivato a prevedere
la probabilità di nuove infezioni in un dato momento, luogo o tempo: è stato
cioè per la prima volta costruito un modello di trasmissione del virus
identificando le potenziali sedi e le popolazioni ad alto rischio. E le
simulazioni hanno previsto con precisione il conteggio giornaliero poi
confermato dei casi in dieci delle più grandi aree metropolitane, tra cui
Chicago, New York e San Francisco (arrivando a individuare 553mila località
distinte raggruppate in 20 categorie chiamati “punti di interesse”). Insomma,
una miniera inestimabile di dati che sono stati messi a disposizione delle
autorità per capire quando e cosa chiudere, e per quanto tempo, per ottenere
una determinata riduzione dei contagi.
Maniacale? Tutt’altro,
visto che è proprio sulla precisione dei dati scientifici che può essere
costruita una strategia efficace (e meno penalizzante del lockdown generalizzato)
di lotta al virus. Dall’inizio dell’epidemia, per esempio, li ha
forniti per la Germania con grafici dettagliati il Koch Institute,
confermando anche qui la maggiore circolazione del Covid nei
luoghi del tempo libero (birrerie, ristoranti) e in famiglia. Alle
professioni a maggiore rischio, invece, e a come si possano
modulare le aperture o chiusure di determinate attività per
contenere i contagi si sono dedicati anche quattro ricercatori
norvegesi (K. Magnusson, K. Nygard, L.Vold e K. Telle) in uno
studio svolto per conto dell’Istituto norvegese di sanità pubblica,
che ha il pregio addirittura di distinguere tra prima e seconda
ondata della pandemia.
L’indagine
in questo caso è stata condotta su un campione di 3,5 milioni di
cittadini norvegesi tra i 20 e i 70 anni confrontati con gli oltre
12mila che hanno contratto il virus (0,3%). I risultati evidenziano
come nella fase di avvio dell’infezione, tra il 26 febbraio e il 17 luglio, i
più colpiti (con una probabilità da 1,5 a 3,5 volte) siano stati in particolare
i professionisti del settore sanitario: dagli infermieri ai medici, dai
fisioterapisti ai dentisti, evidentemente non ben protetti o sopraffatti
dall’arrivo dei primi malati. Assieme, al di fuori della sanità, a tassisti e
gui- datori di autobus. Al contrario, insegnanti e studenti, personale
impiegato nell’assistenza all’infanzia, così come baristi, camerieri, commessi
dei negozi, addetti alle pulizie, istruttori di fitness e parrucchieri non
hanno subito un aumento del rischio, o addirittura presentavano un rischio
ridotto rispetto agli altri cittadini in età lavorativa. Lo scenario, invece, è
cambiato completamente durante la seconda ondata della pandemia, con baristi,
camerieri, addetti ai servizi di ristorazione, guide turistiche, assistenti di
viaggio e ancora i tassisti a registrare una maggiore probabilità (da 1,5 a 4
volte) di contrarre la malattia rispetto alla popolazione nella medesima età
lavorativa. Il rischio è rientrato invece nella media dei cittadini per il
personale sanitario, gli autisti di autobus e si conferma tale di nuovo anche
per gli operatori dell’assistenza all’infanzia, gli insegnanti, gli studenti,
gli istruttori di fitness, i commessi dei negozi, i parrucchieri.
I ricercatori,
in questo caso, ribadiscono come gli insegnanti non presentino un rischio
superiore di contrarre il coronavirus rispetto alla generalità della
popolazione: come a dire che la scuola non è un ambiente
particolarmente “pericoloso”. Un dato, quest’ultimo confermato anche dal
bollettino dell’Istituto di sanità pubblica della Norvegia, pubblicato l’11
novembre, in cui si evidenzia come appena il 3% dei contagi sia avvenuto a
scuola, mentre la maggior parte si registri in ambito familiare, sul lavoro
appunto o in eventi privati. In Norvegia gli immigrati sono sovrarappresentati
fra i contagiati: sono il 15% dei residenti, ma il 37% dei positivi (di cui un
10% di ritorno in particolare dalla Polonia) e addirittura il 50% dei
ricoverati, quelli cioè con i sintomi più gravi o non in grado di curarsi
autonomamente in casa, sono nati all’estero. A ulteriore riprova di quanto
pesino anche nella tutela della salute fattori come la povertà, il lavoro a
bassa remunerazione nel settore dei servizi, l’abitare in appartamenti piccoli
e sovraffollati, il minore grado di istruzione. In Italia è successo? I dati
sui centri d’accoglienza dicono di no, ma anche in questo caso servirebbero più
riscontri, raccolti in più ambiti. Serve una strategia con cui ricominciare,
passato questo momento drammatico. Per costruirla si può e si deve chiedere
alla scienza più di quello che abbiamo fatto finora.
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