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sabato 10 agosto 2024

UNA LUCE NEL BUIO

 La Pontificia accademia per la vita apre una crepa sull'eutanasia - La  Verità 


C’è un grande

 bisogno 

di chiarezza 

e dialogo

 sul fine vita

 

- -di Giuseppe Anzani

 

Dialoghi di vita e di morte, a che punto è la notte? Chissà se abbiamo finito di decifrare la sentenza della Corte costituzionale n. 135 del mese scorso, e capire ciò che ha ribadito sulla inviolabile tutela della vita e quanto ha slargato i pertugi dell’assistenza al suicidio. Ma attenzione: il giudizio della Consulta non è il Codice del fine vita. Esso si innesta in modo “incidentale” in un processo penale dove l’aiuto al suicidio è l’imputazione. Quel delitto rimane delitto, e solo in casi speciali non viene punito. Il Parlamento è invitato a far legge (senza troppa voglia, col solito rischio di supplenze giudiziarie). Ma un conto è il “nuovo” art. 580, un altro conto è la questione di fondo sulla morte volontaria, che alcuni propongono come diritto individuale. Qui irrompono gli orizzonti etici e giuridici.

 La vita è per ogni essere umano il dono d’una identità ricevuta. Così unica, così grande per ogni piccolo uomo, nell’immenso universo. Fragile e preziosa, ogni vita accresce la bellezza della storia dell’Essere. Essa prende senso e restituisce senso alle altre vite in essenziale legame relazionale. Ci apparteniamo, ognuno tutti; siamo famiglia umana, siamo villaggio umano. Ci allietano i nati, ci addolorano i morti. Ci è istinto “la santa voglia di vivere”, ci è destino l’appuntamento con la morte. L’arte medica s’ingegna di rimandarla, con gli umani miracoli delle sue cure e delle sue invenzioni, ma alla fine si arrende. Ora ognuno avverte che c’è nella parola “fine” un problema di senso; la vita si perde o si compie? Si annienta o varca una soglia? E persino chi nega, o rinnega, domande così, avverte che la vita ha una sua infinita dignità in tutto il suo corso, e che un fondamentale principio etico chiede la sua protezione. Né suicidio né eutanasia sono eticamente accettabili.

 Eppure ci sono leggi nel mondo (in pochi Paesi, per il vero) che ammettono l’eutanasia e il suicidio assistito. Vi sono teoremi, anche da noi, che celebrano la morte volontaria come diritto di libertà (liberi fino all’ultimo di decidere quando e come morire), con un attivismo che cerca, e procura, le occasioni dei casi limite per far breccia nel muro delle norme di tutela della vita. Il punto di forza di questa deriva è la seduzione dell’individualismo libertario. E su qualcosa riesce a spuntarla, quando la libertà si confina in se stessa, nella sfera privata, senza apparente danno sociale. Proprio qui può accadere la divaricazione fra l’etica (ciò che è buono) e la legge che si contenta del “minimo etico” sul piano sociale (ciò che è ammesso). Proprio qui si innescano allora i dibattiti senza fine fra chi sostiene che ciò che la legge ammette è giusto e buono di suo e chi in nome dei principi etici non negoziabili rifiuta che le leggi dettino norme ammissive di condotte immorali.

 Non senza equivoci incrociati, per i differenti linguaggi. Per esempio la legge 219 del 2017 sulle Dat (le Disposizioni anticipate di trattamento). Un suo caposaldo è il consenso informato; e il corollario del possibile rifiuto d’una terapia salvavita, o di un trattamento di sostegno vitale, lasciandosi morire. La scelta del paziente (da caso a caso, se si tratti di accanimento o di terapia proporzionata) può essere eticamente giusta o sbagliata, ma dal lato giuridico è escluso che gli si infligga a forza la terapia rifiutata. Chi vede in ciò una forma di eutanasia sbaglia alfabeto.

 E proprio a una sintesi di alfabeto provvede ora il “Piccolo lessico del fine-vita” pubblicato dalla Pontificia Accademia per la Vita. L’impressione di fondo, lo spirito che lo muove, è il bisogno di chiarezza: capirsi, e per questo ascoltarsi, e parlarsi, e non andarsene via dal dialogo, che è tavolo d’attesa di mediazioni possibili, e non un ring. C’è chi ha voluto accentuare, nei commenti, le “aperture” nuove; alcuni salutandone il coraggio, altri biasimandone l’azzardo.

 Ma gli uni e gli altri con scarsa alfabetizzazione, se hanno trascurato i capisaldi operativi del documento, in tema di cura, di accompagnamento, di presenza solidale, di relazione; e con quella sollecitudine che muove dal Vangelo, e sta sullo sfondo come un pedale d’organo. È questo il succo: i trionfi della morte sono il fallimento dell’amore. L’amore cura la vita, sempre. Ma l’amore comanda anche di restare lì, di interloquire anche nella sfera terrestre, di cercare che il punto di mediazione raggiungibile nelle “leggi imperfette” sia il più rispettoso possibile dei valori etici. Anche nella notte, qualche luce.

www.avvenire.it

 PICCOLO LESSICO SUL FINE VITA

 

 

venerdì 1 marzo 2024

LA DIGNITA' DELLA FINE

 


- di Massimo Recalcati


Manca in Italia una legge sul fine vita. Non è solo un vuoto legislativo, ma soprattutto un’assenza colpevole della politica ad intraprendere una battaglia finalmente decisa e risolutiva su questo tema.

Non fu così per la legge sul divorzio né per quella sull’aborto per le quali, com’è noto, una ampia mobilitazione delle forze progressiste del nostro paese rese possibile l’acquisizione di quei diritti.

Sul tema del fine vita, invece, un silenzio increscioso. Solo le Associazioni, come quella che porta il nome di Luca Coscioni, o l’intraprendenza coraggiosa di singoli come Marco Cappato, provano in tutti i modi ad allertare il legislatore. Ma non sarebbe compito della politica, nella sua accezione più nobile, porre con forza il problema della tutela della dignità del fine vita in una agenda dei diritti che riguardi finalmente, come accadde anche per il divorzio e per l’aborto, la vita civile di un intero paese e non quello di alcune minoranze (con la precisazione ovvia che una democrazia si valuta soprattutto da come tutela i diritti delle minoranze)?

 Freud aveva affermato, di fronte allo scoppio della prima guerra mondiale, che gli esseri umani si tengono lontani dalla morte, operando una sorta di rimozione collettiva inconscia. Accade come se la dignità della vita alla sua fine dovesse restare fuori discorso, impronunciabile, senza parole possibili, senza spazio di dibattito pubblico, in un tempo maniacale, come il nostro, che vorrebbe, appunto, cancellare la morte dal suo orizzonte. Perché preoccuparsi della fine della vita, di coloro che sono caduti nell’incubo di una malattia incurabile, nello strazio della sofferenza senza speranza, nell’atrocità della mutilazione, nell’immobilità forzata, nell’umiliazione di una vita ridotta a non essere altro che una dolorosa sopravvivenza? Eppure, nella forma umana della vita, la morte non è, come diceva Heidegger, semplicemente l’ultima nota della melodia dell’esistenza, ma una “imminenza sovrastante” che ci accompagna sin dal primo respiro. Essa non è semplicemente qualcosa che attende la vita dal di fuori, ma il nostro destino più proprio. È, dunque, questo destino a renderci profondamente umani. Non dovremmo provare allora, a partire da questo comune destino, a ripensare laicamente la dimensione della fratellanza? Di fronte ad una sofferenza che non conosce possibilità di trattamento, ad una vita mantenuta viva dalle macchine della scienza, ridotta ad un respiro senza desiderio, non siamo chiamati ad un movimento collettivo di solidarietà che non significa solo assicurare le cure anche quando le possibilità terapeutiche sono esaurite, ma donare, a chi lo chiede consapevolmente, il sollievo della morte?

 All’origine dello Stato moderno, Hobbes aveva teorizzato che a fondamento della vita civile vi fosse la paura della morte, la necessità di proteggersi dalla guerra di tutti contro tutti. Se lo stato di natura è quello dell’homo homini lupus, il potere del Leviatano interviene contenendo questa spinta, arginando con la forza del diritto la violenza che spinge gli uni contro gli altri. In primo piano è qui la paura della morte che è all’origine della pulsione securitaria che istituisce la comunità umana come difesa dalla minaccia della violenza: la cessione di una quota di libertà individuale avviene in cambio della protezione della vita. Ma non dovremmo invece pensare in tutt’altro modo il nostro rapporto collettivo con la morte? Non tanto come paura dell’uno nei confronti dell’altro, ma come principio di una più profonda solidarietà umana, nel riconoscersi fratelli che condividono lo stesso destino mortale.

 Come se dovessimo sostituire il Leviatano di Hobbes con il grido di Giobbe, il quale incontra nella sua vita il dramma della caduta e della perdita, dell’ingiustizia atroce della sofferenza. Perché andrebbe ricordato che purtroppo non esiste affatto diritto alla salute, ma solo diritto alla cura.

 Nessun diritto può, infatti, garantire la vita in salute perché il male non può essere governato in modo integrale e la morte non può essere evitata. Ma proprio per questa ragione prendersi cura dovrebbe essere l’atteggiamento fondamentale dell’umano nei confronti del fratello. Siamo tutti uguali di fronte alla signoria della morte, ma esistono limiti nella sopportazione della sofferenza che non possono rispondere a criteri universali.

 Prendersi cura significa considerare questo fatto basilare: di fronte ad un dolore senza speranza e di fronte ad una vita resa disumana dalla malattia, ciascuno ha il diritto di riconoscere il limite sin dove spingere la sua capacità di resistenza, ciascuno ha diritto a riconoscere la propria resa come salvaguardia della sua dignità.

Alzogliocchiversoilcielo- Repubblica