senza mentore.
- - di Alessandro D’Avenia
«Ci sono molti che
studiano fisica perché gli riesce facile ma la fisica per loro è spesso solo un
mezzo per far soldi in altri ambiti. Io non sono così bravo, devo faticare
tanto, però non ho scelto la fisica per fare altro, ma per continuare a
interrogarmi sul senso delle cose».
Così mi ha detto un
ex-alunno che è venuto a trovarmi, raccontandomi di aver appena ottenuto un
dottorato di ricerca in fisica teorica in una prestigiosa università
internazionale e confidandomi il suo sogno per il futuro. Questo incontro,
avvenuto in giorni scolasticamente faticosi, mi ha dato una gioia particolare:
veder la luce di una vocazione in cui abbiamo creduto quando lui aveva 17-18
anni, mi ha confortato sul valore di un mestiere divenuto sempre più difficile
proprio per la difficoltà di ascoltare le singole vite. In questi mesi, dopo
l’uscita del nuovo libro, ho incontrato centinaia di persone. Diversi sono
giovani che si preparano con slancio a diventare insegnanti, ma sono già delusi
da un sistema che mina l’essenza della professione: come posso far fiorire la
vita di altri se la mia non viene rispettata? Quando chiedevo loro: come hai
scelto questa strada? Tutti attribuivano la loro vocazione a qualcuno che li
aveva presi sul serio durante il percorso scolastico. E così mi sono ricordato
di alcuni Maestri che mi hanno aiutato a scoprire la mia. Seppur molto diversi
hanno in comune qualcosa. Che cosa?
La maestra Gabriella
all’asilo. Anni in cui giocare e imparare erano tutt’uno, l’immaginazione era
il motore dell’intelligenza, il sapere era scoprire e inventare. Il giorno più
bello era quello del pongo, la plastilina degli anni ‘80 che rimaneva sotto le
unghie per mesi. Costruivamo astronavi e protagonisti di avventure che
terminavano sempre in un’unica grande massa marrone. Sapevamo che la storia
doveva essere memorabile, perché avrebbe fatto la fine irreversibile
dell’entropia. La maestra Gabriella, a cui mando un augurio per le sue
condizioni di salute, incoraggiava la nostra capacità creativa, ma la
disciplinava con obiettivi precisi: da lei ho imparato che le regole non sono
una fregatura ma limiti entro i quali la creatività non si disperde, come i
versi per un poeta, la scala per un musicista, il marmo per uno scultore. È il
dialogo con la realtà, l’umiltà di fronte al limite e l’obbedienza alle cose
che permette all’immaginazione di vedervi infinite possibilità. E poi mi
insegnò in anticipo a leggere, perché lo desideravo. Mi aveva preso sul serio.
Poi è arrivata la maestra
Russo: si usava il cognome, eravamo approdati alle elementari. Insegnante di
lungo corso, ci guidava con fermezza e grazia. Da lei ho imparato a scrivere e
a far di conto, ma soprattutto a far di racconto. Non stavo mai zitto, nella
pagella scriveva sempre: «chiacchiera troppo», ma mi aiutò a disciplinare quel
«talento» scomposto. Anche lei mi prese sul serio: mi faceva raccontare le
storie che inventavo. Mi ispiravo ai cartelloni delle lettere appesi alle
pareti: farfalla, gnomo, ciliegie... I racconti nascevano dai legami segreti
tra quelle figure: che cosa facevano quando la scuola era vuota, nottetempo. La
prima storia che inventai narrava infatti di uno «Gnomo» invidioso di una
«Farfalla»: lui va sempre in miniera a lavorare e vive al buio, mentre lei gode
di altezze, profumi e luce. Per invidia prende il «Coltello» e decide di
impadronirsi delle ali della farfalla... È una storia che conteneva già la
domanda che mi assilla da allora: perché le cose belle devono finire? La maestra
Russo in terza andò via, per sempre... e fu sostituita da maestre ben diverse.
E così mi trovai a vivere proprio quella domanda: perché le cose belle
finiscono?
Fu la volta del professor
Viola: italiano alle medie. Giovane e rigoroso. A lui devo la mia passione per
la scrittura. Ci faceva leggere storie che poi dovevamo imitare, racconti da
riscrivere o re-inventare. Un giorno fece leggere ai miei genitori una di
quelle storie in forma di novella medievale. Ero felice: degli adulti
apprezzavano il mio modo di essere. Di lui ricordo anche la capacità di farci
appassionare alle tre analisi: grammaticale, logica e del periodo. Ci
divertivamo mettendo in ordine il caos del mondo con l’ordine delle parole:
l’amore per la grammatica è amore per il mondo. E in terza media ci iniziò
anche alle fatiche del latino, in anticipo. Ci prendeva sul serio.
Poi incontrai il
professor Franchina, italiano alle superiori. A lui devo il fascino per
l’analisi letteraria, toccava le pieghe di un testo come fosse la carne della
vita. Poteva sostare su una poesia per settimane e non era assillato dal
programma, tanto che cominciammo a studiare alcuni autori del ‘900 sin dal
primo anno, di pari passo con la normale cronologia della storia della
letteratura. Quella libertà mi colpì. Le interrogazioni non gli servivano a
scoprire che cosa non sapessimo, ma ad ascoltare che cosa avessimo scoperto. Un
giorno mi prestò il suo libro di poesie preferito, imponendomi la lettura in
due settimane. Quell’esperienza mise le ali alla mia mente e al mio cuore: un
atto di fiducia che è valso parte della mia vocazione. Mi aveva preso sul
serio.
Ci sarebbero altri
Maestri, ma mi basta citare questi per scorgere che cosa li accomuna: avermi
preso sul serio senza farmi sconti, avere intercettato e allenato una voce
esile facendola diventare vocazione, essere stati rigorosi e teneri al tempo
stesso: non seduttori ma conduttori, non complici ma mentori. Nell’Odissea è
Atena che ha questo ruolo: dà avvio alla trama del poema, andando subito a
Itaca a svegliare il figlio di Ulisse, Telemaco, perché si metta in cerca del
padre invece di lamentarsi. Ma lo fa scegliendo di assumere l’aspetto di
Mentore, un caro amico di Ulisse, rimasto a lui fedele. Il suo nome, Mentore,
divenuto poi per antonomasia il modo di indicare una guida, significa dare
energia alla mente, essere fonte di ispirazione. Questo è un Maestro, il divino
fuori di noi che risveglia il divino in noi, mette in moto la trama del nostro
poema: non c’è eroe senza mentore. Per questo io oggi vorrei ringraziare questi
mentori (e quelli di cui per motivi di spazio non ho parlato) con le parole finali
della tesi in fisica teorica del mio ex-alunno: «Questa idea è affidata al
futuro, quando forse chi verrà dopo riterrà sorprendente che, per così tanto
tempo, abbiamo brancolato nel buio». I Maestri hanno un’idea di futuro: il
nostro nome. E se oggi manifestassimo un po’ di gratitudine ad almeno uno di
loro?
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