Una svolta epocale
A Capodanno il Covid compie due anni. La
sua presenza fu segnalata in Cina per la prima volta il 31 dicembre 2019 e
da allora il virus ha dilagato, con le sue varianti, in tutto il mondo,
raggiungendo proprio in questi giorni, in Europa e negli Stati uniti,
picchi impressionanti di contagi.
Non possiamo certo festeggiare questo compleanno.
Esso, tuttavia, merita –come dovrebbe essere per tutti i compleanni – che ci
fermiamo a riflettere su ciò che il tempo trascorso ha portato di nuovo e di
diverso, nonché sulla direzione che si profila per quello futuro. Una
riflessione resa più urgente e significativa dal fatto che questa pandemia
si è ormai imposta come un evento epocale, capace di coinvolgere l’intera
umanità non solo per quanto riguarda la salute fisica, ma anche nei suoi
stati d’animo, nei suoi atteggiamenti esistenziali, nei suoi stili di
vita.
Come la grande epidemia di peste nera,
nel XIV secolo, caratterizzò il passaggio dal medioevo all’età moderna,
così anche questa del coronavirus sembra destinata a segnare una svolta di
civiltà, di cui ancora non siamo in grado di misurare tutta la portata
(come non lo furono sicuramente i nostri antenati medievali), ma che, nel
bene e nel male, inciderà profondamente sulla nostra cultura e sul nostro
modo di vivere.
Dalla libertà
modellata sulla proprietà…
Un esempio eclatante di questa
“rivoluzione culturale” è il cambiamento dell’idea di libertà. Nel corso
della modernità essa è stata sempre più chiaramente definita sul modello
della proprietà privata. Fu in Inghilterra – a partire dal XIV secolo, con
un processo sempre più accelerato – , che quest’ultimo concetto,
estremamente marginale al tempo del feudalesimo, acquistò importanza.
Prima di allora le terre erano comuni
(oper fields) e venivano lavorate dai contadini in una logica cooperativa,
ispirata più ai bisogni della popolazione contadina che non a produrre
merci per il mercato. Le crescenti esigenze economiche della monarchia –
di quella inglese prima, seguita però poi dalle altre dell’Europa
occidentale – spinsero i sovrani ad avviare il fenomeno delle recinzioni
(enclosures), cioè della vendita a privati di parti di questo territorio
demaniale, che veniva di conseguenza recintato e utilizzato in
modo esclusivo dal nuovo proprietario.
Da qui una utilizzazione molto più
redditizia di queste terre, che ebbe come risvolto doloroso la cacciata di
parte della popolazione contadina che prima viveva su di esse e che
permise, però, lo sviluppo della nuova economica capitalista.
È significativo che proprio in
Inghilterra si sia sviluppata, nel corso del Seicento, quella filosofia
liberale che ridefiniva l’idea di libertà. Quest’ultima non veniva più
identificata con il “libero arbitrio”, bensì come la possibilità di agire senza
impedimenti da parte di altri. In questa visione, destinata ad affermarsi nella cultura occidentale successiva, si è liberi
nella misura in cui si può fare o avere quello che si vuole.
Ovviamente una libertà così concepita può essere ammessa solo nella sfera ristretta in cui l’individuo dispone di sé senza invadere l’analoga libertà degli altri. Essa ha dunque dei limiti precisi, espressi nella famosa formula secondo cui «la libertà di ciascuno finisce dove comincia quella dell’altro». Formula che suppone che vi sia una sfera entro cui si può disporre di sé e della propria vita come si vuole, senza dover accettare interferenze altrui, salvo a doversi fermare al confine in cui comincia la libertà dell’altro.
Come nella
proprietà privata.
E non a caso il modello della proprietà
veniva adottato in queste filosofie per definire la persona, concepita non
più in termini di “essere”, ma di “avere”: si è se stessi in quanto
proprietari delle proprie facoltà mentali e fisiche. Una visione che si è
ampiamente consolidata nella società contemporanea.
Basta ricordare lo slogan dei
cortei femministi in occasione del referendum sull’aborto: «L’utero è mio
e ne faccio quello che voglio». Una visione analoga fa da sfondo alla
recente proposta popolare di referendum sul suicidio assistito, secondo
cui, anche in assenza di insopportabili sofferenze fisiche dovrebbe essere
consentito il porre fine alla propria vita senza risponderne a nessuno.
È a questa prospettiva che, già durante
il dibattito sul testamento biologico, si ispirava una intelligente
esponente della cultura “laica”, Michela Marzano, quando scriveva: «Sono
anni che il fronte del “no” invoca il concetto di “sacralità della vita”,
facendo finta di non sapere che la dignità di ognuno di noi si fonda sulla
nostra autonomia, e che nessuno dovrebbe arrogarsi il diritto di
giudicare le nostre scelte e i nostri desideri» («La Repubblica», 27
febbraio 2017).
Neppure la scienza. È ancora Michela
Marzano che lo scrive, con perfetta coerenza, polemizzando contro il ruolo
assegnato ai medici nella legge sul testamento biologico: «Dovevo essere
io a decidere. Io paziente, io che soffro e chiedo solo di andarmene via,
io che ho diritto di restare fino alla fine soggetto della mia vita. E
invece niente. Alla fine, l’ultima parola spetterà ancora ai medici» («La
Repubblica» del 20 marzo 2017).
… Alla libertà come
responsabilità
Ebbene, il Covid ci sta costringendo a
ripensare questa convinzione. Anche se essa è tanto tenacemente radicata
da resistere di fronte all’evidenza, come dimostrano le perduranti
opposizioni dei novax e no pass ad ogni misura restrittiva della loro
“libertà”. Ed effettivamente, nella logica di una libertà intesa come
proprietà assoluta del proprio corpo e come scelta insindacabile
del soggetto, in una sfera individuale che nessuno ha il diritto di
violare, sono perfettamente comprensibili il rifiuto di vaccinarsi e la
protesta indignata contro ogni misura direttamente o indirettamente
repressiva di questa scelta individuale.
Per una volta, però, la realtà si impone
sulle ideologie e ci costringe a superarle. La pandemia ci ha fatto
toccare con mano l’infondatezza della visione “insulare” di un individuo
che, nella sua sfera personale, può disporre di sé come vuole e che un
netto confine divide dalla sfera della libertà altrui. Questa sfera non
esiste.
Ognuno, anche quando decide del suo
destino, influisce inevitabilmente su quello degli altri. Non è vero che
siamo liberi fino al confine che ci separa dall’altro, perché questo
confine è un’illusione otica: l’altro è sempre con noi, dentro di noi, per
un’appartenenza reciproca che possiamo cercare di misconoscere, ma che non
per questo viene cancellata.
Il Covid ce lo ha ricordato: quello che
io faccio di me stesso, del mio corpo, non riguarda mai soltanto me, ma
tutti gli altri, che soffriranno le conseguenze delle mie scelte (e questo
vale anche per l’aborto e per il suicido assistito!). La logica di quello
che uno storico ha definito «individualismo possessivo» non è conforme
alla realtà. La libertà è sempre anche responsabilità.
E oggi, sotto l’incalzare della
pandemia, gli stessi Paesi neocapitalisti, dove questa cultura continua
per altri versi a dominare, sono costretti a contraddirsi, adottando
misure in cui si prende atto che esiste un bene comune che non è la somma
e l’equilibrio degli interessi individuali interpretati dai singoli, ma
un bene oggettivo di tutti (anche dei contestatori), a cui tutti devono
concorrere e che lo Stato deve garantire.
Perché l’individuo – come soggetto
assolutamente autonomo, indipendente dagli altri e legittimato a
comportarsi come tale, all’interno della sua sfera privata – non esiste.
Noi siano sempre indissolubilmente legati a tutti gli altri uomini e donne
della terra.
Lo ha scritto, tanto tempo fa, un poeta
inglese del Seicento, John Donne, in un testo che avrebbe dato il titolo a
un famoso romanzo di Hemingway, «Per chi suona la campana»: «Nessun uomo è
un’isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del continente, una
parte della terra. Se una zolla viene portata via dall’onda del mare,
l’Europa ne è diminuita, come se un promontorio fosse stato al suo posto,
o una magione amica, o la tua stessa casa. Ogni morte d’uomo
mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità. E così non mandare mai a
chiedere per chi suona la campana: essa suona per te».
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