Accanto alla maggioranza ragionevole e saggia si leva un’onda di irrazionalità. È un sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco, sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà.
Gli italiani e l’irrazionale. Accanto
alla maggioranza ragionevole e saggia si leva un’onda di irrazionalità. È un
sonno fatuo della ragione, una fuga fatale nel pensiero magico, stregonesco,
sciamanico, che pretende di decifrare il senso occulto della realtà. Per il
5,9% degli italiani (circa 3 milioni di persone) il Covid semplicemente non
esiste. Per il 10,9% il vaccino è inutile e inefficace. Per il 31,4% è un
farmaco sperimentale e le persone che si vaccinano fanno da cavie. Per il 12,7%
la scienza produce più danni che benefici. Si osserva una irragionevole
disponibilità a credere a superstizioni premoderne, pregiudizi antiscientifici,
teorie infondate e speculazioni complottiste. Dalle tecno-fobie: il 19,9% degli
italiani considera il 5G uno strumento molto sofisticato per controllare le
menti delle persone. Al negazionismo storico-scientifico: il 5,8% è sicuro che
la Terra sia piatta e il 10% è convinto che l’uomo non sia mai sbarcato sulla
Luna. La teoria cospirazionistica del «gran rimpiazzamento» ha contagiato il
39,9% degli italiani, certi del pericolo della sostituzione etnica: identità e
cultura nazionali spariranno a causa dell’arrivo degli immigrati, portatori di
una demografia dinamica rispetto agli italiani che non fanno più figli, e tutto
ciò accade per interesse e volontà di presunte opache élite globaliste.
L’irrazionale ha infiltrato il tessuto sociale, sia le posizioni scettiche
individuali, sia i movimenti di protesta che quest’anno hanno infiammato le
piazze, e si ritaglia uno spazio non modesto nel discorso pubblico,
conquistando i vertici dei trending topic nei social network, scalando le
classifiche di vendita dei libri, occupando le ribalte televisive.
Nel ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali. L’irrazionale che oggi si
manifesta nella nostra società non è semplicemente una distorsione legata alla
pandemia, ma ha radici socioeconomiche profonde, seguendo una parabola che va
dal rancore al sovranismo psichico, e che ora evolve diventando il gran rifiuto
del discorso razionale, cioè degli strumenti con cui in passato abbiamo
costruito il progresso e il nostro benessere: la scienza, la medicina, i
farmaci, le innovazioni tecnologiche. Ciò dipende dal fatto che siamo entrati
nel ciclo dei rendimenti decrescenti degli investimenti sociali. Questo
determina un circolo vizioso: bassa crescita economica, quindi ridotti ritorni
in termini di gettito fiscale, conseguentemente l’innesco della spirale del
debito pubblico, una diffusa insoddisfazione sociale e la ricusazione del
paradigma razionale. La fuga nell’irrazionale è l’esito di aspettative
soggettive insoddisfatte, pur essendo legittime in quanto alimentate dalle
stesse promesse razionali. Infatti, l’81% degli italiani ritiene che oggi sia
molto difficile per un giovane vedersi riconosciuto nella vita l’investimento
di tempo, energie e risorse profuso nello studio. Il 35,5% è convinto che non
conviene impegnarsi per laurearsi, conseguire master e specializzazioni, per
poi ritrovarsi invariabilmente con guadagni minimi e rari attestati di
riconoscimento. Per due terzi (il 66,2%) nel nostro Paese si viveva meglio in
passato: è il segno di una corsa percepita verso il basso. Per il 51,2%,
malgrado il robusto rimbalzo del Pil di quest’anno, non torneremo più alla
crescita economica e al benessere del passato. Il Pil dell’Italia era cresciuto
complessivamente del 45,2% in termini reali nel decennio degli anni ’70, del
26,9% negli anni ’80, del 17,3% negli anni ’90, poi del 3,2% nel primo decennio
del nuovo millennio e dello 0,9% nel decennio pre-pandemia, prima di crollare
dell’8,9% nel 2020. Negli ultimi trent’anni di globalizzazione, tra il 1990 e
oggi, l’Italia è l’unico Paese Ocse in cui le retribuzioni medie lorde annue
sono diminuite: -2,9% in termini reali rispetto al +276,3% della Lituania, il
primo Paese in graduatoria, al +33,7% in Germania e al +31,1% in Francia.
L’82,3% degli italiani pensa di meritare di più nel lavoro e il 65,2% nella
propria vita in generale. Il 69,6% si dichiara molto inquieto pensando al
futuro, e il dato sale al 70,8% tra i giovani.
Il rischio di erosione del patrimonio delle famiglie. Solo il 15,2% degli italiani
ritiene che dopo la pandemia la propria situazione economica sarà migliore. Per
la maggioranza (il 56,4%) resterà uguale e per un consistente 28,4% peggiorerà.
La ricchezza complessiva delle famiglie è pari a 9.939 miliardi di euro. Il
patrimonio in beni reali ammonta a 6.100 miliardi (il 61,4% del totale),
depositi e strumenti finanziari valgono 4.806 miliardi (al netto delle
passività finanziarie, pari a 967 miliardi, corrispondono al 38,6% della
ricchezza totale). Ma nell’ultimo decennio (2010-2020) il conto patrimoniale
degli italiani si è ridotto del 5,3% in termini reali, come esito della caduta
del valore dei beni reali (-17,0%), non compensata dalla crescita delle
attività finanziarie (+16,2%). Gli ultimi dieci anni segnano quindi una netta
discontinuità rispetto al passato: si è interrotta la corsa verso l’alto delle
attività reali che proseguiva spedita dagli anni ’80. La riduzione del
patrimonio, esito della diminuzione del reddito lordo delle famiglie (-3,8% in
termini reali nel decennio), mostra come si sia indebolita la capacità degli
italiani di formare nuova ricchezza.
Il rimbalzo nella scarsità. Ci sono fattori di freno che
congiurano contro la ripresa economica. Tutti i rischi di natura
socio-economica che avevamo paventato durante la pandemia (il crollo dei
consumi, la chiusura delle imprese, i fallimenti, i licenziamenti, la povertà
diffusa) vengono oggi rimpiazzati dalla paura di non essere in grado di
alimentare la ripresa, di inciampare in vecchi ostacoli mai rimossi o in altri
che si parano innanzi all’improvviso, tanto più insidiosi quanto più la nostra
rincorsa si dimostrerà veloce. A cominciare dal rischio di una fiammata
inflazionistica. A ottobre 2021 il rialzo dei prezzi alla produzione
nell’industria è stato consistente: +20,4% su base annua. Si registra un +80,5%
per l’energia, +13,3% per la chimica, +10,1% per la manifattura nel complesso,
+4,5% per le costruzioni.
Le incognite che pesano sul risveglio dei consumi dopo la
depressione della domanda interna. Il forte recupero dei consumi delle famiglie (+14,4%
tra il secondo trimestre del 2020 e il secondo del 2021) è figlio dell’allentamento
delle misure di contenimento del contagio. Si prevede una crescita dei consumi
del 5,2% su base annua, inferiore alla crescita del Pil e inadeguata a
ricollocare il Paese sui livelli di spesa delle famiglie del 2019. In Italia il
tasso medio annuo di crescita reale dei consumi si è progressivamente ridotto
nel tempo, passando dal +3,9% degli anni ’70 al +2,5% degli anni ’80, al +1,7%
degli anni ’90. Nel primo decennio del nuovo millennio si è attestato su un
+0,2% e poi l’anno della pandemia ha trascinato in negativo la media decennale:
-1,2%.
Complotto contro il lavoro: il gioco al ribasso della domanda e
dell’offerta. Quasi
un terzo degli occupati possiede al massimo la licenza media. Sono 6,5 milioni
nella classe di età 15-64 anni, di cui 500.000 non hanno titoli di studio o al
massimo hanno conseguito la licenza elementare. Anche tra i poco meno di 5
milioni di occupati di 15-34 anni quasi un milione ha conseguito al massimo la
licenza media (il 19,2% del totale), 2.659.000 hanno un diploma (54,2%) e
1.304.000 sono laureati (26,6%). Considerando gli occupati con una età di 15-64
anni, la quota dei diplomati scende al 46,7% e quella dei laureati al 24,0%.
Un’occupazione povera di capitale umano, una disoccupazione che coinvolge anche
un numero rilevante di laureati e offerte di lavoro non orientate a inserire
persone con livelli di istruzione elevati indeboliscono la motivazione a fare
investimenti nel capitale umano. L’83,8% degli italiani ritiene che l’impegno e
i risultati conseguiti negli studi non mettono più al riparo i giovani dal
rischio di dover restare disoccupati a lungo. L’80,8% degli italiani
(soprattutto i giovani: l’87,4%) non riconoscono una correlazione diretta tra
l’impegno nella formazione e la garanzia di avere un lavoro stabile e adeguatamente
remunerato.
Il sottoutilizzo del capitale umano e la dissipazione delle
competenze. L’Italia
affronta la grande sfida della ripresa post-pandemia con una grave debolezza:
la scarsità di risorse umane su cui fare leva. Il primo fattore critico è
l’inverno demografico. Tra il 2015 e il 2020 si è verificata una contrazione
del 16,8% delle nascite. Nel 2020 il numero di nati ogni 1.000 abitanti è sceso
per la prima volta sotto la soglia dei 7 (6,8), il valore più basso di tutti i
Paesi dell’Unione europea (media Ue: 9,1). La popolazione complessiva
diminuisce anno dopo anno: 906.146 persone in meno tra il 2015 e il 2020.
Secondo gli scenari di previsione, la popolazione attiva (15-64 anni), pari
oggi al 63,8% del totale, scenderà al 60,9% nel 2030 e al 54,1% nel 2050.
Secondo un’indagine del Censis, poco prima della pandemia il 33,1% dei
capifamiglia con meno di 45 anni aveva l’intenzione di sposarsi o di convivere
e il 29,8% aveva l’intenzione di fare un figlio. Ma soltanto il 26,5% ha
continuato a progettare o ha effettivamente intrapreso un matrimonio o una
convivenza stabile. In un caso su dieci il progetto originale è stato
annullato. La grande maggioranza delle famiglie che stavano pensando di avere
un figlio ha deciso di rinviare (55,3%) o di rinunciare definitivamente al
progetto genitoriale (11,1%).
Ricchezza privata, povertà pubblica: la carenza di capitale
sociale. Uno
degli ambiti in cui le misure espansive si sono concretizzate in modo più
evidente è l’edilizia privata. Al 30 settembre 2021 gli interventi edilizi in
corso o conclusi incentivati con il super-bonus 110% sono stati più di 46.000,
per un ammontare di investimenti ammessi a detrazione pari a quasi 7,5 miliardi
di euro (di cui il 68,2% per lavori conclusi), con un onere per lo Stato di 8,2
miliardi. Il boom degli ultimi mesi è legato alla crescita della quota relativa
ai condomini, che oggi è pari solo al 13,9% degli interventi (la percentuale
era del 7,3% a febbraio), ma rappresenta poco meno della metà dell’ammontare
complessivo (il 47,7%), dato che l’importo medio dei lavori nei condomini si
attesta intorno ai 560.000 euro, contro i circa 100.000 euro degli interventi
su singole unità immobiliari. Il rischio è che una parte dello stock di
abitazioni private sia oggetto di un generoso intervento di riqualificazione
energetica (nonché di valorizzazione economica) a carico della collettività,
mentre molti asset pubblici (dalle scuole agli ospedali) permangano in uno
stato di cattiva manutenzione.
Magazzino Italia: la logistica necessaria per la
ripartenza. Nei
primi sei mesi del 2020 il traffico veicolare leggero sulla rete autostradale è
crollato del 43,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La
contrazione è comunque elevata (-32,1%) anche considerando tutto il 2020 rispetto
al 2019. La ripresa nel 2021 del traffico merci riflette l’andamento economico
del Paese. Con il rilancio delle esportazioni sono cresciute le merci
trasportate via mare (+5,3% nei primi sette mesi dell’anno rispetto allo stesso
periodo del 2020) e via ferro (+7,8%), recuperano le merci spostate su gomma
(-1,4%), mentre il traffico aereo di merci registra ancora un dato fortemente
negativo (-64,1%).
I giovani alla prova della pandemia. La percezione che i gangli del
potere decisionale siano in mano alle fasce anziane della popolazione è molto
forte tra i giovani: è quanto emerge da un’indagine del Censis. Il 74,1% dei
giovani di 18-34 anni ritiene che ci siano troppi anziani a occupare posizioni
di potere nell’economia, nella società e nei media, enfatizzando una opinione
comunque ampiamente condivisa da tutta la popolazione (65,8%). Il 54,3% dei
18-34enni (a fronte del 32,8% della popolazione complessiva) ritiene che si
spendano troppe risorse pubbliche per gli anziani, anziché per i giovani. La precarietà
lavorativa sperimentata nei percorsi di vita individuali influenza il clima di
fiducia verso lo Stato e le istituzioni. Il 58% della popolazione italiana
tende a non fidarsi del governo, ma tra i giovani adulti la percentuale sale al
66%. I Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, costituiscono una
eclatante fragilità sociale del nostro Paese. Tra tutti gli Stati europei,
l’Italia presenta il dato più elevato, che negli anni continua a aumentare. Nel
2020 erano 2,7 milioni, pari al 29,3% del totale della classe di età 20-34
anni: +5,1% rispetto all’anno precedente. Nel Mezzogiorno sono il 42,5%, quasi
il doppio dei coetanei che vivono nelle regioni del Centro (24,9%) o nel Nord
(19,9%).
Le donne alla prova della pandemia. A giugno 2021, nonostante il
rimbalzo dell’economia del primo semestre, le donne occupate hanno continuato a
diminuire: sono 9.448.000, alla fine del 2020 erano 9.516.000, nel 2019 erano
9.869.000. Durante la pandemia 421.000 donne hanno perso o non hanno trovato
lavoro. Il tasso di attività femminile (la percentuale di donne in età
lavorativa disponibili a lavorare) a metà anno è al 54,6%, si è ridotto di
circa 2 punti percentuali durante la pandemia e rimane lontanissimo da quello
degli uomini, pari al 72,9%. Da questo punto di vista, l’Italia si colloca
all’ultimo posto tra i Paesi europei, guidati dalla Svezia, dove il tasso di
attività femminile è pari all’80,3%, e siamo distanti anche da Grecia e
Romania, che con il 59,3% ci precedono immediatamente nella graduatoria. La pandemia
ha comportato un surplus inedito di difficoltà rispetto a quelle abituali per
le donne che si sono trovate a dover gestire in casa il doppio carico
figli-lavoro. Il 52,9% delle donne occupate dichiara che durante l’emergenza
sanitaria si è dovuto sobbarcare un carico aggiuntivo di stress, fatica e
impegno nel lavoro e nella vita familiare, per il 39,1% la situazione è rimasta
la stessa del periodo pre-Covid e solo per l’8,1% è migliorata. Tra gli
occupati uomini, invece, nel 39,3% dei casi stress e fatica sono peggiorati,
nel 44,9% sono rimasti gli stessi e nel 15,9% sono migliorati.
Il bello e il brutto di internet. La battaglia individuale contro la
pandemia è stata combattuta con le armi della disintermediazione digitale.
Durante l’emergenza, a più di un italiano su due le tecnologie digitali hanno
consentito di provvedere alle proprie necessità (58,6%), di mantenere le
relazioni sociali (55,3%) e di continuare a lavorare o studiare (55,2%). Ma il
livello di istruzione rappresenta ancora un fattore di filtro. Ad esempio, gli
utenti di internet in possesso di un basso titolo di studio (fino alla licenza
media) sono più restii a utilizzare online il proprio conto corrente: lo fa il
30,3% a fronte del 60,1% di diplomati e laureati.
I risvolti sociali positivi: la riscoperta della solidarietà. Un terzo degli italiani ha
partecipato a iniziative di solidarietà legate all’emergenza sanitaria,
aderendo alle raccolte di fondi per associazioni non profit, per la Protezione
civile o a favore degli ospedali. Quasi un terzo di coloro che si sono attivati
ha svolto in prima persona attività gratuita in associazioni di volontariato
impegnate nella lotta al Covid. Il 20,7% degli italiani ritiene che la gestione
dell’emergenza da parte delle istituzioni abbia prodotto buoni risultati, per
il 56,3% è stata abbastanza adeguata, per il 23,0% inadeguata.
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