A 450 anni dalla nascita ricordiamo il grande astronomo Giovanni Keplero (27 dicembre 1571- 15 novembre 1630). Egli non ci lascia soltanto le tre leggi sul moto dei pianeti che portano il suo nome, ma ha effettuato un vero e proprio cambiamento di paradigma, superando il principio assiomatico che tutti i moti celesti debbano essere circolari e procedere con velocità uniforme. Principio che aveva dominato tutta l’astronomia antica e che risultava ancora tanto caro a Copernico e a Galileo. Ha iniziato in questo modo un’autentica rivoluzione nel mondo dell’astronomia.
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MATTEO GALAVERNI e RICHARD D’SOUZA
Cresciuto
nell’ambiente della Riforma, frequentò la Facoltà di Teologia dell’Università
di Tubinga con l’intenzione di diventare predicatore e teologo luterano. Ma
dopo aver studiato matematica e astronomia alla facoltà, diventò un copernicano
convinto. Nel 1600 fu invitato a lavorare con Tycho Brahe, matematico imperiale
alla corte di Rodolfo II. Qui ebbe la fortuna di accedere a una grande mole di
dati sulle osservazioni dei pianeti. L’anno successivo, dopo la morte di Brahe,
prese il suo posto come matematico imperiale e poté sviluppare liberamente la
propria linea di ricerca.
Per Keplero lo «scopo principale a cui l’astronomo aspira [...] è quello di farsi un’immagine dell’autentica forma e struttura dell’intero universo» (Epitome Astronomiæ Copernicanæ, 1621). Questa convinzione lo spinse a porsi domande sulla vera natura dell’universo: perché c’è un certo numero di pianeti? Perché si trovano a quelle distanze dal centro del Cosmo? Perché possiedono proprio determinate velocità e cosa è responsabile del loro moto? Prima di Keplero, c’erano vari sistemi astronomici disponibili, e gli astronomi erano liberi di scegliere quello più comodo per effettuare i calcoli per trovare un corpo celeste, predire un’eclisse o compilare
un
calendario. Con le sue domande ha operato un vero e proprio cambio di
prospettiva.
Anche
il suo metodo era rivoluzionario. Partendo dalle osservazioni di Brahe cercò di
formulare relazioni matematiche per chiarire la teoria sottostante. Quando le
sue predizioni non corrispondevano ai dati, considerava il suo modello teorico
anco- ra inadatto e tornava nuovamente al lavoro per formularne uno più
adeguato. Dopo nove anni di duro lavoro, nel 1609 pubblicò il suo capolavoro, Astronomia Nova, nel quale
presentò la legge sulla forma ellittica delle orbite planetarie e quella delle
aree. Quest’ultima, trovata inizialmente per l’orbita di Marte, descrive come
la velocità di un pianeta è maggiore quando esso è più vicino al Sole. Guidato
dalla convinzione dell’armonia celeste di Pitagora, nel 1618, trovò la legge
che metteva in relazione il periodo di rivoluzione di un pianeta con la
sua distanza dal Sole. La sua principale preoccupazione era quella di
comprendere l’'influsso' del Sole, che sembrava diminuire con la distanza.
Nonostante avesse avuto la giusta intuizione, non poté però formulare una vera
e propria teoria di gravitazione universale, mancando ancora in quell’epoca i
necessari strumenti matematici. Bisognerà attendere l’opera di Newton che anni
dopo proprio nelle leggi di Keplero troverà una conferma della sua teoria.
Sarebbe interessante mettere a confronto Galileo e Keplero. Nonostante alcune lettere scambiate tra loro, i rapporti non furono mai troppo cordiali. Galileo non si riferì mai alle leggi di Keplero né mai all’idea di 'orbite ellittiche'. Inoltre, Galileo sminuì la teoria delle maree di Keplero, secondo la quale alla base delle maree ci sarebbe l’attrazione reciproca tra la Terra e la Luna. Anche gli interessi e i metodi dei due studiosi erano diversi. Keplero rimaneva soprattutto un astronomo, dedito ai calcoli, impegnato a cercare argomenti per giustificare le sue teorie sulla base dell’ingente quantità di osservazioni; Galileo prediligeva invece la sperimentazione fisica e tentava di provare i moti della Terra con analogie intuitive e argomenti un po’ azzardati e talvolta errati. Keplero, metodico e riflessivo, non era un gran letterato e i suoi scritti, spesso ricchi di conteggi e di formule, erano in lingua latina; Galileo era un maestro della lingua toscana, dal temperamento acceso e non di rado polemico, col quale amava imporsi all’attenzione degli uditori. Tutti e due continuano ad avere un grande influsso sul metodo della scienza fino a oggi.
Keplero
era convinto che le impronte del Creatore si potessero ritrovare nelle
proporzioni del Cosmo e nelle sue leggi. Era animato da una fede profonda che
lo portava a ritenere che Dio avesse scelto proprio lui per divulgare a tutta
l’umanità le meraviglie insite nella Creazione. Così scriveva riferendosi allo
studio dell’universo: «Gli astronomi sono sacerdoti del Dio Altissimo in
rapporto al Libro della Natura, per cui è nostro dovere non cercare la nostra
gloria, ma la gloria di Dio sopra ogni altra cosa» (Lettera a Herwath von
Hohenburg, 26/3/1598). Alcune delle sue idee possono ispirarci a continuare il
dialogo tra scienza e fede.
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