La
paura e il desiderio di evitare imprevisti portano a una cultura di controllo
estremo. Ma, nel tentativo di controllare le emozioni, la società moderna
rischia di allontanarsi dalla vera felicità, perdendo di vista connessioni
sincere e scelte autentiche.
-
di Silvia Lorenzi
Così,
per documentarmi, mi sono ritrovata a leggere diversi articoli su internet, da
saggi filosofici ai cosiddetti “self-empowering books“, fino a quando mi
sono imbattuta nel video del 2016 di Zygmunt Bauman “Società e felicità”.
In 60 minuti, Bauman non solo descrive il paradosso tra felicità e società̀ di
consumo, ma si sofferma anche su elementi più̀ delicati, come la solitudine e
la paura di essere inadeguati. È una società̀ pre-Covid, quando ancora i
rapporti umani non erano influenzati dalla pandemia.
Quello
che Bauman non indaga e che, secondo me, è particolarmente presente nella
società̀ moderna è: come il mito del controllo influisce sulle nostre
emozioni, creando l’illusione che l’emotività̀ equivalga all’instabilità̀?
Ovvero, avere il controllo sulla propria vita e sulle proprie emozioni ci rende
veramente persone felici?
Il
paradosso del controllo
Ricercando
tra i vari siti, mi imbatto nel concetto del locus of control – la teoria di
Julian B. Rotter del 1954. Il locus of control si divide in interno ed esterno,
ovvero, chi crede di avere pieno controllo della propria vita attraverso le
proprie azioni ha un locus of control interno. Al contrario, chi attribuisce il
proprio successo o fallimento a cause esterne ha un locus of control esterno.
È una teoria che affonda le radici in Aristotele, che parla di un “controllo
delle emozioni” che ci accomunano a bestie, per favorire un “animale razionale
e sociale”, e che arriva fino a Daniel Goleman, psicologo americano
contemporaneo che parla della capacità di regolare le emozioni proprie e
altrui, sia positive che negative, gestendole in modo tale da raggiungere
obiettivi prefissati, la cosiddetta “intelligenza emotiva”. È un concetto che
mi ricorda la base di diversi principi del New Age che si sono diffusi dopo il
Covid, fornendo tecniche ed esercizi basati sul controllo delle emozioni, le
quali costituiscono un elemento di imprevedibilità̀ nel comportamento sociale.
Gli
ultimi anni ci hanno mostrato quanto siamo ancora impreparati ad affrontare
l’impensabile, la malattia, il crollo finanziario, fattori che ci hanno
trascinato in un massivo imprevisto sociale basato sul semplice principio della
paura della morte. Non della morte stessa, ma della responsabilità̀ delle
nostre azioni sulla morte dei nostri cari. Una paura enorme che ci ha spinto
nella direzione di applicare un controllo estremo sulle nostre vite e sulle
nostre azioni per non affrontare il senso di colpa determinato dall’idea di
essere responsabili nella disgrazia del prossimo. Questa estrema
responsabilità̀ ci ha mosso ancora di più a credere che applicare un controllo
sui nostri stili di vita, le nostre amicizie e i nostri affetti ci avrebbe
portato verso la vita e non verso la morte. Quando l’emergenza Covid si è
ridotta, abbiamo mantenuto un forte picco di stress che, per combatterlo, ci
siamo ancora rivolti all’idea di sopprimere le nostre emozioni per evitare di
ricadere in un baratro di insicurezza e, soprattutto, paura.
Se
prima del Covid serpeggiava l’idea di una vita felice connessa alla concezione
“se lo vuoi lo puoi ottenere, è tutto basato sul controllo che hai su te
stesso”, dopo il Covid questo leitmotiv si è sedimentato ancora di più,
alimentato dalla paura delle conseguenze delle nostre azioni e cercando di
limitare il più possibile gli imprevisti. Il paradosso del controllo avviene
quando, nel tentativo di controllare stati emotivi confusi e negativi come la
paura o la rabbia, si finisce per controllare tutte le emozioni, creando
un’idea di calma che si nasconde dietro una sorta di apatia emotiva. Limitando
o cercando di dominare la paura, la rabbia, l’insicurezza e il dolore, finiamo
per allontanare anche quella parte emotiva che in realtà ci rende felici. Nel
tentativo di indirizzarci verso la felicità, ci allontaniamo da essa,
emarginando allo stesso tempo coloro che sono più fragili e più emotivi per
natura.
Le
emozioni e la funzionalità̀
Bauman
fa un interessante paragone tra la cultura italiana, basata sulla comunione e
la condivisione, e quella svedese, basata sul progresso ma che purtroppo non si
sofferma sull’importanza delle emozioni. A me piacerebbe dividerle in “società
emotiva” e “società̀ funzionale“. Una “società̀ emotiva” è un sistema sociale
che, fin dalla nascita, incoraggia l’espressione delle proprie emozioni,
considerandole non solo valide, ma anche importanti. In Italia, per esempio,
cresciamo con l’idea che essere persone di carattere, capaci di esprimere
rabbia, disappunto, fragilità̀, ma anche amore e commozione, sia una qualità̀
individuale che caratterizza una certa libertà. Tuttavia, questa liberazione
emotiva ha conseguenze sul funzionamento sociale, poiché́ le emozioni, essendo
labili e mutevoli per natura, rendono la costruzione sociale fragile e
influenzata dall’umore. D’altro canto, una “società funzionale” è quella a
cui si aspira ultimamente, basata sul progresso, sul benessere e sulla
razionalità̀, come per esempio possono essere le società̀ nordiche o americane.
Nella sua lezione, Bauman cita il marchese Alexis de Tocqueville, che
all’inizio del XIX secolo viaggiò in America per studiare il fenomeno della
democrazia. Nel suo libro “Democrazia in America”, Tocqueville afferma che “la
felicità è una qualità che si ritira sempre davanti alle persone,
scomparendo dalla vista e voltando loro le spalle. Loro pensano che la
afferreranno in ogni istante, ma ogni volta scivola loro via dalle dita”.
Così, nel tentativo di perseguire questa idea di felicità basata sulla
funzionalità sociale, sul successo personale e sull’autodeterminazione,
finiamo per sopprimere il piano emotivo che teoricamente potrebbe contrastare
la nostra realizzazione. Come Bauman introduce, ciò che Tocqueville menziona è
un parallelo con il supplizio di Tantalo, torturato dalla sete e dalla fame,
appeso a un albero da frutto i cui rami si allungano su un lago di acqua dolce.
Ogni volta che tendeva la mano verso i frutti dell’albero, questi venivano
spostati dal vento; quando avvicinava le labbra all’acqua, il lago si
prosciugava.
La
solitudine, il germe moderno
La
solitudine è sempre stata il male peggiore che un individuo dovesse
affrontare. Per solitudine, non intendo la scelta dell’eremitismo, ma piuttosto
una condizione emotiva umana che può̀ sorgere dall’essere circondati da persone
o presentarsi quando si è fisicamente soli. È una solitudine con la quale
siamo stati costretti a confrontarci durante l’isolamento e che abbiamo cercato
di dominare controllando le nostre abitudini. È una paura inconscia che nasce
dalla nostra natura di esseri sociali e che in molti casi non si verifica come
scelta, ma come imposizione. La solitudine delle persone anziane è la più
comune, ma sono davvero le persone anziane a sentirsi le più sole? O forse è
una paura che si affaccia già̀ nei nostri anni migliori, quando ci costringiamo
ad avere figli che non desideriamo veramente e compagni che non sopportiamo,
cercando di controllare la nostra vita sentimentale e cercando il partner più̀
adatto, tentando di limitare le nostre paure e facendo una lista delle qualità̀
del prossimo che proviamo ad adattare alle nostre vite anche quando non
funziona, come preludio alla futura paura di rimanere soli? Un’idea di nucleo
familiare, non basata sull’amore e sulla comprensione, ma su uno sforzo
immenso, figlio del pensiero del controllo, ci porta a una forma di fuga dalla
solitudine che si intreccia con la paura del fallimento. L’uomo non nasce solo,
ma può morire solo, questa condizione è quasi terrificante nel mondo moderno
e così la concezione sociale del nucleo familiare, che non sempre funziona, è
ancora vista come uno dei massimi obiettivi da raggiungere.
“Gli
uomini, per quanto possano volersi bene, rimangono sempre lontani; se uno
soffre, il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé
una minima parte; se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche
se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita”, Dino Buzzati
La società ci promuove concetti di
individualismo e lotta personale, ma allo stesso tempo ci suggerisce di avere
figli e famiglie, di non separarci per il bene dei nostri figli. Ma siamo
davvero felici? Vogliamo veramente avere figli, sposarci e stare con il nostro
compagno/a per tutta la vita, o sempre più spesso ci costringiamo in questa
dicotomia per paura di dover affrontare un fallimento (o un imprevisto), la cui
conseguenza potrebbe essere la solitudine? Bauman sintetizza che “la solitudine
causa depressione” e, secondo me, anche “la necessità di sforzarci in legami
che non generano una connessione sincera per sfuggire alla solitudine, genera
depressione”. Nel tentativo di controllare le nostre emozioni per essere più
funzionali e orientati verso un futuro che ci rende individualisti e di
successo, ci dimentichiamo e sopprimiamo una parte più nascosta e intima del
nostro essere, quella che ci fa scegliere le connessioni vere, basate sul
piacere di stare insieme e sull’affetto, e le scambiamo con costrutti sociali
che vengono imposti come rimedi fittizi. Le emozioni guidano la nostra
capacità di scegliere chi avere accanto, di decidere se avere figli per il
piacere di crescerli. Ci danno la conoscenza necessaria per decidere se
continuare una relazione o interromperla e sono il nostro metro di misura e le
nostre reazioni ai fattori esterni che ci consentono di destreggiarci lungo un
percorso tortuoso, fornendoci l’elemento che mancava a Tantalo per sopravvivere
alla punizione degli Dei: la speranza.
“Le
emozioni ci consentono di destreggiarci lungo il tortuoso percorso della vita,
fornendoci l’elemento che mancava a Tantalo per sopravvivere alla punizione
degli Dei: la speranza”.
Nessun commento:
Posta un commento