Francesca Albanese, Quando il mondo dorme
Durante
la persecuzione degli ebrei da parte del nazismo, le immagini più crude
dell’orrore sono arrivate agli occhi del mondo solo al momento della
liberazione dei campi di concentramento. Oggi, nel contesto delle guerre
attuali, come nel genocidio di Gaza, la narrazione visiva è profondamente
cambiata: sono le stesse vittime a diffondere video e notizie in tempo reale,
portando la realtà della sofferenza direttamente nelle case di miliardi di
persone.
Eppure,
malgrado la mole infinita di immagini e testimonianze, persiste uno zoccolo
duro di indifferenza. Apparentemente sembra inspiegabile questa reazione, però
trova spiegazioni profonde nel campo della psicologia. La mente, esposta in
modo continuo e intensivo a immagini traumatiche, finisce per mettersi in una
sorta di “modalità protettiva”, riducendo la sensibilità emotiva attraverso un
processo noto come compassion fatigue. È un meccanismo di autodifesa, che
protegge il nostro equilibrio psicologico, ma anestetizza l’empatia e spegne
l’urgenza morale insieme alla spinta a reagire.
La compassion
fatigue (Joinson, 1992; Figley, 1995), o fatica da compassione, è una
condizione psicologica tipica di chi, come operatori sanitari, psicoterapeuti,
assistenti sociali o altri professionisti dell’aiuto, si espone in modo
continuativo e prolungato alla sofferenza altrui. Questo stato si manifesta
come un esaurimento fisico, emotivo e mentale causato dalla tensione empatica
legata all’assistenza a persone in grave difficoltà o in condizioni
traumatiche, si riduce la capacità di provare compassione e arrivano sintomi
emotivi come ansia, depressione, rabbia, senso di colpa e apatia. Ma tutto ciò
non accade solo a chi direttamente opera in ambiti di tragedia: anche chi
assiste ripetutamente o è esposto a immagini e racconti traumatici ne è
colpito. A livello cognitivo ci sarà confusione, perdita di concentrazione e
senso di vuoto, mentre a livello fisico ci sarà affaticamento, dolori,
tachicardia o problemi gastrointestinali. A livello sociale vedremo tendenza a
ritirarsi, intolleranza o indifferenza.
Così,
mentre il mondo assiste in tempo reale a scene di devastazione, diventa muto
davanti a una sofferenza troppo grande per essere elaborata e si distacca
emotivamente davanti a ciò che dovrebbe invece scuotere le coscienze. I bambini
di Gaza, uccisi brutalmente in quantità indescrivibili, amputati, affamati,
assetati, orfani di tutto, sono il confine ultimo della nostra umanità. La
sfida è urgente: come realizzare modalità nuove e consapevoli per riconnetterci
con l’umanità reale che soffre dietro ogni immagine, per superare
l’indifferenza e trasformare le testimonianze di dolore in impegno e
solidarietà reali?
IL
SILENZIO DELLE NOSTRE MENTI DAVANTI ALLA VIOLENZA
Ogni
giorno i nostri occhi si posano su immagini che raccontano l’orrore: guerre,
aggressioni, crudeltà senza fine. All’inizio lo sguardo sostiene un peso
insopportabile, un nodo alla gola che ci spinge a reagire, a indignarci. Ma col
tempo quella stessa esposizione ripetuta diventa un rumore di fondo, un’eco
lontana che la mente impara a ignorare. È così che nasce la
desensibilizzazione: un lento spegnersi delle emozioni, un’assuefazione che
riduce il dolore, ma anche la nostra umanità. Il cervello sottrae emozione per
sopravvivere.
In
condizioni di stress entra in gioco l’amigdala, la parte più antica e istintiva del nostro
cervello, che regola la paura e la risposta allo stress. Quando siamo di fronte
a immagini violente, l’amigdala si attiva, generando una scarica emotiva
intensa. Ma se questa attivazione diventa continua, il cervello sviluppa una
sorta di difesa: la risposta emotiva si attenua, come per proteggersi da un
sovraccarico di dolore inutile e paralizzante (Wikipedia, 2024).
L’iperstimolazione può compromettere le aree prefrontali, responsabili del
controllo razionale e della regolazione dell’empatia, mentre si perde la
capacità di sentire il dolore dell’altro e la compassione svanisce (Chinello,
2025).
Le
conseguenze umane e sociali di una mente assuefatta sono devastanti. Se da un
lato questo meccanismo ci protegge, dall’altro ci allontana dal sentire
autentico e dalla solidarietà. La violenza, nell’esperienza diretta o
mediatica, perde la sua carica di urgenza emotiva, e il nostro sguardo diventa
più freddo e distaccato. L’abitudine al dolore altrui può trasformarsi in
indifferenza, abbassando quella soglia che ci fa agire per la giustizia e la
cura.
ZIMBARDO:
LA VIOLENZA DELLA SITUAZIONE
Uno
degli studi più emblematici per comprendere come la mente possa adattarsi a
scenari di violenza e sopraffazione è l’esperimento della prigione di Stanford, condotto da Philip Zimbardo nel 1971. Qui emerge con chiarezza
quanto il contesto sociale e i ruoli imposti possano guidare comportamenti
crudeli, persino in individui ordinari e psicologicamente sani.
I
partecipanti, divisi in “guardie” e “prigionieri”, subirono una rapida
trasformazione: le guardie, investite di potere, iniziarono a esercitare forme
di violenza psicologica e fisica, mentre i prigionieri caddero in uno stato di
passività e sottomissione. Entra in campo un processo di deindividuazione:
l’identità personale si dissolve all’interno del gruppo, il senso di
responsabilità individuale diminuisce e si abbassano le difese morali
(Zimbardo, 2007).
In
questo contesto, la deumanizzazione delle vittime e la loro colpevolizzazione
giustificano l’abuso, attenuando il senso di colpa di chi esercita il potere.
Dall’altra parte, il senso di impotenza vissuto dalle vittime genera difese
psicologiche come la dissociazione e l’assuefazione, la desensibilizzazione
necessaria a sopportare il dolore (Campanale, 2023).
LA
MENTE SI PROTEGGE DAL DOLORE
Il
senso di impotenza nasce quando ci troviamo di fronte a situazioni che ci
appaiono incontrollabili, dove ogni tentativo di cambiare o influenzare gli
eventi sembra inutile e vano. Se abbiamo accumulato esperienze di insuccesso o
di sopraffazione, avremo interiorizzato un’idea profonda di incapacità
personale, l’“impotenza appresa” (Seligman, 1975). Arriva un pesante
senso di rassegnazione, una sorta di rinuncia passiva che protegge la mente
dall’angoscia di sentirsi totalmente esposti e vulnerabili. Sul piano
comportamentale, ci sarà evitamento, inibizione dell’azione e abbassamento
della motivazione.
Per
sopravvivere al dolore, la psiche mette in atto una serie di meccanismi di difesa che, in modo automatico e
inconscio, contengono l’angoscia e preservano l’equilibrio interno: la
negazione, cioè il rifiuto di riconoscere la realtà dolorosa, consente di
distanziarsi temporaneamente da ciò che sembra insopportabile; la rimozione, con
l’occultamento di ricordi o emozioni traumatiche nella parte inconscia della
mente; la proiezione, per cui si attribuiscono ad altri sentimenti o impulsi
propri difficili da accettare (Agostini, 2019).
In
origine sono forme di adattamento sane, ci aiutano a sopravvivere in condizioni
estreme, ma diventano disfunzionali quando si radicano profondamente, perché
impediscono che il trauma venga elaborato e quindi bloccano la riconnessione
emotiva con sé e con gli altri.
Il
dolore nascosto deve trovare espressione per poter farci riscoprire la nostra
umanità ferita, e trasformarsi in strumento di resilienza e crescita. È
essenziale una consapevolezza collettiva rispetto a questi meccanismi, per non
ridurre la violenza a un fatto ordinario e lontano.
PER
NON VOLTARCI DALL’ALTRA PARTE
È
urgente promuovere a livello sociale e di comunità una maggiore sensibilità
verso le tragedie del mondo e superare la desensibilizzazione, è necessario
mettere in campo strategie integrate che coinvolgano educazione, cultura,
media. Educazione fin dalla prima infanzia: introdurre programmi scolastici che
insegnino empatia, rispetto, consapevolezza del dolore altrui e cultura della
non violenza, in modo da preparare le nuove generazioni a gestire con
responsabilità il confronto con la violenza e l’ingiustizia. Coinvolgimento
responsabile dei media e sensibilizzazione pubblica: i media devono adottare un
approccio etico nella rappresentazione delle violenze, evitando
spettacolarizzazioni e sensazionalismi, e integrare i contenuti con dati
scientifici e analisi sociologiche, perché la narrazione sia anche strumento di
conoscenza e prevenzione. I media stessi possono modellare comportamenti
positivi con campagne di storytelling, mostrare esempi di solidarietà,
interventi efficaci e trasformazioni positive per stimolare empatia e azioni
concrete, fare focus sulle persone e non solo sui fatti, raccontare storie
umane, coinvolgenti e autentiche di vittime, sopravvissuti e attivisti,
mettendo in luce le emozioni, i vissuti e i cambiamenti personali, anziché
limitarsi a dettagli cruenti o fredde statistiche.
Insieme al racconto della tragedia, è necessaria una chiamata all’azione chiara e concreta: ogni storia o testo o video dovrebbe invitare a iniziative che coinvolgano il pubblico nel creare contenuti positivi e condividere messaggi di solidarietà, supportare la costruzione di una comunità attiva e consapevole, e invitare a compiere un gesto concreto – firmare una petizione, partecipare a un evento, sostenere un’associazione – trasformando l’empatia in impegno attivo.
Non più volti spenti e braccia conserte, ma cuori sensibili e menti lucide,
esseri umani pronti a impegnarsi per fermare l’orrore.
Riferimenti
bibliografici
Agostini M. (2019),
Meccanismi di difesa: cosa sono e come li utilizziamo, https://www.guidapsicologi.it/articoli/meccanismi-di-difesa-cosa-sono-e-come-li-utilizziamo (consultato
il 15 settembre 2025)
Campanale G. (2023),
L’Effetto Lucifero e la labilità della dicotomia Bene-Male, https://www.stateofmind.it/2023/01/effetto-lucifero-esperimento/ (consultato
il 15 settembre 2025)
Chinello V. (2025), I
rischi psicologici della continua esposizione delle scene di violenza sui
social, https://vivianachinellopsicologa.com/2025/09/06/i-rischi-psicologici-della-continua-esposizione-delle-scene-di-violenza-sui-social/ (consultato
il 15 settembre 2025)
Figley C.R. (Ed.) (1995), Compassion fatigue: Coping with
secondary traumatic stress disorder in those who treat the traumatized,
Brunner/Mazel.
Joinson C. (1992), Coping with compassion fatigue, Nursing,
22, 4, pp. 116-120.
Seligman M.E.P. (1975), Helplessness: On Depression,
Development, and Death, W. H. Freeman, San Francisco.
Wikipedia (2024),
Desensibilizzazione (psicologia), https://it.wikipedia.org/wiki/Desensibilizzazione_(psicologia) (consultato
il 15 settembre 2025)
Zimbardo P. (2007), L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina Editore, Milano.
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