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giovedì 1 febbraio 2024

SALIRE SUL MONTE



  L’uomo, afferrato 

dal male di vivere, 

cerca la soluzione «in alto».

 

-         di Alessandro D’Avenia

 

In uno dei suoi Dialoghi con Leucò, libro in cui immagina delle conversazioni tra uomini e dei, Cesare Pavese racconta quella tra Esiodo e la Musa. Il poeta si lamenta dell’insoddisfazione che l’ha spinto a cercare la dea sul monte dove risiede, per trovare «l’ispirazione» che possa rinnovare il suo faticoso vivere: «Provo un fastidio delle cose e dei lavori come lo sente l’ubriaco. Allora smetto e salgo qui sulla montagna».

 L’uomo, afferrato dal male di vivere, cerca la soluzione «in alto». Lì spera possa avvenire l’incontro con il divino che non trova «a valle», perché «la montagna» è la verticalità perduta, è il senso delle cose: andare in alto è andare dentro sé e verso il proprio compimento. Vivere solo in orizzontale, nel ripetersi di giorni e abitudini della scatola del mondo, non basta per essere felici. L’uomo in crisi allora è spinto a «salire». Lo psicanalista e filosofo Carl Jung notava: «Fra tutti i pazienti oltre la mezza età, cioè oltre i 35 anni, non ce n’è uno il cui problema non sia quello della sua dimensione religiosa. Soffre perché ha perduto quello che le religioni hanno donato in ogni tempo ai loro fedeli, e nessuno è guarito se non riacquistando nuovamente la sua attitudine religiosa, il che non ha a che fare con una particolare confessione o chiesa». A che cosa si riferiva? A ciò che la penna di Pavese mette in scena: cercare l’incontro con il divino e rinnovare giorni spenti e atti risaputi. E il suo alter-ego narrativo, Esiodo, che cosa trova sulla montagna?

 Jung, paragonandola alle ore della giornata, divideva la vita in tre fasi. Il «mattino dell’esistenza», cioè giovinezza e prima età adulta, è il periodo in cui si sviluppano i tratti fondamentali della personalità, si costruisce un posto nel mondo attraverso un ruolo. Si insegue l’immagine che vogliamo il mondo abbia di noi, la «persona» (maschera in latino), cioè l’identità (sociale) che ci darà sicurezza e riconoscibilità, che risponde alla prima domanda posta da chi non ci conosce: e tu che fai? Il nostro io si struttura e si rassicura in questa immagine-ruolo, che poi dovrà ridimensionare e relativizzare, perché non basterà a dare senso alla vita tutta intera, cioè a salvarci dalla morte. Giunge così la «crisi del mezzogiorno»: non si prova più gioia in ciò che avevamo cercato, si perde energia, ci si sente persi o inquieti, e ci si chiede: tutto qui? In realtà è una richiesta della parte di noi che non abbiamo sviluppato abbastanza se non represso. Vogliamo sapere se esistiamo dietro la maschera, se siamo amati al di là dei ruoli, se possiamo essere al mondo così come siamo e non come dovremmo o vorremmo essere. Se si affronta la crisi e si abbraccia quella che Jung chiama l’ombra (ciò che di noi non accettiamo o non vogliamo vedere, la parte incompiuta di noi), si entra nella terza fase che lo psicanalista definisce «pomeriggio dell’esistenza». C’è chi, a caro prezzo, non inaugura questa fase, ostinandosi a perseguire solo gli obiettivi del mattino, perpetuandone la crisi: immagine, ruolo, affermazione. Quello che il giovane trova al di fuori, l’uomo del pomeriggio deve trovarlo al di dentro, infatti questa tappa che coinvolge maturità e vecchiaia serve a farci aprire alla dimensione più profonda e compiuta del vivere, quella spirituale, che è sinonimo di «libera» e «relazionale», tradotto da Agostino nel famoso «ama e fa’ ciò che vuoi».

È il passaggio dall’ego al sé che ci evita di invecchiare male sviluppando i difetti tipici dell’io mascherato, che vuole continuare a ignorare la morte e la propria non autosufficienza, paure ineludibili che si affrontano solo con l’essere amati, l’amarsi e l’amare. Una condizione che ricorda i tre stadi della vita di Kierkegaard, che definirei «strati» perché non dettati all’età ma dalla scelta. Per il filosofo danese infatti la felicità è nel rendere più profonda la vita, smettendo di cercare fuori ciò che è già in noi: nel primo stadio, estetico, cerchiamo piaceri; nel secondo, etico, doveri: lavoro, matrimonio, figli...; nel terzo, religioso, un senso alle cose, la dimensione spirituale del vivere, che ci fa trovare Dio in noi solo dopo aver dolorosamente scoperto e accettato la nostra non autosufficienza. Non una metafora, non una consolazione psicologica, non un simbolo, ma il fondo e il fondamento della vita a cui oggi non crediamo più.

Quando, nel dialogo di Pavese, la Musa apre gli occhi a Esiodo dicendogli: «Ogni giorno io ti trovo quassù... Ma tu sai che le cose immortali le avete a due passi», il poeta risponde: «Non è difficile saperlo. Toccarle, è difficile». Il poeta, come noi, sente che ciò che raggiunge non basta mai, ci deve essere qualcosa di definitivo, che non si rovina, ma non riesce a toccarlo o a esserne toccato: «E ogni giorno che spunta — dice Esiodo — ti mette davanti la stessa fatica e le stesse mancanze». Allora la Musa gli confida che la risposta è proprio nel quotidiano, lì si trova l’assoluto: «Non capisci che il sacro e il divino accompagnano anche voi, dentro il letto, sul campo, davanti alla fiamma? Giorno e notte, non avete un istante, nemmeno il più futile, che non sgorghi dal silenzio delle origini». L’istante è il luogo dell’eterno. Siamo chiamati a scoprire il divino nel quotidiano, l’infinito nel finito, e la nostra inquietudine è solo nostalgia della gioia d’essere vivi e non solo viventi. Per «toccare» ed «essere toccati» da questa gioia occorre creare lo spazio in cui lo spirito sboccia, contemplazione e ascesi, parole vuote oggi, eppure necessarie a dissotterrare Dio dalla terra di cui siamo fatti. Che cosa vogliamo per un figlio? Oggi rispondiamo «che si realizzi», affidando la vita al progetto «mattutino», ma un figlio è «già» reale.

Potremmo dire, includendo «il pomeriggio», più coraggiosamente «che impari ad amarsi e ad amare», ma la consideriamo una frase sentimentale, salvo poi volere l’educazione sentimentale a scuola (rientra dalla finestra ciò che abbiamo cacciato dalla porta). Sono amato? So amarmi? So amare? Da queste domande dipende il nostro incontro con la vita autentica.

Cesare Pavese si suicidò nell’anno in cui vinse il premio Strega, aveva cercato l’amore nel consenso, e non l’aveva trovato. L’aveva cercato nel lavoro, e non l’aveva trovato. L’aveva cercato nel partito, e non l’aveva trovato. L’aveva cercato in alcune donne sbagliate per lui, e non l’aveva trovato. Nel suo diario che aveva intitolato Il mestiere di vivere annotava: «Il mio cuore è anelante d’attesa, tanto anelante che ne è stanco, stanco». Era così stanco che si procurò il sonno definitivo con i sonniferi che usava, dopo aver scritto l’ultimo messaggio proprio sulla prima pagina di una copia dei Dialoghi con Leucò. A 41 anni si procurò con la forza l’appuntamento con il divino: anche se aveva intuito, proprio in quel libro, che quell’incontro poteva essere a portata di mano. Come il suo Esiodo non seppe trovare ciò che la mente e la penna sapevano: l’eterno è dove sei e in chi sei. Forse per questo quella stessa penna scrisse nell’ultimo pensiero del suo diario: «o Tu, abbi pietà». Il mestiere di vivere non è forse tutto qui?

 

Alzogliocchiversoilcielo

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sabato 6 giugno 2020

LA GIUSTA DISTANZA OLTRE LA PANDEMIA


- Più che distanti, stiamo imparando a vivere lontani, da tutto e da tutti, rifugiati negli angoli delle nostre case per stare connessi con il mondo, ma isolati gli uni dagli altri Noi esseri umani abbiamo soprattutto bisogno di sperare di tornare a ridere con i nostri amici e amiche in una notte stellata, sotto lo sguardo compiaciuto della luna


di DONATELLA PAGLIACCI

Siamo rimasti tutti – chi più chi meno – recintati entro le nostre case, confinati negli spazi delle nostre vite, margini a volte troppo stretti, per ospitare famiglie disabituate alla condivisione, altre volte troppo larghi per la traversata della vita, che desideriamo o siamo costretti a compiere anche in solitaria. Un virus di per sé dalle misure decisamente piccole è divenuto d’un colpo un mostro che ha rastrellato via i nostri affetti, senza lasciarci il tempo di un saluto, di un bacio e a volte nemmeno di preparare un abito per comporre, decorosamente, gli umani resti dentro una bara. Abbiamo trascorso giorni e, prima che ce ne potessimo accorgere, sono diventati mesi, vissuti da tutti nell'attesa di conoscere l’inizio della fine, cercandolo nelle parole rassicuranti della scienza o in quelle confortanti degli uomini e donne di fede che si sono prodigati per sostenere, incoraggiare, dare fiducia e rilanciare la parola più calda e più sensata di cui avevamo e abbiamo ancora bisogno: speranza.
Sì, perché a dispetto di tutti i pronostici e le valutazioni sul nostro tempo, noi esseri umani abbiamo soprattutto bisogno di questo, di sperare. Sperare di tornare a ridere con i propri amici e amiche in una notte stellata, sotto lo sguardo compiaciuto della luna, sperare di riprendere il proprio lavoro, sperare che l’attività che abbiamo fatto nascere e nella quale ci impegniamo ogni giorno possa continuare ad essere una delle nostre soddisfazioni, anche quando non mancano le delusioni, sperare che il più noto, che ci accompagna ricordandoci chi siamo, il nostro passato non ceda il posto al meno conosciuto e che abbiamo imparato a temere, il futuro. Qualcuno si è affrettato a ricordarci che il virus ha tagliato in due la nostra vita, tra un prima e un dopo scandendo, a chiare lettere, che: “niente sarà più come prima”, un monito che pare una minaccia, un oscuro presagio per il domani, che ormai ha già, per tutti, il sapore della nostalgia. Ci mancano gli sforzi eroici per rincorrere il tempo, che non riuscivamo mai veramente a vivere e le piccole cose che temiamo, assaliti da un acre sapore di amarezza, di avere definitivamente perduto, quegli attimi, a tratti insignificanti, che occupavano, a volte affollandola di inutile, la nostra vita.
Tutto, durante il lockdown, è stato reinventato, ci si è soffermati a pensare a cosa fare, a come riempire le nostre giornate, svuotate del tutto pieno, che le caratterizzava prima, per evitare di sprofondare, improvvisamente, nel loro tutto vuoto. Solo qualcuno, spostando la lente del suo interesse da fuori a dentro, da sé all’altro si è accorto che il volto di chi gli è sempre vissuto accanto era contornato di qualche ruga in più, quella che non aveva avuto il tempo di scorgere prima, tra un ritorno a casa la sera tardi e la partenza di fretta la mattina dopo. Qualcun altro si è reso anche conto che non c’è nulla di scontato, nemmeno il male che può, da oggi a domani, divenire pure peggio. Ma l’assenza della solita vita e delle solite cose, avrebbe anche dovuto ricordarci che siamo figli, amanti, compagni, fratelli, sorelle, padri e madri, cioè che l’amore è a tempo pieno e che, anche durante una pandemia – e forse proprio in una fase emergenziale – l’amore non si sospende, il desiderio e il bisogno d’amore non va in quarantena e l’altro chiede, oggi come ieri, di essere amato riconosciuto, rispettato, accolto. Ci è stato detto che il nostro modo di manifestare l’affettività, fatta di abbracci, del calore che proviene da una carezza, dal modo con cui sfioriamo qualcuno che amiamo veramente, dovevano essere sospesi, interrotti, ci è stato chiesto di stare distanti da tutti, si potrebbe dire tranne che da se stessi, come se la vicinanza custodisse il pericolo del contagio e la distanza fosse la misura per proteggerci e tenerci al sicuro.
Ma in realtà più, che distanti, stiamo imparando a vivere lontani, da tutto e da tutti, rifugiati negli angoli delle nostre case per stare connessi con il mondo, ma isolati gli uni dagli altri, collegati virtualmente, ma privati dell’intensità di uno sguardo, cedendo, ancora una volta, alla tentazione di pensare la distanza come la forma neutra dello stare nella relazione. Abbiamo il sospetto che, sulle note malinconiche o festose che hanno risuonato sui balconi che contornano le vie deserte delle nostre città durante questa pandemia, qualcuno abbia voluto e stia volendo, in realtà, esercitarci a vivere nel timore, pensando che il male proviene sempre da fuori e che, per preservare la nostra incolumità, dobbiamo di nuovo – se mai li avessimo abbattuti – erigere dei muri, tra noi e gli altri, barriere di protezione e di difesa, fatte di sospetto e di indifferenza, quando non anche, di disgusto e di disprezzo. Ci pare che vi sia una minaccia strisciante che si annida dentro e non fuori i recinti della nostra vita, è il rischio di un prepotente ritorno di quell’ego ipertrofico e dispotico che la riflessione dopo la Shoah aveva cercato di ridimensionare e contenere. Legittimati dalla minaccia del contagio, siamo dinanzi al pericolo di un io che torni, in altro modo e sostenuto dalle potenti prestazioni della tecnologia, a fagocitare tutto, che ponga tutto in funzione di sé; temiamo che le campagne sull’ambiente e l’appello alla sostenibilità, che tanta luce hanno portato anche in ambito economico e con forza ci avevano convinti a riposizionare lo sguardo anche sull’altro, oggi possano essere definitivamente abbandonate. Costretti a percepire le nostre abitazioni come porti sicuri contro i marosi del mondo, corriamo il pericolo di restituire lo scettro nelle mani di chi, in nome della legittima difesa dell’io, coltivi solo odio e indifferenza. I teorici dell’individualismo, oggi mascherati da samaritani inaffidabili, potrebbero riuscire a convincerci che la sola strada sia quella di tenere gli altri lontani dalle nostre vite, il fatto è che quando veniamo isolati e senza il senso del nostro essere comunità noi siamo solo più fragili, vulnerabili e facilmente manipolabili. Accanto a ciò, temiamo che la sola apparente riduzione della violenza, sia l’anticamera di un periodo pericolosamente dominato dall’eterofobia, legittimata questa volta dall’idea che dobbiamo avere paura degli altri, più che di noi stessi, dimenticando in tal modo la lezione del grande Dottore della Chiesa, Agostino d’Ippona, che ci ricorda che la genesi del male morale è sempre dentro il recinto del nostro essere e non fuori. Desideriamo, in tal senso, rilanciare l’idea della giusta distanza (che abbiamo espresso nel nostro recente volume
L’io nella distanza. Essere in relazione, oltre la prossimità, Mimesis 2019), come la forma calda dell’essere insieme, il modo di abitare lo spazio che separa me da te, evitando la riduzione dell’uno all’altro, lo sconfinamento e l’impossessamento. Consapevoli di andare controcorrente vorremmo riscoprire la ricchezza e la bellezza di un io che non teme l’altro e che anzi si misura con lo sguardo del prossimo che ha anche il volto di chi non conosciamo, un io che tiene l’altro a distanza ma solo per potergli manifestare più rispetto, più accoglienza, più condivisione, più amore, che lo tiene a distanza solo perché non intende ridurlo entro lo spazio finito della propria sfera di dominio, per controllarlo e addomesticarlo, per renderlo docile e mansueto, che attraverso l’essere a distanza diviene più capace di ascolto, di sentire e riconoscere i suoi bisogni, che lo percepisce nella verità del suo essere per ospitarlo entro lo spazio prezioso della propria vita.
Saper stare alla giusta distanza dall’altro, che oggi possiamo riscoprire – ma che non automaticamente dobbiamo illuderci di saper praticare solo perché siamo rimasti tutti a casa – significa saper accogliere senza fagocitare, amare senza invadere lo spazio vitale dell’altro, donargli un sorriso, sapersi accorgere di dove abitano i suoi sogni ed incoraggiarlo, senza sostituirsi a lui, a realizzare il suo bene nei modi e nelle forme del suo e non del nostro desiderio.