- Giuseppe Savagnone *
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Eppure mai come in questo Natale esso appare attuale. Perché i motivi di
temere ci sono, eccome! Primo fra tutti, il dilagare di contagi della pandemia.
Sembrava di averla messo a freno con i vaccini, ma il successo di questa
strategia si è rivelato parziale (non nullo, come continuano a strepitare i
novax!) e i contagi, per quanto meno drammatici negli effetti, rispetto alla
fase precedente, sono in continua crescita, sia in Italia che nel resto del
mondo occidentale.
A esserne minacciata è l’economia, con l’ondata di disdette di viaggi e le
sue conseguenze disastrose sul settore del turismo. Ma soprattutto ad essere
seriamente compromessa è la nostra personale serenità. Le malattie ci sono
sempre state, ma quella che viviamo è una permanente emergenza, che ci tiene in
allarme. Ormai basta qualche linea di febbre, magari legata a un semplice
raffreddore o alla normale influenza stagionale, per generare inquietudine e
giustificare il ricorso alla verifica del tampone.
Si capisce la frenesia con cui si cerca, in questo Natale più che negli
altri, di sfuggire alla presa del timore moltiplicando, per quanto possibile, i
segni della festa: le strade principali riccamente addobbate e illuminate, le
vetrine traboccanti di potenziali regali, i grandi alberi di Natale eretti
nelle piazze. E ovunque una folla di persone che invadono i marciapiedi,
ansiose di captare e di vivere per quanto loro possibile questo clima gioioso.
Ma forse proprio quest’ansia rivela la fragilità degli antidoti che sono in
nostro potere. Nessuna “festa dell’inverno” (è la nuova denominazione che in
alcuni Paesi ormai è stata sostituita a quella tradizionale), nessun rito di
massa – ma neppure l’ormai abituale interpretazione del Natale, che fa
prevalere gli acquisti e i cenoni sul significato religioso originario,
facendone «una festa senza il festeggiato» – , può esorcizzare la paura della
malattia, della morte, o almeno della rovina economica.
Un annuncio di salvezza che non viene
dalla scienza
E in effetti quando l’angelo chiede ai pastori – e chiede anche noi – di
non temere, non giustifica il suo invito con motivazioni di ordine
puramente materiale. «Vi annuncio» – egli dice ai pastori – «una grande
gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato
per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno:
troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia».
Avevamo bisogno di salvezza? Forse non ce ne eravamo mai accorti. Le
paure ci sono sempre state, ma era possibile metterle tra parentesi in un
periodo di festa come quello natalizio. Per questo così a lungo, negli
ultimi anni, abbiamo potuto senza problemi eliminare il presepe, con il
riferimento a un Salvatore adagiato in una mangiatoia, e sostituirlo con
l’albero carico di doni portati da Babbo Natale. Ora la pandemia ci
insegue anche dentro questo recinto un tempo sicuro e ci mette davanti
alla nostra fragilità.
«Non temete», dice l’angelo. Ma in nome di che cosa dovremmo
sentirci rassicurati? In nome della scienza? Mai come in questo periodo
abbiamo toccato con mano la sua umana incapacità di “salvare” in modo
pieno e sicuro. Questo non significa certo, come pretendono i suoi odierni
contestatori, che essa non serva a nulla.
Non è vero che gli scienziati sono in totale disaccordo tra di loro e
cercano soprattutto la visibilità mediatica. Al contrario, è
facile constatare come, nelle varie fasi di questa vicenda, al di là di
divergenze secondarie, vi sia stata una sostanziale convergenza della
stragrande maggioranza della comunità scientifica su alcune conclusioni
provvisorie, le uniche possibili di fronte a un fenomeno nuovo e
sconosciuto.
È questo il punto: la scienza medica è un sapere umano, soggetto dunque a
un continuo, fisiologico progresso, e a tutte le conseguenti
incertezze, nell’individuare le cause dei problemi e i rimedi ad essi.
Propriamente parlando, anzi, a proposito della medicina, sarebbe più
appropriato parlare di un’arte, nel senso antico per cui questo termine
designava le tecniche. Accusarla di non essere una conoscenza perfetta,
esente dai rischi e dalle revisioni che caratterizzano ogni umana ricerca,
significa non capire che proprio attraverso questo percorso accidentato si
possono ottenere grandi risultati, come sempre è avvenuto nel campo della
medicina (si pensi ai vaccini contro il vaiolo, la poliomielite, etc.).
Dobbiamo essere grati alla scienza di avere approntato in tempi così brevi
dei rimedi – finora i vaccini, ma ora sembra anche un farmaco curativo –
in grado di allentare, se non la rapidità dei contagi, almeno la mortalità
della pandemia. Ma non è sufficiente a “salvarci” dalla paura.
Qualcosa più terribile della pandemia
Resta attuale, più che mai, allora, ma al tempo stesso incomprensibile,
l’invito dell’angelo in questo Natale: «Non temete». Come facciamo a non
temere? Anche al tempo della nascita di Gesù c’erano molti motivi per cui
gli esseri umani avevano ragione di aver paura. Proprio nel contesto
natalizio il vangelo ci racconta di un episodio spaventoso, la strage
degli innocenti, determinato dall’arbitrio di un piccolo tiranno locale
geloso del suo potere.
Ma l’invito dell’angelo non è una polizza di assicurazione contro le
disgrazie. Da questo punto di vista si potrebbe obiettare che non ci aiuta
affatto di fronte ai pericoli concreti, di ordine sanitario e economico,
insiti nella situazione che stiamo vivendo. Perché non è da questi che
Gesù, secondo i vangeli, è venuto a salvarci.
Il fatto è che vi è qualcosa di più terribile della malattia e del
disastro economico, che minaccia le nostre vite, qualcosa che in questi
giorni si manifesta con maggiore evidenza e drammaticità, ed è la chiusura
che ci impedisce di vedere, al di là della nostra fragilità, il senso dei
nostri rapporti umani, delle stesse difficoltà, della nostra esistenza. La
paura da cui l’angelo ci invita a liberarci non è quella, umanissima e
fisiologica, di fronte alla sofferenza e alla morte, ma la cecità che ci
rende incapaci di situarle nella nostra storia, dando loro un significato.
Secondo il vangelo Gesù è venuto a salvarci da questa fuga da noi stessi e
da questa solitudine, aprendoci alla prospettiva di una vita diversa, più
pienamente umana. Si può credere o no a un simile, inaudito messaggio, ma
è questo che significa il Natale. In una società post-cristiana è facile
ignorare tutto ciò, o relegarlo nel regno delle fate. Ma questo rifiuto
della possibile soluzione non elimina il bisogno di salvezza da cui essa è
scaturita. E il virus è qui a ricordarcelo.
Possiamo sfuggire a questa consapevolezza stordendoci con una
frenetica allegria, che però non riuscirà ad eliminare un segreto risvolto
di tristezza. Ben altra cosa – perché più silenziosa, ma anche più fondata
– è la «gioia» di cui parla il messaggero celeste.
Possiamo ancora credere che, in mezzo alle traversie di questo momento,
una simile gioia possa essere la nostra? Che duemila anni fa sia nato tra
noi un Salvatore a cui ancora oggi guardare, per dare un senso perfino ai
nostri problemi legati alla pandemia? La sfida del Natale è tutta
qui. Riguarda la fede. Forse è per questo che è nel pieno di una notte
silenziosa che Gesù nasce e che l’angelo si presenta ai pastori.
Niente luminarie, niente rumorose “certezze”. Per giungere alla stalla di
Bethlem si deve seguire, come hanno fatto i magi, la debole luce di una
stella sperduta nel cielo notturno. Ma se qualcuno ci riesce, può darsi
che il suo cuore si senta finalmente libero dalla paura.
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