"Il silenzio interiore
come antidoto
al culto dell’io"
-di
Marco Bevilacqua
Conversazione
con Vito Mancuso
Il
57° Rapporto sulla situazione sociale del Paese diffuso a dicembre dal Censis
interpreta i più significativi fenomeni socioeconomici in atto nel Paese.
Quella del 2023 è una fotografia per molti versi impietosa di un’Italia che
sembra invecchiata, rassegnata, piegata dalle avversità e da un clima generale
stagnante: giusto il tempo di lasciarsi alle spalle il Covid, anche se non completamente
debellato, e ora gli italiani sono angosciati dalla crisi della sanità, dai
femminicidi, da un potere d’acquisto sempre più inadeguato all’inflazione, dal
baratro dei conti pubblici, da una politica incapace di dialogo e di visione.
Per non parlare della pena e del senso di impotenza di fronte alle guerre in
Ucraina e nella striscia di Gaza, che continuano a mietere migliaia di vittime.
A
soffrire di più di questa opaca fase di ripiegamento sono le giovani
generazioni, quelle più sensibili anche al degrado dell’ecosistema, altra
grande fonte di preoccupazione. Cominciamo da qui il nostro dialogo con Vito
Mancuso, teologo e lucido osservatore dei fenomeni sociali del Paese.
Ricordo
che da bambino, trascorrendo le vacanze in Sicilia, vedevo uomini e donne
portare il lutto, come si diceva una volta, per settimane, per mesi, fra una
scomparsa di un parente e l’altra. Oggi si tende a non voler vivere più il
lutto come condizione perenne, quasi a volerlo esorcizzare, ad allontanarlo da
sé. Sono entrambi due eccessi, da un lato il vivere perennemente in lutto,
perché tante sono le scomparse, gli episodi di dolore personale che colpiscono
le vite di ciascuno di noi, e dall’altro il bisogno di liberarsi, di far finta
che il dolore non esista. La necessità di socializzare il dolore c’è sempre
stata. La tragedia greca nasce da qui: la polis greca una volta l’anno doveva
immergersi collettivamente nel dolore delle storie esemplari di Antigone o di
Edipo per comprendere la propria sofferenza, per metabolizzarla. Era un momento
di lavacro, di catarsi collettiva. Oggi il contesto è diverso, ma il senso
profondo è ancora lo stesso. Per questo gli applausi ai funerali non mi
scandalizzano, secondo me è un modo per parlare con le mani, per testimoniare
di fronte alla comunità la propria vicinanza.
È
necessario comprendere che noi siamo tecnica, ma non solo. La tecnica rimanda
al fare, alla dimensione prassistica e performativa della vita. L’uomo sapiens
è anche homo technologicus, ossia è un insieme di contemplazione e di prassi.
Credo che mettere in contrapposizione queste due dimensioni sia un errore o,
meglio, non concordo con chi demonizza il paradigma tecnologico in cui siamo
immersi. Ma anche qui l’aspetto educativo è fondamentale, perché la seduzione
della tecnologia e di tutti i suoi portati nella vita quotidiana è forte e può
distrarre, può indurre chi ha meno esperienza (ancora una volta i giovani) a
mettere da parte la propria dimensione contemplativa, sapienziale, che
costituisce la nostra essenza più profonda. Per questo nelle scuole si deve
improntare l’insegnamento a prospettive umanistiche e interiori, specie nei
primi anni: ci vogliono meno dispositivi e più discipline che permettono la
scoperta del proprio corpo, della voce, delle capacità espressive. L’aspetto
tecnologico avrà poi comunque la sua parte, perché permea le nostre vite, ma la
scuola dovrebbe preparare ad altro.
Vivere
una dimensione spirituale per me significa entrare a contatto con la parte più
profonda e più vera di noi stessi, quella legata all’interiorità e al pensiero.
In greco il pensiero si chiama nous, un termine che può significare anche Dio
in quanto spirito. Lei mi chiede come si fa a entrare in contatto con la parte
più profonda di sé, ossia con il nous… Per farlo bisogna coltivare dei momenti
di raccoglimento, una dimensione spirituale che Gesù invitava a raggiungere
chiudendosi nella propria “stanza” personale, nella cripta che ciascuno di noi
ha dentro di sé. L’obiettivo è coltivare il proprio silenzio interiore,
condizione e insieme meta di quello stare in quiete, di quella esikìa praticata
dai monaci dell’esicasmo che è anche vertice della meditazione buddista.
La
considerazione generale da cui partire è questa: quando certe donne assurgono a
posizioni di vertice politico o economico, capita spesso che si comportino
esattamente come gli uomini, con ciò dimostrando che i meccanismi del potere
non hanno genere. Il primo esempio che mi viene in mente è quello di Margaret
Thatcher, nota come Lady di Ferro; se la mettiamo a confronto con un politico
suo coevo come Nelson Mandela, è obiettivamente difficile ricondurre le
politiche di ciascuno a modelli patriarcali o matriarcali. Per essere
sintetici, Mandela esprime più anima, mentre Thatcher esprime più animus, come
avrebbe detto Jung. Il fatto è che dentro ciascuno di noi convivono una
dimensione maschile e una femminile. La prima si esprime più nell’idea della
forza, e la seconda nell’idea della relazione. In sé, nessuna delle due è
sbagliata. Dobbiamo ricordare che la forza è ciò che tiene insieme gli atomi,
perciò è consustanziale alla vita. Ma la forza non dovrebbe mai degenerare nel
potere e nella violenza, ecco il centro della questione. Il male è quando il
culto della forza diventa dominio e non serve più come elemento relazionale.
Purtroppo la maggior parte degli esseri umani inneggia ai vincenti, ad Achille
che uccide Ettore. Questo è il punto: non c’entra il genere, ma il culto che
della forza e del “vincente” si sono costruiti uomini e donne e che la nostra
società sembra celebrare ogni giorno.
Non
sono un esperto di social, che utilizzo unicamente per veicolare il mio
pensiero. Certo, molti indizi portano a pensare che siano fortemente connotati
da violenza e aggressione verbale. Preciso peraltro che da Twitter, che adesso
si chiama X, mi sono tolto non appena è stato acquistato da Elon Musk, perché
non voglio avere a che fare con quella persona e con la sua filosofia di vita.
Ogni civiltà ha sempre avuto alla sua base tre idee fondamentali: Dio, uomo e
mondo. Parlare di Dio oggi, almeno in Occidente, è diventato un fatto privato,
mentre un tempo il richiamo alla divinità era praticato e comunicato come parte
di un linguaggio riconosciuto e comune, al quale non ci si poteva sottrarre.
Siamo nell’antropocene, era nella quale l’essere umano con le sue attività è
riuscito a incidere drasticamente sui processi geologici, facendo dell’intero
pianeta una realtà da sfruttare. Si è persa la dimensione sacrale delle cose e
dei luoghi, che per millenni si era mantenuta più o meno intatta. Tolti Dio e
il mondo, inteso come ambiente, resta dunque l’uomo, il solo dei tre elementi
cardine a sopravvivere. L’essere umano che riesce a fare a meno di Dio e piega
l’universo ai suoi voleri dovrebbe essere felice e realizzato, eppure non lo è.
Prendiamo gli Usa, la nazione guida del mondo occidentale: là il tasso di
insoddisfazione, l’aggressività e la violenza sono ai livelli più alti. Il 40%
degli americani è obeso, ed è del tutto evidente il legame di questo dato con
un forte disagio psicologico. L’uomo divora tutto, gli oceani, le montagne,
l’aria, e alla fine anche se stesso. L’ipertrofia dell’io che tutto può e tutto
pretende è il grande male del nostro tempo. Prigioniero della trappola del
narcisismo, nessuno riesce più ad accettare che ci sia qualcosa più importante
di se stesso: il vero uomo spirituale non è chi prega, chi va in chiesa o mette
in pratica dei precetti, ma chi ha la percezione di vivere al cospetto di
realtà che sono più importanti di lui. Solo così si possono riscoprire Dio e il
mondo in quanto luogo sacrale da rispettare e da contemplare.
Non
c ‘è vera religiosità che non abbia echi panteisti. Che cos’è il Cantico delle
creature se non un inno alla gioia per tutte le cose? Perfino la morte viene
chiamata “sorella”. Tutto è permeato di Dio, nulla vi è estraneo.
Una
grande speranza che corre il rischio di diventare una plateale illusione. La
speranza era quella di un effettivo cambiamento e di un profondo rinnovamento
della Chiesa, che forse non è oggettivamente riformabile. Probabilmente quindi
non è una colpa ascrivibile a Bergoglio, che ha cercato con le forze a sua
disposizione di lottare contro il clericalismo. Ma per me lo spartiacque, il
momento in cui è cambiato il mio atteggiamento fino ad allora fiducioso nei
confronti del suo pontificato è coinciso con il Sinodo dell’Amazzonia del 2019.
In quell’occasione non è stata riconosciuta la possibilità di conferire il
presbiterato ai viri probati. Non è stata consentita cioè l’ordinazione di
uomini sposati di una certa età e di provata fede che possano celebrare messa
in quelle comunità che hanno scarsità di sacerdoti e dove è difficile che un
prete possa recarsi con regolarità. Tre quarti dell’assemblea sinodale votò a
favore, papa Francesco invece votò contro. Per me questa fu una grave mancanza
di coraggio. Non vedo grandi cambiamenti nemmeno sul diaconato femminile.
Certo,
del papa profeta del mondo ho la massima stima. Il suo messaggio è potente e
autorevole. In “politica estera”, quindi, gli do il massimo dei voti. È in
quanto capo della Chiesa, e quindi nella politica interna, che papa Francesco
non raggiunge la sufficienza.
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