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giovedì 6 giugno 2024

CATTOLICI INVISIBILI

 


-         di Giuseppe Savagnone*

 

Conferenza episcopale contro governo

Non ha avuto forse il rilievo che ci si sarebbe potuto aspettare, in un paese ancora apparentemente legato alla tradizione cattolica, la recente presa di posizione della Conferenza episcopale italiana sul progetto di autonomia differenziata, oramai in dirittura d’arrivo in parlamento.

 Una presa di posizione decisamente negativa, che conferma quella espressa il 5 marzo scorso dalla Conferenza episcopale siciliana.

 Nel comunicato finale dell’Assemblea generale dei vescovi, svoltasi dal 23 al 26 maggio, si dice senza mezzi termini: «Alcuni progetti legislativi rischiano di accrescere il gap tra territori oltre che contraddire i principi costituzionali. È in gioco il bene comune che può e deve essere promosso sostenendo la partecipazione e la democrazia».

 Per di più, in una Nota approvata dal Consiglio permanente il 22 maggio, si ribadisce il principio «Il Paese non crescerà se non insieme», che aveva ispirato i due grandi documenti dedicati in passato dalla CEI alla questione dei rapporti tra Nord e Sud d’Italia: Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, del 1989; Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, del 2010.

 I vescovi ricordano nella Nota che proprio il pensiero cattolico, con Luigi Sturzo e non solo, ha sempre sostenuto il valore delle autonomie regionali. Ma, aggiungono, «solidarietà e sussidiarietà devono camminare assieme, altrimenti si crea un vuoto impossibile da colmare (…).

 Ci preoccupa qualsiasi tentativo di accentuare gli squilibri già esistenti tra territori, tra aree metropolitane e interne, tra centri e periferie.

 In questo senso, il progetto di legge con cui vengono precisate le condizioni per l’attivazione dell’autonomia differenziata – prevista dall’articolo 116, terzo comma, della Costituzione – rischia di minare le basi di quel vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni, che è presidio al principio di unità della Repubblica».

 Nella conferenza stampa conferenza stampa al termine dell’Assemblea il presidente della CEI, il card. Zuppi, ha ripreso e confermato queste preoccupazioni e ne ha cautamente espresso altre sull’altra riforma proposta dal governo, quella del premierato, anch’essa in discussione in questi giorni: «A titolo personale posso dire che è necessario tenere presente lo spirito della Costituzione, scritta da forze politiche non omogenee che però avevano di mira il bene comune.

 Dunque, l’auspicio è che ciò che emergerà non sia qualcosa di contingente, cioè che non sia di parte. Comunque, è un discorso ancora aperto, vediamo come va la discussione».

 Reazioni e repliche

Le reazioni da parte del governo non si sono fatte attendere. Per quanto riguarda le critiche al progetto sull’autonomia differenziata è stato Salvini, il suo principale sponsor, a replicare ai vescovi, durante un suo tour elettorale in Calabria: «Non l’hanno letto. L’autonomia è una garanzia per i diritti essenziali al Sud che il Sud non ha mai avuto. Magari c’è qualche vescovo che, viste le polemiche che arrivano dal Vaticano, si è distratto. Manderò a chiunque voglia approfondire il testo dell’autonomia».

 Immediata la replica del vicepresidente per l’area Sud della Conferenza episcopale italiana, Francesco Savino: «Dire che i vescovi calabresi non hanno letto la legge mi sembra un’offesa gratuita: l’abbiamo letta e l’abbiamo studiata con costituzionalisti e professori universitari. Il ministro Salvini deve farsene una ragione se, su questa materia, la pensiamo diversamente da lui».

 Sul premierato è stata Meloni, che la considera «la madre di tutte le riforme», a polemizzare direttamente con il presidente della CEI: «Non so cosa esattamente preoccupi la Conferenza episcopale italiana, visto che la riforma non interviene nei rapporti tra Stato e Chiesa. Con tutto il rispetto, non mi sembra che lo Stato Vaticano sia una repubblica parlamentare, quindi nessuno ha mai detto che si preoccupava per questo. Facciamo che nessuno si preoccupa».

 Anche qui non è mancata la replica. Intervistato da Aldo Cazzullo, Zuppi ha osservato, sorridendo, che forse la Meloni «è stata tratta in inganno da Roberto Benigni che voleva fare il campo largo con il Papa… La Chiesa ovviamente non si schiera con una parte o con l’altra. Io non sono entrato nel merito della riforma, non ho dato giudizi sul rafforzamento dei poteri del premier.

 Ho solo espresso una preoccupazione: le riforme costituzionali richiedono la partecipazione più ampia possibile. Proprio perché gli equilibri costituzionali sono delicati. Questo non significa che tutti la debbano pensare allo stesso modo, ma che devono partecipare al dialogo, ritrovare lo spirito costituente. Nel dopoguerra democristiani, liberali e comunisti non la pensavano allo stesso modo, ma scrissero la Costituzione insieme. Oggi il richiamo vale per tutti, per la maggioranza come per l’opposizione».

 Il significato del dibattito

Molti organi di stampa hanno considerato la presa di posizione della CEI – sia nell’Assemblea generale che nel Consiglio permanente – e  le successive parole di Zuppi sulla riforma del premierato come un ritorno dei vescovi italiani sulla scena politica, dopo la lunga stagione di silenzio che era seguita all’uscita di cena del card. Ruini.

 Così le hanno considerate ambienti cattolici fortemente conservatori e critici sia verso papa Francesco che verso la CEI. Su «La Nuova Bussola quotidiana», in un articolo intitolato «La CEI entra in politica», si contesta la Nota dei vescovi osservando che «dopo aver affermato la necessità di tenere insieme solidarietà e sussidiarietà non è corretto applicare il principio dando un giudizio negativo sulla riforma in atto.

 Questo non è un passo che spetta ai vescovi. Se lo fanno scendono in politica diretta contro il governo». Insomma, i vescovi non si immischino in ciò che accade fuori delle chiese.

 E così evidentemente le ha considerate lo stesso governo, a giudicare dalle reazioni del vicepremier e della premier. In particolare le parole della Meloni sembrano richiamare il presidente della CEI al rispetto dei confini entro cui Stato e Chiesa devono saper restare, e implicare perciò un tacito rimprovero di  aver valicato questi confini. Manifestando, al tempo stesso, l’intenzione di chiudere un occhio su questa trasgressione e di non parlarne più: «Facciamo che nessuno si preoccupa».

 Il mutismo dei cattolici

Ma a colpire, più che il contenuto, è il tono infastidito e noncurante di queste repliche. Alla vigilia del voto europeo, che secondo la Meloni sarà un «referendum» – non solo sul modello di Europa, ma in primo luogo, nella sua interpretazione, sul governo – la premier e il vicepremier si sono potuti permettere di liquidare in poche stizzite battute una presa di posizione dei massimi livelli della gerarchia ecclesiastica, che in altri tempi sarebbe stata considerata un grave problema per l’immagine del governo.

 Con una punta di arroganza, visto che non hanno neppure ritenuto necessario rispondere alle critiche, ma le hanno attribuite a disinformazione (Salvini) o a una illegittima invasione di campo (Meloni).

 La verità è che il peso delle indicazioni dell’autorità religiosa sull’orientamento politico degli stessi credenti sembra  ormai minimo. Si ha l’impressione, a volte, che nessuno ascolti i vescovi e lo stesso papa.

 È molto significativo che la premier, proprio alla vigilia delle elezioni, stia dando grande risalto alla creazione dei due campi di detenzione in Albania, una scelta che è in rotta frontale di collisione con la posizione della Chiesa sul problema dell’accoglienza. Per non parlare della sordità del governo agli appelli per la pace ripetuti ad ogni occasione da Francesco. Senza che per questo i cattolici che votano per i partiti di destra diano un qualunque segno di disagio o di protesta.

 Ma lo stesso accade nei confronti dei partiti di sinistra. Il PD recentemente ha sollevato una violenta polemica contro la possibilità di far entrare nei consultori «soggetti del terzo settore che abbiano una qualificata esperienza nel sostegno alla maternità» – come in realtà già prevede, quasi alla lettera,  l’art. 2 della legge 194 – , sostenendo, per bocca della sua segretaria, che ciò comporta un «attacco pesante alla libertà delle donne», identificata univocamente – in contrasto con il chiaro dettato della legge in questione – con il “diritto di abortire”.

 E quando un candidato dem alle elezioni europee, Marco Tarquinio, dichiaratamente cattolico, ha espresso il suo dissenso su questo preteso “diritto”, è stato subito chiarito dai vertici del partito che la sua era la posizione personale di un “indipendente”, esterno al partito.

 Confermando di avere ormai del tutto rimosso le origini del PD, nato dall’unione di cattolici e socialisti e che ormai – in questa linea sempre più simile a quella dei radicali di Pannella – ammesso che ci sia ancora posto per i socialisti, i cattolici non hanno più voce.

 Sì, i cattolici sono scomparsi. Non solo e non tanto perché le chiese la domenica, dopo il Covid, hanno visto dimezzato il numero dei frequentanti, ma soprattutto perché – come ha rilevato ultimamente in un suo studio il sociologo Diotallevi – ormai chi va a messa ha le stesse idee di chi non ci va. Per questo ciò che dicono i vescovi è irrilevante. Non c’è più il “mondo cattolico”, intendendo con questa espressione un’area culturale e spirituale dotata di una propria identità e di propri punti di riferimento.

Questione chiusa?

Si potrebbe, con ciò ritenere chiusa la questione, se la scomparsa dei cattolici non stesse ogni giorno di più evidenziando un pauroso vuoto culturale nella nostra vita pubblica. Il paragone tra lo spessore umano dell’attuale classe politica (ma già di quella dell’era berlusconiana) e quello di personalità come De Gasperi, Dossetti, Fanfani, La Pira, che nel dopoguerra furono i protagonisti della rinascita democratica del paese non consente dubbi.

 Perciò il rilancio della tradizione di pensiero che ha avuto nell’insegnamento sociale della Chiesa la sua fonte ispiratrice dovrebbe stare a cuore a tutti i cittadini italiani, credenti e non credenti. Non per dar vita a un nuovo partito cattolico, ma per immettere nuovamente, in una politica oggi ridotta ad un gioco di potere e allo scontro tra opposte propagande, un’anima che sembra perduta.

 Protagonista di questa ripresa – culturale e spirituale, prima ancora che politica – dovrebbe essere il laicato cattolico. Ma, come ha sottolineato Massimo Cacciari in un suo recente intervento, se esso si muovesse decisamente in questa direzione – valorizzando la carica rivoluzionaria che la visione cristiana contiene, rispetto a questa società e questa politica disumanizzate – , troverebbe molti alleati al di fuori dell’area ecclesiale. E allora i vescovi e il papa non sarebbero più solo voci isolate che gridano nel deserto, come oggi accade.

 *Scrittore ed Editorialista. Pastorale della Cultura, Arcidiocesi di Palermo

www.tuttavia.eu

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mercoledì 13 marzo 2024

REGIONI DIFFERENZIATE


Pubblichiamo, per gentile concessione dell’Ufficio per la Pastorale della cultura della diocesi di Palermo, il testo di Giuseppe Savagnone sulla reazione dei vescovi delle diocesi siciliane al ddl Calderoli (sulla «autonomia differenziata» delle regioni), già approvato in Senato (23 gennaio) e ora in discussione alla Camera. Questo articolo sarà in seguito pubblicato nella rubrica «I chiaroscuri» che l’autore firma per il sito della Pastorale della cultura.

 - di Giuseppe  Savagnone*

Ha destato una notevole eco sulla stampa (con l’eccezione dei giornali governativi) il comunicato stampa dello scorso 5 marzo, con il quale i vescovi di Sicilia hanno preso posizione nei confronti del disegno di legge sulla autonomia differenziata, attualmente in discussione alla Camera dopo l’approvazione in Senato, il 23 gennaio scorso.

 Sarebbe riduttivo vedere in questo documento una semplice preoccupazione per gli interessi della Sicilia. Esso va letto alla luce della grande attenzione che la Chiesa italiana ha manifestato, alla fine del secolo scorso e nei primi anni di questo, ai rapporti fra le diverse aree del nostro paese, e in particolare tra Settentrione e Meridione.

 Non si può infatti dimenticare che il tema dell’autonomia delle regioni si intreccia strettamente con quella che una volta veniva chiamata «questione meridionale». Lo evidenzia, se non altro, il fatto che a chiedere con insistenza la riforma sono le prospere regioni del Nord, anche se quelle del Sud, almeno quelle governate da maggioranze di destra, Sicilia compresa, si sono dette anch’esse favorevoli.

 Lo sfondo dottrinale

Forse non tutti ricordano che su questa complessa problematica la Conferenza Episcopale Italiana ha sentito l’esigenza di pronunziarsi con due ampi documenti, Chiesa italiana e Mezzogiorno: sviluppo nella solidarietà, del 1989, e Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno, del 2010, che autorevolmente leggono la questione alla luce della dottrina sociale cattolica e meritano perciò, soprattutto in questo momento, l’attenzione di tutti, e in particolare dei credenti.

 In entrambi questi documenti il punto fondamentale su cui i vescovi poggiavano la loro riflessione era che «il paese non crescerà se non insieme» e che «il bene comune è molto di più della somma del bene delle singole parti» (Per un Paese solidale, n.1).

 Siamo lontanissimi, però, da un cieco statalismo, che i cattolici italiani hanno sempre strenuamente combattuto fin dal tempo del Risorgimento. Nella Costituente sono stati loro a volere introdurre nella Costituzione repubblicana il regionalismo. E il principio di sussidiarietà, oggi spesso invocato in sede sia nazionale che europea, ha la sua prima matrice proprio nell’insegnamento sociale della Chiesa. A questo proposito si ricordava, nel secondo documento della CEI, «la sempre valida visione regionalistica di don Luigi Sturzo e di Aldo Moro» (n. 8). Alla luce della loro storia, nessuno è meno sospetto dei cattolici di voler misconoscere i valori e le esigenze differenziate delle diverse regioni italiane.

 Ciò che i vescovi hanno voluto combattere, già dalla fine del secolo scorso, è piuttosto una deriva culturale che «ha fatto crescere l’egoismo, individuale e corporativo, un po’ in tutta l’Italia, con il rischio di tagliare fuori il Mezzogiorno dai canali della ridistribuzione delle risorse, trasformandolo in un collettore di voti per disegni politico-economici estranei al suo sviluppo» (n. 5). Il silenzio calato sulla questione meridionale era ai loro occhi un indizio inquietante dell’eclisse del senso del bene comune che si è registrata in questi ultimi anni in Italia.

 È dunque in nome di questo bene comune e della solidarietà da esso richiesto che la Chiesa fissava, già nel 2010, dei limiti precisi alle autonomie reginali. Perché, se la solidarietà richiede sempre la sussidiarietà, è vero anche il reciproco: «La prospettiva di riarticolare l’assetto del Paese in senso federale costituirebbe una sconfitta per tutti, se il federalismo accentuasse la distanza tra le diverse parti d’Italia». Ciò che serve, sottolineavano i vescovi, è un «federalismo solidale», che «rafforzerebbe l’unità del Paese, rinnovando il modo di concorrervi da parte delle diverse realtà regionali».

 Secondo la Conferenza Episcopale Italiana «un sano federalismo rappresenterebbe una sfida per il Mezzogiorno e potrebbe risolversi a suo vantaggio», costringendo in qualche modo gli amministratori meridionali a «rendersi direttamente responsabili della qualità dei servizi erogati ai cittadini». Ma «l’impegno dello Stato deve rimanere intatto (…) per evitare che si creino di fatto diritti di cittadinanza differenziati a seconda dell’appartenenza regionale» (n. 8).

 La solidarietà nazionale compromessa

È su questo sfondo che va letto il comunicato dei vescovi siciliani. In esso la critica fondamentale al DDL sull’autonomia differenziata è di non tener conto degli «squilibri strutturali ed economici fortemente presenti nel meridione e che potrebbero portare a colpire in modo grave l’unità nazionale in favore di preoccupanti spinte secessioniste istituzionalizzate». Invece di favorire una sussidiarietà al servizio della solidarietà, la riforma rischia, secondo loro, di dissolvere l’unità nazionale in nome degli interessi particolaristici di alcune regioni.

 In questa logica, nel documento della Conferenza Episcopale sicula si sottolinea che «la differenziazione è da considerarsi come un corollario del principio di sussidiarietà» all’interno di un quadro nazionale unitario, e che perciò «la dislocazione differenziata di funzioni legislative in singole Regioni non è affatto (…) un “diritto” di alcune Regioni (o dei loro “popoli”)».

E in questa luce si comprendono le «criticità» del ddl in esame alla Camera segnalate nel comunicato dei vescovi. Ne sono un esempio, secondo loro, «le modalità di finanziamento delle funzioni attribuite» alle regioni autonome, previste agli art. 5 e 6.

 Il ddl prevede che questo finanziamento avvenga «attraverso compartecipazioni al gettito di uno o più tributi erariali maturato nel territorio regionale». Ma «la compartecipazione si collega alla produttività dei territori regionali, con la conseguenza che territori maggiormente produttivi avrebbero introiti maggiori di altre realtà territoriali con una produttività storicamente ridotta e ciò trasformerebbe la differenziazione in diseguaglianza con l’evidente rischio di colpire concretamente la coesione dei territori mettendo in grave pericolo l’unità nazionale».

 Questo pericolo, si osserva nel comunicato, è ancora più evidente se si considera che «nell’art 10, dedicato alle misure perequative, non v’è traccia di fondo perequativo di solidarietà nazionale che permetta di riequilibrare le forti disomogeneità territoriali». Su questo punto i vescovi siciliani sono molto chiari: «Fino a che le regioni del meridione non raggiungono, con un fondo dedicato, almeno la media della capacità fiscale nazionale per abitante non si può affrontare per nessuna regione il tema dell’autonomia differenziata a meno che non si preveda un fondo di solidarietà nazionale vincolato a sanare le disparità delle capacità fiscali territoriali».

 E aggiungono: «Anche la riduzione del cosiddetto “Fondo complementare” da 4 miliardi e 400 milioni di euro, a poco più di 700 milioni di euro rappresenta un ulteriore rischio per le regioni più povere».

 Le «criticità» relative ai LEP

Da parte della maggioranza si insiste sempre sulla garanzia rappresentata dai LEP (livelli essenziali delle prestazioni), che dovrebbero essere determinati prima di procedere alla realizzazione della riforma. Ma nel comunicato dei vescovi proprio il tema dei LEP è considerato motivo di ulteriore «criticità». Innanzi tutto, perché nel ddl «manca un esplicito e necessario richiamo all’art. 2 Cost. fonte del dovere di solidarietà sociale in favore dei soggetti meno abbienti, che costituirebbe un ulteriore e migliore ancoraggio costituzionale anche a garanzia e vincolo nella determinazione dei LEP».

 Inoltre, in riferimento all’art. 3 del ddl, si fa notare che «appare poco prudente la scelta di consentire al Governo di adottare dei decreti legislativi per la determinazione dei LEP posto che con tale scelta il Parlamento, attraverso delle Commissioni, potrà soltanto esprimere un parere su quanto deciso dal Governo ed in caso di silenzio il Decreto legislativo potrà essere comunque adottato».

 Le conseguenze per la Sicilia (e per le altre regioni di difficoltà)

È in questo contesto più ampio, e che riguarda tutto il nostro paese, che i vescovi siciliani guardano alle conseguenze per l’Isola del passaggio a «uno Stato “Arlecchino”», facendo notare «che secondo degli studi fatti dalla Ragioneria Generale dello Stato, la Sicilia perderà 1 miliardo e 300 milioni di euro circa l’anno: un impatto disastroso per una economia già in grande sofferenza».

 Infine, sempre per quanto riguarda la Sicilia, regione a Statuto speciale, il comunicato fa presente che, prima di perseguire ulteriori forme di autonomia differenziata, bisognerebbe che venisse effettivamente realizzato il dettato dello Statuto della Regione siciliana che, all’art. 38, prevede:

 «1. Lo Stato verserà annualmente alla Regione, a titolo di solidarietà nazionale, una somma da impiegarsi, in base ad un piano economico, nella esecuzione di lavori pubblici. 2. Questa somma tenderà a bilanciare il minore ammontare dei redditi di lavoro nella Regione in confronto della media nazionale. 3. Si procederà ad una revisione quinquennale della detta assegnazione con riferimento alle variazioni dei dati assunti per il precedente computo».

 «Quindi», osservano i vescovi, «oltre che rilevare ciò che di critico esiste nell’attuale riforma, la classe dirigente politica siciliana dovrebbe chiedere al governo nazionale l’attuazione completa dello statuto e non sprecare le risorse in dotazione».

 L’ultima frase accenna – per la verità forse troppo di passaggio e timidamente − al grande problema che fa da contraltare alle sperequazioni della riforma e che da sempre viene segnalato, sia a livello di CEI che di CESi, e che è quello delle responsabilità della classe politica del Meridione e di quella siciliana in particolare.

 Già nel documento della Conferenza Episcopale Italiana del 1989 si diceva chiaramente: «Sono necessari, e doverosi, l’aiuto e la solidarietà dell’intera Nazione, ma in primo luogo sono i meridionali i responsabili di ciò che il Sud sarà nel futuro» (n. 15).

 La soluzione non può essere l’assistenzialismo. L’aiuto che il Paese può e deve dare al Sud è di stimolarlo a trovare in se stesso le energie e le risorse per uscire dal degrado. E ciò richiede un impegno dei cattolici per rinnovare una classe politica meridionale che, al di là delle contrapposizioni partitiche, risente ancora spesso di un invasivo stile clientelare, in cui affonda le sue radici la presenza della mafia.

 Ma il rimedio a questo non è certo una dissoluzione dell’unità nazionale, che rischia di consegnare il Sud alle sue peggiori derive.

*Pastorale della Cultura dell'Arcidiocesi di Palermo