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sabato 19 luglio 2025

GENERE E IDEOLOGIA


 Lucia Vantini, docente di teologia fondamentale e di antropologia filosofica all'Istituto di scienze religiose e di Studio teologico San Zeno ed è stata Presidente del Coordinamento Teologhe Italiane. La sua attività si muove all’incrocio tra filosofia della religione, teologia contemporanea e neuroscienze, con un focus particolare sul pensiero femminista, la differenza sessuale e di genere.

 

Anzitutto le chiediamo di aiutarci ad orientarci in una terminologia per i più non nota o almeno non chiara. Si parla di teologia gender e teologia Queer? Ci può dire in modo se possibile semplice cosa si intende e che differenze principali ci sono tra queste due teologie? 

In realtà le spiegazioni di queste categorie sono ormai ovunque e pienamente accessibili. Le persone che ancora non hanno le idee chiare probabilmente hanno delle resistenze o delle paure che impediscono loro di avvicinarsi a questi temi. In ogni caso, se repetita iuvant, ricordiamo che le teologie di genere nascono dal riconoscimento che la nostra corporeità è sessuata e che ciò influenza pensieri, parole e interpretazioni sociali e politiche in modo non sempre giusto. Anzi, spesso si tratta non solo di stereotipi ma di vere e proprie violenze simboliche e pratiche che tradiscono le vite concrete. La categoria di "genere" ci aiuta ad accorgercene e a decostruire tutto questo. 

La teoria queer si connette alle prospettive di genere ma è più radicale, perché assume una categoria insultante facendola diventare una vera e propria epistemologia trasformativa: “queer”, infatti, era originariamente un insulto contro le minoranze sessuali. Riappropriandosi del termine, le teorie queer mirano a scardinare completamente le categorie identitarie fisse, creando spazi di libertà per chi non si conforma ai binari previsti. Se il gender distingue tra sesso biologico e ruoli sociali, il queer va oltre, mostrando che esiste sempre uno spazio terzo inassumibile dai binomi tradizionali e arriva fino a proporre un’identità instabile e fluida. 

 Lei pone come premessa per un discorso corretto la distinzione tra "gender" e "ideologia del gender", che è spesso usata in modo peggiorativo per denigrare e respingere a priori qualsiasi riflessione sulle questioni di genere. In positivo invece cosa può portare la riflessione sul concetto di "genere"? 

"Ideologia" indica situazioni che tradiscono la complessità del reale, come ha spiegato papa Francesco: «la realtà è più importante dell'idea». Esiste un’ideologia gender? No, se ci riferiamo a coloro che usano questa categoria in chiave decostruttiva, come spiegato prima: si tratta di non dare per scontato che cosa sia “maschile” o “femminile”. Questo non è ideologia, è intelligenza. 

Per esempio, sappiamo bene che tenere dentro di sé un’altra vita riguarda solo le donne, ma non possiamo da questo dedurre che la cura della vita sia solo femminile. Il dramma di questo sbaglio è sotto gli occhi di chiunque: un mondo violento ed egoista che non si assume mai la responsabilità del dolore inflitto ai popoli, alle vite considerate sacrificabili e alla natura. In positivo, la riflessione sul concetto di “genere” permette di vigilare contro linguaggi escludenti, di impedire determinismi biologici, di riconoscere che le parole non solo descrivono ma creano realtà, e di aprire spazi di inclusività e di giustizia per chi non si conforma agli stereotipi dominanti e per coloro che vivono nella debolezza del mancato riconoscimento. 

 Entrando un po' più nello specifico, quali sono i tratti salienti della teologia di genere e quali vantaggi può apportare al pensiero teologico nel suo insieme? 

La teologia di genere presenta una funzione critico-decostruttiva che smantella stereotipi irrigiditi nel discorso religioso, un'attenzione alla performatività del linguaggio (le parole creano realtà), un'ermeneutica situata che riconosce la parzialità di ogni sguardo, e una valorizzazione dell'esperienza quotidiana come soggetto di riflessione. I vantaggi per la teologia sono significativi: un volto di Dio non patriarcale e una maschilità non sacralizzata, maggiore inclusività ecclesiologica, visione antropologica complessa e arricchita, e connessione tra riflessione teologica e urgenze di giustizia del presente. Questo approccio non relativizza la verità, ma la pluralizza riconoscendo che ogni discorso emerge da una posizione incarnata che chiede discernimento e condivisione. 

 Una delle obiezioni più radicali al concetto di gender e più incompatibile con l'attuale dottrina del magistero, è che darebbe adito ad una autodeterminazione della propria sessualità. In pratica il compito dell'umano non sarebbe quello di ri-conoscere ciò che si è (un dato precostituito) ma piuttosto di deciderlo (in modo creativo) da sé stessi. Lo dico in modo ancora più netto: da creature diverremmo creatori? 

La critica muove da un fraintendimento. Non si tratta di plasmare il proprio corpo secondo una coscienza capricciosa o attraverso una volontà superba e arrogante. Basta entrare in contatto con storie concrete, per capire che si tratta di percorsi molto più complessi. In ogni caso, non si tratta di autodeterminazione assoluta ma di riconoscere che non abbiamo mai una relazione immediata con la corporeità: ci appelliamo sempre a ordini discorsivi per significare l'esperienza. 

La vera questione è distinguere tra ciò che è dato e ciò che è destinale: essere biologicamente maschi o femmine non dovrebbe portare a deduzioni automatiche sul futuro psicologico ed etico di una persona. La creaturalità è destinata alla fioritura del sé, secondo modi e processi abitati dal mistero divino a cui noi cooperiamo: siamo custodi responsabili del nostro essere, non esecutori passivi di un programma predefinito e scritto chissà dove. Ciò non vuol dire che tutte le possibilità sono aperte, ma che il divenire è previsto nella creaturalità stessa, abitata dallo Spirito fin da subito. 

 

Passiamo alla teologia queer. Come riporta nei suoi testi, la prospettiva queer apporta una "preziosa forza decostruttiva degli stereotipi espliciti ed impliciti dell'ordine simbolico cristiano". Cosa c'è di prezioso in questo percorso? 

Il prezioso contributo della prospettiva queer sta nell'apertura di uno spazio terzo e indecidibile che impedisce di ridurre tutto a logiche binarie rigide. Svela la violenza dei sistemi normativi mostrando come certe categorie possano "ferire a morte" le esistenze. Apre varchi di libertà sottraendosi dalle definizioni rigide, interroga l'universalità delle norme rivelando come il "naturale" sia spesso costruzione storica. 

Nel contesto cristiano significa interrogare rappresentazioni stereotipate di santità, modelli rigidi di genere, esclusioni operate in nome della "natura". Non mira a distruggere ma a liberare la vita dalle formule stereotipate, permettendo a ogni differenza di essere riconosciuta nella sua dignità. 

 Nel concetto di queer la persona intesa come un dinamismo, come un'identità che non è fissa, che la persona è essenzialmente peregrina. Secondo lei questa immagine dell'umano è fedele a quella che ci viene dalla scrittura? 

Certamente. Questa visione è fedele alla Scrittura che ci dipinge come viandanti, sospesi tra l’origine e il compimento ci sono i nostri passi e le orme della storia. L'immagine dell'umano fatto "a immagine e somiglianza" di Dio dice proprio questo: siamo immagine di Dio, ma la somiglianza si costruisce nel tempo della libertà, che ci è donato. Noi siamo divenire. 

La Scrittura presenta costantemente l'umano in cammino: Abramo verso una destinazione sconosciuta, il popolo nel deserto, Gesù senza "dove posare il capo", i discepoli chiamati a seguire strade sempre nuove. Lo Spirito aiuta a far memoria creativa, riconoscere eredità e farle fiorire. Questa visione dinamica non nega la consistenza dell'identità ma la sottrae alla fissità: l'identità cristiana è relazionale più che sostanziale, si costruisce nell'incontro. 

 Una comprensione più piena, più completa dell'umano abilita ad una comprensione più piena del divino. Le prospettive gender e queer hanno un impatto sul modo di pensare Dio e in particolare il Dio dei cristiani? 

Sì, l'impatto è significativo. Nel nostro ordine simbolico si è sedimentata un'immagine patriarcale di Dio che rinforza ingiustizie tra i generi. Il problema non è che Dio sia Padre, ma l'uso sessista delle metafore maschili che esclude il mondo femminile. 

Le prospettive di genere contribuiscono a dinamizzare l'immagine di Dio - pensarlo come Verbo attivo piuttosto che sostantivo statico, sviluppare teologie relazionali, integrare dimensioni corporee e cosmiche. Non si tratta di femminilizzare Dio ma di liberarlo dalle gabbie patriarcali per riscoprirne la ricchezza inesauribile che abbraccia e trascende ogni differenza. Dio come mistero che eccede ogni definizione e accoglie ogni vita nella sua pienezza. 

 Perché la teologia gender e queer turba i vertici ma anche un'ampia parte della base della chiesa? 

Il turbamento nasce perché toccare l'interpretazione della differenza sessuale significa andare a toccare qualcosa di cruciale, simbolicamente inaggirabile. Il timore è segno di intelligenza, la paura invece chiude e diventa violenta verso vite che si presentano diverse da come le avevamo previste. 

Le resistenze hanno radici multiple: minaccia ai sistemi di potere consolidati, paura dell'ignoto quando le certezze vengono messe in discussione, resistenze inconsce legate all'ordine simbolico dominante. Spesso si reagisce a caricature piuttosto che ai contenuti reali. Noi non siamo Dio e non sappiamo cosa certe vite siano nello sguardo amorevole e creativo divino. La sfida è distinguere tra timore intelligente e paura paralizzante. 

 La chiesa ha sempre avuto enormi problemi con il tema del desiderio; la teologia queer può portare ad una stagione di pacificazione su questo conflitto? 

Non credo che la teologia queer da sola risolverà il problema del desiderio nella Chiesa. Ci servono sinergie multiple perché il problema è sistemico. La Chiesa ha sempre avuto difficoltà con il desiderio, riducendolo alla sfera sessuale e opponendolo alla spiritualità. Si è creata una scissione tra spirituale e corporeo, pubblico e privato. 

Il paradosso è che la Chiesa vive dei desideri del popolo ma poi li sequestra, non li restituisce arricchiti alla vita. La teologia queer può contribuire mostrando che le identità sono dinamiche, la diversità è ricchezza, l'esclusione impoverisce tutti. Serve una trasformazione verso un'etica della vulnerabilità, una spiritualità incarnata, una pastorale dell'accompagnamento che riconosca: la vita è più importante delle nostre definizioni. 

 L'intervista a Lucia Vantini è realizzata da Paolo Vavassori in collaborazione con Giorgio Gervasoni.   

 Fonte: La barca e il mare 

 

venerdì 24 febbraio 2023

IL RISCHIO DELL'IDEOLOGIA

FARE IDEOLOGIA NON AIUTA GLI STUDENTI


- di Alessandro Artini

 

Ieri mattina, dopo essermi svegliato, e aver dato un’occhiata alle cronache dei giornali on line, ho avuto la netta impressione di avere una quarantina di anni in meno. Inizialmente la cosa mi pareva piacevole, ma poi, considerato che a una certa età capita di avere dei disorientamenti, mi sono immediatamente interrogato sulle mie condizioni di salute. Subito dopo, però, ho provato tutt’altra sensazione: quella che anche il nostro Paese fosse tornato indietro. Così ho capito che non si trattava di una questione fisica o di una patologia personale. E mi sono risollevato.

Tutto nasce dalla vicenda dell’aggressione perpetrata, sabato scorso, ai danni di alcuni alunni di un collettivo studentesco del Liceo Michelangelo di Firenze, nell’area antistante all’entrata del liceo stesso, da parte di giovani del gruppo di Azione Studentesca, che erano lì presenti per effettuare un volantinaggio.

Sembra che, quando gli studenti del Collettivo del liceo hanno contestato i contenuti dei volantini, si sia scatenata immediatamente la reazione dei giovani di destra che, per la velocità di esecuzione, è parsa preordinata. Fortunatamente non vi sono stati gravi danni alle persone, ma senz’altro si è corso il rischio che le cose volgessero al peggio. Poi, da quel momento, è stato tutto un susseguirsi di dichiarazioni da parte di politici, sindacalisti, uomini delle istituzioni, ecc. Così, si è creata una bolla di commenti che è arrivata perfino in Parlamento.

Ovviamente premettiamo (non sarebbe necessario, ma non si sa mai) che ogni violenza deve essere condannata in quanto tale. Tuttavia, osserviamo che di scazzottate, perché di questo si è trattato, ce ne sono ogni giorno e, a leggere bene le cronache, nel nostro Paese accadono aggressioni ben più gravi, nel mondo dei giovani. Mi limito a citare quelle delle tifoserie calcistiche, quelle delle baby gang, quelle dei bulli nelle scuole, quelle sessuali e potrei andare avanti. Dunque, cos’ha di importante la scazzottata davanti al “Miche” di Firenze?

Ciò che emerge, dietro a quella vicenda, è che c’è l’ideologia, che, almeno all’apparenza, ha motivato il tafferuglio. Fascismo? Be’, se si parla di questo, non si può dimenticare l’aspetto deuteragonistico, che è quello del comunismo. Così sono tornato alla mia giovinezza del secolo scorso. Ma questo mondo esiste tutt’oggi?

Certamente esiste nella mente dei protagonisti della scazzottata. Si consideri, tuttavia, la cosiddetta legge di Thomas. Essa suggerisce che, se le persone definiscono come reali certe situazioni, queste saranno reali nelle loro conseguenze. Fascismo e comunismo sono anticaglie in disuso e molti giovani, probabilmente anche quelli che si sono scontrati, vivono condizioni di solitudine, di disinteresse e disadattamento scolastico (conosco la storia di qualcuno dei “picchiatori”), di incapacità relazionale con il proprio e con l’altro sesso. Giovani perlopiù infelici e rabbiosi, spavaldi rispetto alla vita, nella quale non intravedono alcuna sensatezza. Già, ma sono fascisti.

Anche gli altri, quelli dell’altra parte della barricata, spesso vivono le stesse condizioni di nichilismo. Sono accomunati ai loro antagonisti dallo stesso vuoto interiore e dalla stessa pesantezza esistenziale, riempita in maniera posticcia dalla socialità dello smartphone. Già, ma sono comunisti.

E così siamo tornati nel rutilante mondo delle ideologie dove finalmente le cose hanno un senso: quello per cui ci si divide felicemente e prodemente in fascisti e comunisti.

Ma basta tutto ciò per rendere effettiva la legge di Thomas e inverare il ritorno agli anni Settanta (e seguenti)? No, perché i giovani occupano i loro spazi sociali, che non sono quelli dei media tradizionali, tutt’oggi più diffusi. Affinché una situazione immaginata ambisca ad acquisire lo statuto di realtà, occorre che essa sia condivisa dagli adulti, i quali hanno effettivamente gli strumenti di persuasione di massa.

Ed ecco che alcuni politici appaiono poco convinti nella condanna della violenza commessa al “Miche” e dell’ideologia che l’ha indotta, affatto dissonante con una società di democrazia matura come la nostra. Altri politici, con un atteggiamento complementare, parlano di “squadrismo”. E il nostro Paese è ricaduto un secolo addietro, ai tempi della marcia su Roma, che, nella sua infausta attuazione, è stata recentemente ricordata. Ma davvero ci sono gli squadristi, quelli che distruggono le sedi dei partiti di sinistra e dei sindacati, bruciano le case dei principali esponenti antifascisti, bastonano, somministrano l’olio di ricino e commettono omicidi?

Si obietterà che ancora non è così ma potrebbe esserlo. Già, ma questa risposta è apodittica e vale in qualsiasi tempo e luogo, perché auto-evidente. Nel frattempo, cosa succederà in un mondo in cui imperversano gli squadristi? Forse molti giovani si prepareranno alla “resistenza antifascista”?

Una politica senza ideali ripropone ideologie polverose e obsolete. Di mezzo, però, ci sono i giovani.

Il Sussidiario

 

venerdì 1 luglio 2022

L'IDENTITA' PERDUTA

                                                                            

-        
di Sabrina Corsello*


Vi era un tempo in cui la ricerca della propria identità era considerata parte costitutiva ed integrante di ogni crescita umana. In particolare, era l’adolescenza a segnare il momento di crisi o di passaggio all’età adulta per ogni giovane che inevitabilmente si trovava a dover fare i conti con i modelli genitoriali, le tradizioni e i valori della propria comunità di appartenenza.

Era dunque scontato pensare che ogni percorso di conoscenza di sé dovesse passare da una prioritaria assunzione critica della propria storia e da una rivisitazione dei valori sociali di riferimento. La “legge del padre”, i modelli sociali, la cultura dominante, rappresentavano allora il punto di partenza e al tempo stesso il limite-contenimento del processo di costruzione del proprio Sé.

Per quanto ancora oggi la ricerca della propria identità sia riconosciuta come un’aspirazione di ogni essere umano, tuttavia, ciò che oggi sembra sia venuto meno è lo spazio contenitivo in cui, fino ad un passato recente, si svolgeva questa indagine. Sembra che quel carico di inquietudine esistenziale che da sempre l’ha accompagnata, oggi difficilmente trovi il proprio contenimento all’interno di uno spazio rassicurante e ben definito dall’appartenenza ad una propria comunità. Ciò che è venuto meno non è dunque l’anelito personale alla ricerca di sé, ma l’idea che possa esistere una comunità capace di fornire un modello di riferimento. Ad emergere oggi, infatti, è una concezione individualistica che nella comunità non vede altro che una mera somma di individui i quali, non a caso, appaiono sempre più sradicali, privi di appartenenze e di valori condivisi.

Resa dunque ancora più complessa e problematica, la ricerca di se stessi ha così lasciato il posto ad un’ossessiva, ma ben più rassicurante, cura della propria immagine; le relazioni sociali sono state d’altra parte rimpiazzate dalle più comode connessioni e da un compulsivo collezionismo di contatti. Il nuovo identikit è dunque quello di un individuo che, di fatto, di comunità e di ricerca di bene comune sa ben poco.

Le leggi di un mercato globalizzato hanno spazzato via, infatti, quelli che un tempo erano valori consolidati e obiettivi esistenziali: la famiglia, la certezza del lavoro, il salario dignitoso, per lasciare spazio ai nuovi “valori” della flessibilità e competitività, dello sradicamento e precarietà. Tutti falsi miti di una società individualistica e totalizzante che è capace di subordinare tutto a quella prioritaria ricerca di profitto che sta determinando il passaggio dall’ homo politicus, comunitario e socievole per definizione, all’homo migrans, destinato a circolare come merce, sradicato, senza modelli di riferimento e fuori dal contenimento protettivo di una propria comunità.

Non c’è dunque da stupirsi se smarrimento, inquietudine e senso di inadeguatezza siano i sentimenti dominanti nelle nuove generazioni, troppo spesso giudicate irresponsabili e disimpegnate, ma raramente ascoltate e comprese nella loro oggettiva, oltre che soggettiva, difficoltà di vivere il proprio travaglio esistenziale senza veri punti di riferimento e avendo dinanzi un futuro che ogni giorno appare sempre più incerto. Non possiamo infatti non considerare che il difficile percorso di autoconsapevolezza oggi è stata reso ancor più complesso da un vero e proprio progetto culturale che mira scientemente a dissolvere ogni forma di identità, percepita come presunta minaccia alla libertà individuale di autodefinirsi e fonte di pericolosi contrapposizioni e conflitti. Se dunque, appena ieri, sarebbe stato impossibile prescindere dal riconoscimento delle appartenenze alla propria famiglia, alla propria Nazione, a un determinato credo religioso, oggi ci si sta spingendo persino verso la rimozione della stessa possibilità di definirsi a partire dal proprio sesso di nascita.

L’ideologia gender, infatti, sta provando a dissolvere la coscienza di genere, trasformando il dato biologico del sesso di nascita in mero fatto culturale che, in nome di una presunta libertà assoluta, deve anch’esso potersi considerare frutto di una scelta esclusivamente individuale. Il genere sessuale non sarebbe più dunque da considerare un dato biologico, cromosomico, perché il nuovo must impone che maschi o femmine non si nasce, ma si diventa. Dal gender si passa così dal cisgender o al transgender, a seconda che ci si riconosca o meno nell’identità di genere attribuita alla nascita, o al queer di chi addirittura rifiuta di dare un nome alla propria identità di genere o al proprio orientamento sessuale. Tutto appare lecito in uno spazio sempre più dominato da un artificio, che ogni giorno di più si manifesta come soppressione e superamento di tutto ciò che è natura.

A ben vedere, ciò che viene messo in discussione è la stessa possibilità di pensare l’esistenza di modelli in una società in cui l’unico paradigma è quello libertario, che non ammette definizione di identità a partire da appartenenze date. L’identità fluida diviene allora l’unica forma di identità possibile in una società che non a caso sceglie di definirsi liquida e che alla comunità di appartenenza preferisce quel melting pot che promuove la commistione di individui di origini, religioni e culture diverse, con la pretesa di voler costruire un’identità universalmente condivisa.

Alla base di questa ideologia vi è la convinzione che non ha senso parlare di anagrafe, di biologia, di cittadinanza, poiché ogni essere umano deve essere lasciato libero di andare a vivere dove ritiene, senza limitazioni e senza essere considerato un clandestino, perché l’unica definizione possibile è quella di essere cittadini del mondo e abitanti della Terra. Non sappiamo se tale progetto diverrà realtà o sia destinato a rimanere mera utopia. Intanto quel che è certo è che questo uomo migrante è tutto fuorché felice di essere costretto a lasciare i confini della propria terra, di dover rinunziare ai propri affetti per vagare in un mondo che è ben distante dall’utopia di pace promessa a chi crede nel one world no borders.

Di fatto ciò cui stiamo assistendo è il profilarsi di un homo vacuus, un uomo vuoto, svuotato di ogni identità ma al tempo stesso potenzialmente capace di assumerle tutte. C’è da chiedersi il perché di questo attacco frontale all’identità. Tra le possibili cause certamente quella del grande equivoco di un’egemonia culturale che ha confuso identità e identitarismo, nazione e nazionalismo, sesso e sessismo. In pratica è come se si fosse deciso di demolire qualcosa di significativo, solo in quanto avrebbe in nuce le potenzialità della sua stessa degenerazione.

C’è inoltre da considerare che la ratio apparente di tale demolizione risiede in un’idea astratta di uguaglianza che sarebbe preclusa e minacciata proprio dalla definizione di identità e di appartenenze precostituite. Paradossalmente, infatti, sarebbe proprio l’esigenza di garantire tolleranza e rispetto a giustificare l’affermazione di uguaglianza intesa come indifferenziazione.

In altre parole, il ragionamento sarebbe questo: se vogliamo essere uguali, dobbiamo rimuovere tutte le differenze che fanno sì che si sia diversi ossia, appunto, le diverse identità. Ma è proprio così? Davvero occorre sopprimere le identità per garantire uguaglianza? Se ci pensiamo bene, realizzare uguaglianza non vuol dire sopprime le differenze, ma far sì che, nonostante le differenze, si abbia tutti pari dignità. Così, ad esempio, non occorre demolire la differenza fra maschio e femmina, negarne le differenze biologiche, perché questi possano ritenersi uguali, ma occorre piuttosto lavorare per una società che sappia dare eguale riconoscimento ed eguale dignità all’uomo e alla donna, pur rispettandone le diverse identità.

 

* Laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Palermo, ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Filosofia politica, presso l’Università degli studi di Pisa. Ha conseguito inoltre il titolo di Mediatrice familiare e comunitaria, presso l’Università Cattolica di Milano.

 

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sabato 16 ottobre 2021

GREEN PASS SI O NO? LE RAGIONI DI UN DISSENSO


 La pandemia e la trasformazione

 dei termini dello scontro politico

 

-          di Giuseppe Savagnone*

-           

Le proteste di questi giorni contro l’obbligatorietà del green pass – tra esplosioni di violenza urbana e forme pacifiche di contestazione – evidenziano una reale spaccatura del Paese. A fronte di una maggioranza silenziosa che sembra appoggiare le misure del governo, c’è una parte consistente della popolazione che, in modo assai più rumoroso, manifesta il proprio dissenso.

La pandemia, se da un lato ha sicuramente contribuito a svuotare il dibattito politico dei suoi temi tradizionali – portando all’estremo quell’indebolimento delle ideologie dei partiti già in atto da molto tempo, ma mai così evidente come nella stagione del governo Draghi –, dall’altro ha fatto nascere nuove motivazioni per lo scontro tra “destra” e “sinistra”. Al conflitto sulle questioni riguardanti la giustizia sociale, da tempo in secondo piano – ma anche a quello sull’accoglienza o meno dei migranti, ancora attuale fino a due anni fa –, è ormai subentrata la battaglia sulla gestione della pandemia, sui vaccini e, ultimamente, sul green pass.

Fa riflettere il fatto che, su un terreno diverso e con “maschere di scena” diverse, a fronteggiarsi siano sempre gli stessi partiti antagonisti, da una parte la Lega e i Fratelli d’Italia, dall’altro il Pd e, ormai, i 5stelle. È un caso? Sembra difficile ipotizzarlo. Quello che colpisce è però il fatto che essi portano nella loro nuova contesa il peso delle rispettive contraddizioni di sempre. Contraddizioni che non riguardano le loro singole scelte, ma nascono da una impostazione culturale profonda che le ispira e che si manifesta ampiamente nelle ragioni dei loro rispettivi sostenitori sui social o, come negli ultimi giorni, nelle manifestazioni di piazza.

Le contraddizioni della “destra”…

Così, per quanto riguarda gli oppositori del green pass, si accusa questa misura di creare degli emarginati, di dividere il Paese in cittadini di serie A e di serie B, a dispetto dell’uguaglianza di tutti sancita dalla nostra Costituzione.

Addirittura si paragona l’obbligo di averlo e di esibirlo a quello di portare la stella di Davide, imposto agli ebrei dal regime fascista nel 1941, come segno di discriminazione.

Il discorso critico in alcuni casi è ancora più radicale: il green pass viene visto come uno strumento per controllare e condizionare in modo sistematico la libertà degli italiani. Sarebbe in atto un tentativo di svuotare il senso della nostra democrazia, lasciandone intatto l’involucro, ma avviando processi liberticidi che tendono a imporre una forma più sottile di totalitarismo.

Stupisce un po’ che a sostenere simili argomenti siano forze politiche, come la Lega e Fratelli d’Italia, che alle disuguaglianze sociali non sono mai state particolarmente attente. Perché non è certo il green pass che sta introducendo per la prima volta delle discriminazioni tra i cittadini italiani. Basta guardare alle spaventose differenze di reddito e, più in generale, di ricchezza, che, nel nostro Paese, dividono drammaticamente la popolazione in una maggioranza di disagiati o addirittura di poveri, e in una minoranza di ricchi.

Secondo i dati forniti dal «Sole24ore», il 20% degli italiani detiene quasi il 70% della ricchezza nazionale, un altro 20% nel possiede il 16,9%, mentre il 60% più povero possedeva appena il 13,3% della ricchezza del paese.

È il risultato ovvio di una politica che ha messo sistematicamente in secondo piano, al di là della retorica d’obbligo, il problema della giustizia sociale, lasciando che i ricchi diventassero sempre più ricchi, che il ceto medio si impoverisse e che i poveri diventassero sempre più poveri.

È significativo che ormai da decenni si agiti lo spettro delle tasse come un inaccettabile «mettere le mani nelle tasche degli italiani» (Berlusconi), dimenticando che la redistribuzione fiscale si basa sul fatto che il successo economico dei singoli non è solo frutto della loro bravura o della loro fortuna, ma del lavoro di un’intera società, senza cui gli individui non sarebbero in grado neppure di studiare e di trovare un lavoro. Perfino la tassa sulle successioni è, in Italia, la più bassa a livello europeo, con aliquote che oscillano tra il 4 e l’8%, mentre in Germania oscilla tra il 7% e il 50%, in Spagna tra il 34% e l’86%, in Francia tra 5% al 60%, in Gran Bretagna è del 40%. Denaro che dovrebbe essere investito per redistribuire la ricchezza e aiutare le categorie di cittadini meno abbienti.

Colpisce che gli stessi partiti che, per usare l’espressione del responsabile economico della Lega, Alberto Bagnai, «alzano barricate» contro ogni proposta volta a ridurre questa e altre discriminazioni economico-sociali, si levino a protestare vigorosamente per quella costituita, a loro dire, dal green pass.

Quanto al paragone con la persecuzione nei confronti degli ebrei e all’analogia tra il green pass e la stella di Davide, francamente ci si stupisce che delle persone sicuramente intelligenti lo abbiano fatto. Perché qui non si tratta di discriminare nessuno in base alla sua identità – sia essa quella razziale o di genere, o altro – ma di prendere atto di scelte che dipendono dalla sua volontà e che si ritiene incidano sulla comunità. Si può discutere sulla validità dei criteri con cui queste scelte vengono valutate, ma siamo lontanissimi dalla logica del razzismo o di qualunque altra distinzione fatta in base al modo di essere delle persone. Qui si valutano le loro azioni, come sempre fanno la legge e le istituzioni, distinguendo quelle conformi al bene comune e quelle contrarie ad esso.

…e quelle della “sinistra”

Ma anche la “sinistra”, nella sua battaglia per la difesa del bene comune, non sembra brillare per coerenza. Da molti anni, ormai, essa ha abbandonato i grandi temi della giustizia sociale per concentrarsi ossessivamente sui diritti individuali e sulla necessità che la legge privilegi, rispetto a criteri universali (e perciò anche sempre discutibili) di ordine etico, la libera scelta di singoli.

Paradossalmente, è la cultura individualista e libertaria promossa dalla “sinistra” che oggi viene utilizzata dalla “destra”. In fondo, proprio Fratelli d’Italia, un partito che ha tra i suoi sostenitori anche nostalgici del fascismo, sarebbe di per sé il meno adatto a difendere le libertà individuali contro il volere dello Stato… È proprio il modello tardo-liberale della nostra “sinistra”, che mette in esclusivo rilevo i diritti degli individui e in secondo piano i doveri verso la comunità, a dare forza, nell’opinione pubblica, agli argomenti di chi dice “il corpo è mio e ne faccio quello che voglio” (lo slogan scandito in passato nelle manifestazioni a favore della legge sull’aborto e oggi ripreso, esplicitamente o meno, da chi rifiuta di vaccinarsi).

Questa ideologia è l’unica sopravvissuta alla crisi che ha portato a dichiararle tutte “morte”, perché è riuscita a camuffarsi da semplice constatazione della realtà (il massimo successo concepibile per una ideologia!). Essa ci ha disabituato a concepire la comunità civile come una cooperazione di tutti in vista di un bene comune, sotto la guida di un’autorità – quella dello Stato – che non è soltanto garante del corretto svolgimento del gioco (questo lo fanno pure le guardie di “Squid game”), ma custode di valori etici, e che in nome di essi può chiedere ai cittadini, anche quando non sono d’accordo, di obbedire alle sue scelte, sempre che siano prese, come in questo caso, nel rispetto delle regole della democrazia parlamentare.

Se invece ognuno è proprietario del suo corpo e non deve rispondere a nessuno delle scelte che lo riguardano, diventa difficile sostenere che non è così solo quando si tratta dei vaccini e del green pass.

Non sappiamo come finirà questo acceso dibattito. Sarebbe bello che esso fosse l’occasione per i suoi protagonisti – non solo per i partiti, ma per tutti i cittadini, per la gente comune – di interrogarsi, una volta tanto sulle proprie premesse ideali. Purtroppo, la crisi delle ideologie (o il loro mascheramento) ha segnato anche quella delle idee. Lo scenario politico ne è una prova evidente. E se la battaglia sul green pass ci spingesse, una volta tanto, a riflettere seriamente su ciò che spesso crediamo vero per abitudine?

 

*Pastorale Cultura Diocesi Palermo

 

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